Il caso
Un uomo, in qualità di collaboratore amministrativo in servizio presso una A.u.s.l., si appropriava di due assegni bancari, consegnatigli da un utente “in distinti momenti”, per il pagamento della relativa quota di spese sanitarie “per il ricovero del proprio fratello presso una residenza sanitaria assistita”.
La Corte d’Appello di Catania confermando la sentenza per il delitto di peculato, disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siracusa condannava l’uomo al pagamento delle conseguenti statuizioni risarcitorie ed indennitarie in favore della parte offesa.
Avverso tale decisione l’imputato propone allora ricorso per cassazione lamentando l’erronea qualificazione del fatto quale peculato e non come reato di truffa aggravata.
I Giudici di terzo grado ritengono che il ricorso non abbia alcun fondamento giuridico.
In tema di peculato, “il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto comunque di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento”.
L’elemento distintivo tra i delitti di peculato e di truffa aggravata risiede “nelle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione”. Si configura quindi il reato di peculato “quando l’agente pubblico si appropri di quanto già sia nella sua disponibilità, materiale o giuridica, per ragione del suo ufficio o servizio” mentre si configura la truffa aggravata “qualora l’agente, non avendo tale disponibilità, se la procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, in funzione della condotta appropriativa del bene”.
La Suprema Corte ritiene quindi corretta la qualificazione giuridica della condotta del ricorrente, come operata dai giudici di merito.
I Giudici hanno già avuto modo di specificare che commette peculato “l’agente pubblico che ometta di versare il denaro ricevuto nell’interesse dell’amministrazione per la quale agisce, in quanto il denaro entra nella disponibilità di quest’ultima nel momento stesso della consegna al pubblico ufficiale, senza che abbiano rilievo alcuno le modalità di riscossione e l’eventuale irritualità dei mezzi di pagamento, anche in contrasto con disposizioni ed assetti organizzativi dell’ufficio, e la circostanza che il pubblico ufficiale sia entrato nel possesso del bene nel rispetto o meno delle competenze che il mansionario interno prevede”.
Con la sentenza n. 25913/21 del 7 luglio la Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione e conferma le statuizioni civili.