Il caso
La Corte d’Appello di Milano confermando la decisione del Tribunale condannava un “transessuale esercente la prostituzione” per il reato di diffamazione aggravata e lo sanzionava con una multa di 2000 euro e con un risarcimento di 10000 euro in favore della persona offesa.
L’imputato aveva sostenuto su FB,“comunicando con più persone”, la presunta omosessualità di un esponente politico, “nonché di aver intrattenuto con un lui un rapporto sessuale; inoltre, lo aveva apostrofato come ‘froc*o’ e ‘schifoso’”.
La persona transessuale proponeva ricorso per cassazione avverso tale decisione lamentando la violazione degli artt. 8 c.p.p. e segg. e contestando “il carattere diffamatorio” delle espressioni indirizzate alla persona offesa, che “avrebbero perso, per ‘l’evoluzione’ della coscienza sociale, il carattere dispregiativo ad esse attribuito dal giudicante”.
Il ricorso risulta inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Secondo i Giudici di terzo grado le suddette espressioni costituiscono “oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate – in ogni dove – dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono – per recare offesa alla persona – proprio ai termini utilizzati dall’imputato”.
La Suprema Corte ricorda che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca FB integra “un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata ‘con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’ diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”.
Con al sentenza n. 19359/21 del 17 maggio la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.