Uomo pedina e tempesta di messaggi la ex moglie per monitorarne l’attività lavorativa: è stalking

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Il caso

La Corte d’Appello di Trento confermando la sentenza del Tribunale di Rovereto condannava un uomo che si era reso responsabile di atti persecutori ai danni della ex moglie mediante pedinamenti e messaggi su whatsapp.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato lamentando tra gli altri motivi vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta credibilità della ex coniuge e al “presunto” stato di ansia permanente da lei lamentato.

L’uomo nel tentativo di fornire la propria versione dei fatti raccontava di aver seguito la ex moglie  con l’intento di scoprire una sua eventuale attività lavorativa così da poter ottenere una riduzione dell’assegno di mantenimento posto a suo carico nei confronti della stessa.

Il ricorso risulta inammissibile.

I Giudici ritengono puntuale la motivazione della Corte d’Appello “anche con riferimento alle ulteriori molestie”, che, nel periodo temporale preso in esame, si erano andate ad aggiungere ai pedinamenti. 

Tali molestie, poste in essere attraverso i numerosi messaggi su Whatsapp inviati dal ricorrente alla ex coniuge, erano rappresentate da continue “minacce, insulti, promesse di ritorsione, richieste intimidatorie di conoscere informazioni sulla sua vita personale e lavorativa”. 

Risulta fallace la tesi difensiva, secondo cui, “attraverso i suddetti pedinamenti e messaggi, l’imputato voleva solo scoprire se la ex moglie lavorava percependo un reddito, al fine di ottenere la restituzione del denaro che le aveva prestato, nonché una riduzione dell’importo dell’assegno di mantenimento posto a suo carico”. 

È evidente che “le pretese finalità di difesa nel giudizio civile di separazione tra i due ex coniugi rappresentate dal prevenuto, non possono giustificare in alcun modo atti intimidatori gravemente invasivi della sfera personale” della persona offesa, atti “del tutto estranei all’esercizio del diritto di difesa”. 

Incontestabile secondo i Giudici lo stato di “prostrazione psico-fisico” insorto nella ex coniuge e “rilevato de visu dai carabinieri che avevano proceduto all’arresto in flagranza dell’uomo e confermato dalla documentazione sanitaria”. 

Il fatto che la donna abbia pubblicato sul proprio profilo Facebook “immagini felici della propria persona” non rende deducibile un venir meno della condizione sintomatica del perdurante e grave stato di ansia e di paura da lei patita.

Con la sentenza n. 111/22 del 5 gennaio la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.