È sfruttamento della prostituzione se la dipendente si prostituisce volontariamente?

Il caso

La titolare di un centro massaggi veniva condannata dal Tribunale di Palermo e dalla Corte d’Appello di Palermo per sfruttamento della prostituzione aggravato dal fatto che la persona offesa era una sua dipendente presso il centro massaggi.

L’imputata proponeva ricorso per cassazione giacché la sua dipendente si prostituiva volontariamente offrendo i suoi servizi “extra” senza che questa soffrisse di pressioni e condizionamenti psichici e fisici, al contrario traendone un suo vantaggio personale.

I Giudici considerano il ricorso infondato e sottolineano che la legge Merlin preveda l’aggravante “se il fatto è commesso ai danni di persone aventi rapporti di servizio domestico o di impiego”.

Nella tutela della “libertà di autodeterminazione sessuale” non si integra la prostituzione volontaria. Offrire prestazioni sessuali a pagamento costituisce a tutti gli effetti un’attività economica e non può essere considerato un mezzo di tutela e sviluppo.

La legge Merlin protegge la “dignità della persona” e tale bene giuridico non può essere oggetto di contrattazione.

La Suprema Corte afferma il seguente principio di diritto: «la locuzione “ai danni” presente nella L. 20 febbraio 1958, n 75, art. 4, ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti (e contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7 bis), non sta ad indicare un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma intende esprimere l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso “ai danni” di persona in stato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata (n. 2), di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego (n. 5), di più persone (n. 7) o di una persona tossicodipendente (n. 7-bis): quella espressione, cioè, equivale a ‘in confronto di- (v., in senso conforme, nella più remota giurisprudenza, la condivisibile Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967 -dep. 23/03/1967, Polettini, Rv. 103839 – 01)».

Con la sentenza n. 9218/21 del 25 gennaio la corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.