Reato di diffamazione: condannato per aver offeso degli operai al lavoro e per aver pubblicato la loro foto su Facebook

Il caso 

Un uomo pubblicava sul proprio profilo Facebook una fotografia che riprendeva quattro operai del Comune di Cecina durante lo svolgimento delle loro mansioni.

Come didascalia l’uomo scriveva “stazione di Cecina, uno lavora, uno tiene il secchio e due si occupano di relazioni istituzionali, una specie di corpo diplomatico”.

La Corte d’Appello di Firenze confermava le decisioni di primo grado e condannava l’uomo per il reato di diffamazione.

Con il ricorso per cassazione il legale dell’uomo lamenta alcuni vizi motivazionali. Il difensore sottolinea che “la didascalia rendeva evidente che l’imputato non intendeva riferirsi ai due dipendenti comunali effettivamente impegnati”, ossia le costituite parti civili. Inoltre “la critica svolta aveva comunque il suo fondamento in un contenuto di verità e che la sentenza impugnata aveva affrontato esclusivamente la questione relativa all’esimente della critica politica, non considerando il più generale profilo del diritto di critica”.

La Suprema Corte nel caso di specie pone rilievo sul fatto che, “a posteriori, quando ormai la diffamazione era stata consumata”, lo stesso ricorrente “ha dovuto difendere i quattro operai dagli attacchi che si sono susseguiti dopo la pubblicazione sul suo profilo Facebook della foto e del commento sopra ricordato. Ciò dimostra che non si espone a dubbi di logicità la motivazione con la quale i giudici di merito hanno ricostruito la portata diffamatoria della comunicazione coinvolgente tutti i lavoratori della squadra fotografata, evidentemente additati e in tal modo intesi da coloro che seguivano il profilo dell’imputato – come degli sfaticati, in quanto componenti del gruppo”.

I Giudici ribadiscono infine che “non è sufficiente un qualunque collegamento con singoli episodi a giustificare conclusioni critiche che, aspre o non che siano nei toni, offendono la reputazione dei soggetti interessati, finendo per essere suggestive ed insinuanti, nella misura in cui lasciano intendere ai destinatari della comunicazione, ossia non risponde al vero – espressione di una condotta generalizzata”.

Con la sentenza n. 11426/21 del 24 marzo la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.