Udienza da remoto: responsabile l’avvocato che sbaglia tempistiche e indirizzo PEC della richiesta

Il caso

Un uomo veniva arrestato per essersi impossessato di una Lamborghini e per aver usato violenza contro una persona nel tentativo di darsi alla fuga. 

Colto nella flagranza del reato di rapina impropria gli vengono applicati gli arresti domiciliari dal GIP del Tribunale di Avezzano prima e dal Tribunale di L’Aquila poi.

Ricorrendo in Cassazione l’indagato lamenta violazione di legge.

Secondo il difensore dell’uomo l’ordinanza pronunciata dal GIP è nulla in quanto “l’udienza è stata tenuta in assenza di contraddittorio, nonostante la difesa abbia più volte chiesto di parteciparvi in modalità videoconferenza, così come indicato nel decreto di fissazione”.

L’avvocato deduce che “il 24 dicembre 2020 è stato comunicato il decreto di fissazione udienza in cui era indicata la data del 31 dicembre 2020 e l’avviso al difensore che l’udienza sarebbe stata celebrata mediante collegamento audiovisivo. La difesa ha più volte inoltrato il proprio indirizzo al recapito PEC indicato, ma l’indirizzo non è risultato valido; il difensore ha contattato telefonicamente la cancelleria del tribunale per comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza, ma non ha ottenuto nessuna risposta e l’udienza è stata celebrata in sua assenza”.

La Suprema Corte ritiene il ricorso manifestamente infondato.

Emerge infatti dall’esame degli allegati che il difensore era stato ritualmente avvisato che per partecipare all’udienza avrebbe dovuto inviare almeno 48 ore prima della stessa il proprio recapito all’indirizzo indicato per consentire alla cancelleria di contattarlo.

La responsabilità dell’accaduto ricade quindi esclusivamente sul difensore per aver egli inviato la richiesta solo 24 ore prima dell’udienza ad un indirizzo diverso da quello indicato dalla cancelleria e riportato nell’avviso di fissazione.

Ai sensi dell’art. 182 c.p.p. l’avvocato difensore non può dolersi della nullità cagionata per l’omesso contraddittorio, “avendola lui stesso provocata”.

Con la sentenza n. 24280/21 del 21 giugno la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.