Disturba la messa e chiede dei soldi per andarsene: è estorsione

Il caso

Un uomo si presentava sistematicamente in una chiesa della periferia romana “disturbando ripetutamente la celebrazione delle funzioni sacre con schiamazzi ed urla e minacciando il sacerdote di non cessare l’azione di disturbo” prima che quest’ultimo non gli avesse versato piccole somme di denaro (15-40 euro).

Trattandosi di una condotta perdurante il sacerdote provvedeva a segnalare l’uomo alle forze dell’ordine.

La Corte d’Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Roma e condannava l’imputato per il reato di estorsione.

Il legale dell’uomo propone ricorso per cassazione sottolineando principalmente la mancanza di minaccia alcuna “non essendovi stati alcun disturbo delle funzioni sacre ed alcuna coartazione effettiva della volontà del parroco ad opera dell’imputato, ma semmai mera condotta molesta”.

La Suprema Corte condivide la linea tracciata dai giudici di merito in primo e secondo grado ritenendo il ricorso manifestamente infondato.

 Secondo i Giudici “deve rilevarsi come risulti pacifico nel caso di specie che vi sia stata la coartazione del soggetto passivo che – in quanto ministro di culto – era messo nella sostanziale impossibilità di svolgere la sua funzione dalle (interessate) attività di disturbo del T. che – ben conoscendo la presenza di simili condotte perpetrate anche da parte di altro coimputato – aveva avuto facile gioco nell’ottenere un corrispettivo per la cessazione delle proprie gridate esibizioni. Nel valutare tali condotte, la Corte ha valorizzato caratteri qualificanti della condotta quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso operava, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima”.

 Quanto affermato “esclude la possibilità di qualsivoglia diversa qualificazione dei fatti perché molestie e disturbo richiamati dall’art. 660 c.p. risultano avere assunto nel caso di specie una finalizzazione patrimoniale del tutto estranea al reato di molestie e coessenziale al delitto di estorsione”:

Con la sentenza n. 11949/21 del 29 marzo la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.