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Cassazione civile sez. I sentenza 26/10/2015 n.21711

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione, notificato in data 14-10-2005, B. F. conveniva davanti al Tribunale di Orvieto Banca INTESA S.p.A. chiedendo dichiararsi la nullità, annullabilità o risoluzione per inadempimento del contratto quadro e degli ordini di acquisto di azioni argentine effettuate tra il 1998 e il 2000, con condanne alle restituzioni e al risarcimento dei danni. Lamentava gravi violazioni di legge da parte della banca, in particolare collegate alla mancanza o insufficienza di informazioni.
Costituitosi il contraddittorio, la banca chiedeva rigettarsi ogni domanda contro di lei proposta e instava per la chiamata in causa di B.S., essendo le azioni a lui cointestate.
Si costituiva il terzo chiamato, B.S., nipote dell’attore, e aderiva in sostanza alle domande dell’attore stesso.
Il Tribunale di Orvieto, con sentenza in data 3-12-2007, accoglieva le domande.
Proponeva appello Banca INTESA. Si costituivano entrambe le parti appellate, chiedendone il rigetto.
La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza in data 6/7/2011, in accoglimento dell’appello e in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava le domande delle parti appellate.
Ricorre per cassazione B.F..
Propone ricorso incidentale B.S..
Resiste al ricorso principale e a quello incidentale, con due controricorsi, INTESA Sanpaolo S.p.A., successore di Banca INTESA. Il ricorrente principale deposita memoria difensiva.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell’art. 1218, 1453 e 2697 c.c., sull’onere della prova, in ordine alla risoluzione per inadempimento contrattuale.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c. circa le domande di risoluzione contrattuale e condanna alle restituzioni, in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Con il terzo, vizio di motivazione in relazione, ancora, alle domande di risoluzione contrattuale. Con il quarto, violazione dell’art. 345 c.p.c., con riguardo, al preteso nesso causale tra la violazione ex art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 Reg. Consob 11522/98 e il danno lamentato (novità della domanda proposta).
Con il quinto, vizio di motivazione circa l’insussistenza del nesso causale fra l’omessa informazione di inadeguatezza al cliente e il danno subito.
Con il sesto, violazione dell’art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 predetto Regolamento Consob, là dove il Giudice a quo ha ritenuto che l’odierno ricorrente fosse stato adeguatamente informato, chiedendo comunque di procedere all’investimento.
Con il settimo, vizio di motivazione circa vari punti decisivi della controversia, sull’inadeguatezza dell’informazione, sul consenso del cliente, anche con riferimento alla circostanza della falsità di firma di alcuni ordini.
Con l’ottavo, violazione dell’art. 21 T.U.F. e dell’art. 27 predetto Regolamento, in ordine alla raccolta di informazioni sullo stato del cliente.
Con il nono, vizio di motivazioni con riferimento al conflitto di interessi della banca, che aveva alienato al B. titoli di sua proprietà.
Con il decimo, violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla domanda di nullità degli ordini di acquisto, già formulata in primo grado, su cui vi era stata omessa pronuncia.
Il ricorso incidentale presenta ampie analogie rispetto a quello principale.
Con il primo motivo, il ricorrente incidentale lamenta violazione degli artt. 1218, 1453 e 2697 c.c., con riferimento alla domanda di risoluzione contrattuale.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c., circa il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Con il terzo,vizio di motivazione in relazione alla domanda di risoluzione contrattuale.
Con il quarto, vizio di motivazione circa l’insussistenza del nesso causale tra l’omessa informazione al cliente e il danno subito.
Con il quinto, violazione dell’art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 Regolamento Consob 11522/98, con riguardo all’affermazione del Giudice a quo per cui B.F. era stato adeguatamente informato, chiedendo comunque di procedere all’investimento.
Con il sesto, vizio di motivazione circa vari fatti decisivi della controversia, sull’inadeguatezza dell’informazione, sul consenso del cliente, anche con riferimento alla circostanza della falsità di firma di alcuni ordini.
Con il settimo, vizio di motivazione, con riferimento al conflitto di interessi della banca, che aveva alienato titoli di sua proprietà.
Preliminarmente, va precisato che i rapporti in questione si sono svolti sotto l’impero del D.Lgs. n. 58 del 1998 (T.U.F.) e del Regolamento Consob 11522 del 1998.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata (tra le altre, Cass. n. 3773 del 2009), in materia di contratti di intermediazione finanziaria, ove risulti accertata la responsabilità contrattuale per danni subiti dall’investitore, va acclarato se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni del contratto di negoziazione, nonchè a tutte le obbligazioni poste a suo carico dai predetti testi normativi, così disciplinando il riparto dell’onere della prova: l’investitore deve allegare l’inadempimento delle obbligazioni, nonchè fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra esso e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, deve provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito con la specifica diligenza richiesta.
Non può parlarsi di inammissibilità dei ricorsi, come afferma la controricorrente: i documenti su cui essi si fondano sono indicati ed ampiamente richiamati, e talora (così nel ricorso principale, in un caso) addirittura riprodotti integralmente.
Possono trattarsi congiuntamente, per gran parte, i motivi proposti nei due ricorsi, frequentemente coincidenti.
I primi tre motivi del ricorso principale e di quello incidentale, vanno rigettati in quanto infondati, pur presentando alcuni profili di inammissibilità.
Com’è noto, per giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. S.U. n. 26794 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), la violazione dei doveri di informazione e di corretta esecuzione delle operazioni poste dalla legge a carico degli intermediari, non produce nullità, ma da luogo a responsabilità, precontrattuale in ordine al contratto – quadro, ovvero responsabilità contrattuale per i successivi ordini di acquisto, con eventuale risoluzione e/o risarcimento del danno.
Risoluzione, la cui azione l’altro, ha presupposti differenti rispetto alla mera azione di risarcimento dei danni (primo, tra tutti, quello dell’importanza dell’inadempimento cui i ricorrenti non fanno specifico riferimento); del resto non sempre e comunque alla risoluzione consegue una totale restituzione, come sembrano invece ritenere i ricorrenti stessi.
I motivi (in particolare il secondo e terzo) sono, come si diceva, almeno in parte non autosufficienti: i ricorrenti censurano il mancato esame della domanda di risoluzione, lamentando violazione dell’art. 112 c.p.c., e carenza di motivazione, senza indicare le argomentazioni in fatto e diritto eventualmente sviluppate al riguardo.
Come si vedrà, nella maggior parte dei motivi che seguono i ricorrenti sembrano “dimenticare” la domanda di risoluzione (e restituzione), soffermandosi invece sugli inadempimenti, sul danno, sul nesso eziologico e sull’onere della prova.
Appare infondato il quarto motivo del ricorso principale.
La controricorrente, al riguardo, precisa che, fin dal primo grado, essa aveva affermato l’insussistenza del nesso eziologico tra inadempimento e danno, e, in omaggio al principio di autosufficienza, indica le pagine della memoria di replica e comparsa conclusionale in primo grado. In effetti dall’esame di tali documenti, che questa Corte può effettuare, trattandosi di questione processuale, emerge che, nel primo si fa esplicito riferimento al predetto profilo, sviluppato poi nel secondo.
Quanto al decimo motivo del ricorso principale, da trattarsi a questo punto, per ragioni sistematiche, non si ravvisa il lamentato vizio di omessa pronuncia: il ricorrente principale richiama le proprie conclusioni in sede di appello incidentale, con la domanda di nullità del contratto quadro e dei singoli ordini di acquisto, ma riguardo alle violazioni di legge, e non con riferimento alla violazione di una clausola contrattuale. Nella comparsa di risposta, con appello incidentale, si fa bensì un limitato accenno alla forma contrattuale ma senza riferimento alcuno a clausole contrattuali.
Pertanto il giudice a quo non poteva pronunciarsi su quanto non era stato specificamente indicato.
Gli altri motivi dei due ricorsi appaiono fondati.
I ricorrenti, come si diceva, sembrano a questo punto riferirsi ad un’azione di risarcimento del danno per inadempimento, richiamando correttamente le specificità della fattispecie e la normativa di riferimento, già sopra indicata, incidente, all’evidenza, e come già si precisato, anche sull’onere della prova.
La Corte territoriale si riferiva esattamente alle indicazioni di questa Corte già sopra indicate, in ordine all’inadempimento, al danno, al nesso di causalità e relativo onere della prova, ma non ne traeva le necessarie conseguenze in ordine alla fattispecie dedotta.
Pare opportuno evidenziare il contesto di fatto, pacifico tra le parti: nove ordini di acquisto, di cui sette a firma apocrifa, due soltanto a doppia firma del ricorrente principale circa l’ordine di effettuare investimento e l’inadeguatezza delle obbligazioni, uno non prodotto dalla banca. Si ravvisano gravi violazioni di legge e altrettanti vizi di motivazione.
Non poteva la Corte d’Appello ritenere insussistente il nesso causale tra l’informativa di inadeguatezza al cliente e il danno da lui subito, nella considerazione del tutto illogica che egli, avendo preso consapevolezza dell’inadeguatezza dell’operazione, con riferimento agli ultimi due ordini, e comunque preferito investire ancora, piuttosto che disinvestire gli ordini precedenti, avrebbe manifestato la volontà di perseguire alti interessi, pure a rischio di subire la perdita del capitale. Ovviamente il disinvestimento non prova nulla, potendo tale scelta essere influenzata da molteplici fattori; nè potrebbe escludersi che l’investitore, non avendo ricevuto adeguata informativa, sia stato indotto a sottoscrivere anche gli ultimi due ordini, confidando nella bontà dell’investimento. Del resto, appare pacifico che l’attore provenisse da forme di investimento sicure e senza rischio, per cui il suo profilo appariva più volto alla conservazione del capitale che alla speculazione, come precisato dai ricorrenti.
Com’è noto, l’art. 21 T.U.F., in materia di prestazione di servizi di investimento, detta una serie di criteri generali cui l’intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente: egli deve acquisire le informazioni necessarie dal cliente stesso ed operare in modo che questi sia adeguatamente informato: tali obblighi sono specificati dagli artt. 28 e 29 Reg. Consob, per cui l’intermediario deve avere informazioni dal cliente stesso sulla sua tipologia di investitore, sulla situazione finanziaria, sugli obiettivi di investimento e sulla sua propensione al rischio; in caso di operazione ritenuta inadeguata, egli deve informare specificamente il cliente delle ragioni, per cui non è opportuno procedere e, ove questi, intenda comunque dar corso all’operazione, eseguirla soltanto su ordine scritto. Tali obblighi, per l’intermediario, si collocano sia al momento della stipulazione del contratto, sia all’atto di effettuare i singoli investimenti. Egli deve pertanto disporre di informazioni aggiornate, in relazione ad ogni singolo investimento da effettuare.
La Corte di merito ha accertato l’inadeguatezza degli investimenti, ma ha sostanzialmente ritenuto legittimi anche gli ordini apocrifi e quello non prodotto dalla banca, pure in assenza del consenso scritto del cliente, con riferimento al quale risultava all’evidenza accertato l’inadempimento della banca stessa.
Il Giudice a quo ha erroneamente ritenuto completa l’informazione data al cliente sugli ultimi due ordini, sulla base di una crocetta apposta su modulo prestampato e unico per tutte le tipologie di clientela, ove si indicava unitariamente l’inadeguatezza dell’operazione: il modulo viene riportato, in omaggio al principio di autosufficienza, nel ricorso principale. E’ appena il caso di precisare che l’informazione resa ad un cliente dotato di conoscenza e di esperienza degli strumenti finanziari, non può avere eguale efficacia rispetto ad un altro di modesta cultura ed esperienza.
Anche in ordine alla raccolta di informazioni sullo status del cliente, va precisato che, a differenza di quanto afferma la Corte d’Appello, l’obbligo della raccolta di informazioni non poteva esaurirsi nei limiti della situazione finanziaria del cliente all’atto della stipula del contratto quadro, ma sussisteva obbligo di continuo aggiornamento all’atto dell’effettuazione degli investimenti (e ciò pur con riferimento alla normativa in vigore all’epoca) (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 26724 del 2007).
Quanto al conflitto di interessi, l’argomentazione del giudice a quo appare del tutto inadeguata, là dove afferma che negli ordini era indicato il limite di prezzo con riferimento ai prezzi praticati nelle transazioni, e da ciò fa derivare la proprietà dei titoli in capo alla banca, null’altro aggiungendo.
Accolti i motivi suindicati, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Firenze, territorialmente prossima a quella di Perugia, per nuova valutazione degli inadempimenti e del danno, precisando che questo, ovviamente, può considerarsi oltre che attraverso prove specifiche pure con riguardo a presunzioni o ad eventuali ammissioni della controparte.
Il giudice a quo si pronuncerà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla corte di Appello di Firenze.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 22/10/2015 n.21499

Una volta cessata l’aspettativa sindacale e riattivato l’originario rapporto di lavoro, l’assenza del lavoratore, che dipenda dall’evento che ha dato luogo all’infortunio sul lavoro nel periodo di aspettativa sindacale, non può che essere imputata, rispetto all’originario datore di lavoro, ad un’attività extralavorativa, in quanto non riconducibile al rapporto di lavoro originario, ciò perché durante l’aspettativa sindacale il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione; infatti, l’organizzazione sindacale, in quanto beneficiaria della prestazione di cosiddetto lavoro sindacale, è tenuta a corrispondere all’INAIL il premio assicurativo computato sull’indennità erogata al lavoratore sindacalista.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 20/10/2015 n.21225

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con sentenza depositata in data 14 luglio 2010 la Corte d’appello di Napoli, in parziale accoglimento dell’appello proposto da I. L., lavoratore dipendente del Comune di Afragola con la qualifica e le mansioni di custode, condannava il Comune al pagamento in suo favore della somma di Euro 6.123,97, oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli crediti sino all’effettivo pagamento.
2. La Corte osservava che non vi era contestazione sul fatto che il dipendente avesse svolto attività di custodia in favore del Comune nelle domeniche e nei giorni festivi e che non avesse goduto dei riposi compensativi. Riteneva che, ai sensi del D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, art. 17, relativo alla disciplina del comparto degli enti locali, al lavoratore spettava la maggiorazione del 20% sul lavoro domenicale svolto, nonchè la retribuzione per i giorni di riposo compensativo non fruiti; che, nel regolamentare la remunerazione della giornata destinata al riposo settimanale con la retribuzione ordinaria unitamente alla maggiorazione del 20%, la norma assolveva unicamente ad una funzione retributivo-corrispettiva, e non anche risarcitoria, con la conseguenza che al lavoratore spettava la retribuzione per i riposi compensativi non fruiti, parametrati al lavoro svolto di domenica con la maggiorazione del 20%, nonchè il risarcimento del danno da usura psico-fisica per il mancato godimento dei riposi compensativi, che liquidava ex art. 1226 facendo ricorso all’importo della paga giornaliera, non contestata nella sua entità, per ogni giornata di riposo non goduta.
3. Contro la sentenza il Comune di Afragola propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, cui resiste con controricorso lo I..
4. Con il primo di ricorso il Comune censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., e D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, art. 17, nonchè per contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Reputa che l’assunto della Corte territoriale circa la natura non risarcitoria della maggiorazione sancita dall’art. 17, del D.P.R. citato non rispetta il dettato normativo e, comunque, non è stato adeguatamente motivato.
5. Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione delle medesime norme di diritto, cui aggiunge l’art. 36 Cost., e la contraddittorietà della motivazione, assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il danno alla salute derivante dalla mancata fruizione del riposo compensativo oltre il sesto giorno consecutivo di lavoro non ha necessità di essere provato.
6. Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c.), nonchè la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto non contestati i conteggi allegati dal lavoratore e sulla cui base ha determinato l’importo al cui pagamento l’ha condannato.
8. I primi due motivi, che si affrontano congiuntamente in quanto involgono la medesima questione della disciplina legale e contrattuale del riposo oltre il sesto giorno lavorativo, sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di ribadire che la fattispecie di prestazione di lavoro domenicale senza riposo compensativo non può essere equiparata a quella del riposo compensativo goduto oltre l’arco dei sette giorni, atteso che una cosa è la definitiva perdita del riposo agli effetti sia dell’obbligazione retribuiva che del risarcimento del danno per lesione di un diritto della persona, altra il semplice ritardo della pausa di riposo; e, in questa seconda ipotesi (ove non sia consentita, dalla legge e dal contratto, una deroga al principio che impone la concessione di un giorno di riposo dopo sei di lavoro), il compenso sarà dovuto a norma dell’art. 2126 c.c., comma 2, che espressamente gli attribuisce natura retribuiva, salvo restando il risarcimento del danno subito, per effetto del comportamento del datore di lavoro, a causa del pregiudizio del diritto alla salute o di altro diritto di natura personale (cfr. Cass., 26 novembre 2013, n. 26398, che richiama Cass., 3 luglio 2001, n. 9009).
9. Nello stesso solco, si è poi affermato che, in relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, va tenuto distinto il danno da “usura psicofisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima ipotesi, il danno sull'”an” deve ritenersi presunto e il risarcimento può essere determinato spontaneamente, in via transattiva, dal datore di lavoro con il consenso del lavoratore, mediante ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive; nella seconda ipotesi, invece, il danno alla salute o biologico, concretizzandosi in una infermità del lavoratore, non può essere ritenuto presuntivamente sussistente ma deve essere dimostrato sia nella sua sussistenza sia nel suo nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall’illecito contrattuale (Cass., 20 agosto 2004, n. 16398;
Cass., 16 gennaio 2004, n. 615; Cass., 3 aprile 2003, n. 5207; Cass., 4 marzo 2000, n. 2455; 3 luglio 2001, n. 9009; Cass., 12 marzo 1996, n. 2004).
10. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di questi principi, dal momento che ha riconosciuto la somma di Euro 2.824,23 non già a titolo di risarcimento del danno biologico o esistenziale, bensì a titolo di risarcimento del danno per la mancata fruizione dei riposi compensativi, dovendosi inoltre condividere l’affermazione secondo cui, per un verso, il riposo dopo sei giorni di lavoro consecutivo costituisce un diritto irrinunciabile del dipendente, garantito dall’art. 36 Cost., e dall’art. 2109 c.c., e, per altro verso, risponde ad una nozione di comune esperienza che l’attività lavorativa, come qualsiasi impegno delle energie psicofisiche, se protratta senza interruzioni, risulta via via più onerosa con il trascorrere delle giornate e il riposo che sopraggiunge dopo un arco di tempo più ampio rispetto alla normale cadenza settimanale non può, di per sè, compensare tale crescente disagio (in tal senso Cass., 30 maggio 2001, n. 7359).
11. Il terzo motivo è inammissibile. Premesso che la Corte ha ritenuto di liquidare il danno da mancata fruizione dei riposi compensativi usando come paramente la retribuzione giornaliera, ritenuta “non contestata”, era onere del ricorrente indicare con esattezza in che termini ed in quale atto difensivo o verbale di causa avrebbe contestato tale specifico dato – e non genericamente “in toto il prospetto contabile allegato al ricorso” -, precisando altresì dove l’atto o il verbale sarebbero attualmente rinvenibili nel presente giudizio. Con tali omissioni non risulta assolto il duplice onere imposto, a pena di inammissibilità del ricorso, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare esattamente in quale fase processuale ed in quale fascicolo si trovi l’atto in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (v. da ultimo, Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass., 7 febbraio 2011, n. 2966).
12. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese del presente giudizio, da distrarsi in favore del difensore dell’intimato, per la dichiarazione resa ex art. 93 c.p.c..
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali e altri accessori di legge, disponendone l’integrale distrazione in favore dell’avvocato Ferdinando Del Mondo, anticipatario.
Così deciso in Roma, il 10 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 14/10/2015 n.20685

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza n. 4113/06 depositata in data 23.12.06, il Tribunale di Milano, disattesa ogni altra domanda ed in accoglimento parziale delle domande della ricorrente L.A., dichiarava invalido il termine finale apposto al contratto di assunzione del 9.9.1998 e successivi; condannava la convenuta Rai a ripristinare il rapporto lavorativo con la L., in mansioni e con trattamento retributivo previsti per i giornalisti nonchè, per il periodo pregresso, al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio; condannava altresì la Rai a rimborsare alla ricorrente le spese di lite nella misura di 3/5.
In particolare la sentenza del Tribunale – con riferimento alla mancata qualificazione come atto risolutivo di ogni rapporto intercorso tra le parti della lettera del 6 giugno 2003 con cui la Rai aveva comunicato alla L. la cessazione anticipata del rapporto di lavoro a tempo determinato all’epoca in corso – rilevava che la sottoscrizione da parte della L. della lettera suddetta non aveva in alcun modo concretizzato nè una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nè un licenziamento non impugnato. Il giudice di primo grado aveva affermato che il solo fatto di avere sottoscritto per ricevuta e conoscenza la lettera di cessazione (unilateralmente determinata dalla Rai) anticipata soltanto rispetto alla data di scadenza massima possibile (ma non rispetto all’ipotesi, contrattualmente pure prevista, e invocata dalla Rai, di fine produzione) dell’ultimo contratto a termine non consentiva di desumere una chiara e inequivoca volontà della L. di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.
Inoltre il Tribunale riteneva che i termini apposti ai contratti a tempo determinato dal 9 settembre 1999 al 23 gennaio 2003 erano tutti invalidi, in base alla considerazione che l’attività prestata dalla L. e i programmi a cui essa aveva collaborato risultavano l’una e gli altri manifestamente privi dei requisiti necessari secondo la giurisprudenza di legittimità, ossia dei requisiti della temporaneità e della specificità.
Altresì il tribunale riconosceva alla ricorrente la qualifica di giornalista redattore sin dal contratto 9.9.1998 sulla base del presupposto che le mansioni svolte dalla stessa fossero quelle tipiche del giornalista.
Il tribunale poi – quanto a pregressi rapporti di lavoro a tempo determinato – riteneva valido il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in data 9 settembre 1998 con la previsione di una nuova assunzione a tempo determinato e con rinuncia della dipendente a ogni pretesa quanto agli intercorsi rapporti di lavoro precedenti.
2. Avverso tale pronuncia interponeva appello principale la Rai, deducendo diversi motivi di gravame e chiedendo, in parziale riforma della sentenza impugnata, di rigettare tutte le domande proposte dalla ricorrente nel ricorso di primo grado.
Si costituiva in giudizio l’appellata, la quale chiedeva di respingere l’appello e, in accoglimento dell’appello incidentale, di dichiarare nullo, annullabile ed illegittimo il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in data 9.9.1998, di dichiarare intercorso tra le parti, a far tempo dal 23.9.09, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di ordinare alla Rai di assumere la ricorrente con inquadramento come praticante giornalista nei primi 18 mesi e successivamente come redattore ordinario, di condannare la Rai al pagamento delle differenze retributive maturate, di liquidare le spese di primo grado in Euro 5.000,00 senza procedere a compensazione parziale.
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 13 ottobre 2009 – 12 novembre 2009 rigettava entrambi gli appelli salvo accogliere quello incidentale limitatamente alla determinazione delle spese di lite fissando l’importo globale delle stesse in Euro 6.000,00.
3. Avverso questa pronuncia la RAI propone ricorso articolato in cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata L.A. che ha anche proposto contestuale ricorso incidentale condizionato, cui ha resistito la società con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso principale è articolato in cinque motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in riferimento alla risoluzione del rapporto di lavoro come previsto dalla lettera del 6 giugno 2003 sopra citata. Con la sottoscrizione di tale lettera la ricorrente originaria aveva accettato la risoluzione del rapporto di lavoro a far data dal 28 giugno 2003.
Con il secondo motivo la società denuncia violazione degli artt. 1398 e 1399 c.c.. Contesta l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui l’utilizzo delle prestazioni lavorative della dipendente anteriori alla data di decorrenza del contratto del 27 settembre 1999 non fossero meramente preparatorie ma fossero già riferibili ad un rapporto di lavoro instaurato tra le parti. La ricorrente cominciò a lavorare presso la società senza contratto su disposizione di un capostruttura che non aveva poteri di rappresentare la società.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione con riferimento al requisito della specificità dei programmi televisivi oggetto del contratti a termine stipulati dal 9 settembre 1998 al 23 gennaio 2003. In realtà si trattava di programmi per i quali ricorreva il requisito della specificità che giustificava l’apposizione del termine al contratto di lavoro.
Con il quarto motivo la società deduce la violazione della L. n. 230 del 1962, art. 2, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e della L. n. 183 del 2010, art. 32. Chiede in particolare l’applicazione dello ius superveniens costituito dall’art. 32, comma 5, citato.
Con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla asserita natura giornalistica dell’attività svolta dalla dipendente a partire dal 9 settembre 1998. In particolare lamenta che l’istruttoria svolta non aveva offerto alcun elemento con riferimento ai programmi realizzati nel periodo 1998-1999.
2. Il ricorso incidentale condizionato è articolato in due motivi con cui si deduce la nullità o annullabilità del verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto dalla Rai e dalla L. in data 9 settembre 1998 (in relazione agli artt. 1418, 1343, 1344, 1434 e 1438 c.c., e art. 2113 c.c., e art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè la carenza di motivazione, nella sentenza di appello, circa punto decisivo della controversia in relazione sempre al mancato riconoscimento della nullità o annullabilità del predetto verbale di conciliazione in sede sindacale del 9 settembre 1998.
3. Vanno riuniti i giudizi promossi con ricorso principale e con ricorso incidentale avendo ad oggetto la stessa sentenza impugnata.
4. Il ricorso principale – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.
5. Quanto al primo motivo, con cui la società ricorrente lamenta il vizio di motivazione in relazione alla asserita acquiescenza della dipendente alla risoluzione del rapporto di lavoro comunicata con lettera in data 6 giugno 2003, deve rilevarsi che da una parte la società, omettendo di riportare il contenuto del documento suddetto, è venuta meno all’onere di autosufficienza del ricorso. La corte d’appello con valutazione di merito ha ricostruito il significato dell’apposizione della firma da parte della ricorrente in calce alla lettera suddetta. In particolare la corte territoriale ha osservato che la sottoscrizione da parte della L. della lettera del 6 giugno 2003, con la quale la Rai comunicava la risoluzione anticipata dal rapporto di lavoro a termine del 22 gennaio 2003 non aveva in alcun modo concretizzato nè una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nè un licenziamento non impugnato. Il solo fatto di avere sottoscritto per ricevuta e conoscenza la lettera di cessazione (unilateralmente determinata dalla Rai) anticipata del rapporto non consentiva affatto di desumere una chiara e inequivoca volontà della L. di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.
In proposito questa Corte (ex plurimis Cass., sez. lav., n. 23319 del 18/11/2010) ha più volte affermato che, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo dissenso, è necessario che sia accertata una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che la valutazione del significato e della portata del complesso dei predetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
6. Infondato è anche il secondo motivo con cui la ricorrente principale censura inoltre la sentenza del Tribunale per avere la stessa dato rilievo all’utilizzo delle prestazioni lavorative della L. prima della data di scadenza del contratto di lavoro e in particolare di quello del 27 settembre 1999.
Trattasi di inammissibile censura di merito laddove la corte territoriale ha puntualmente motivato in proposito pervenendo al convincimento, sulla base della valutazione delle risultanze di causa, che l’istruttoria espletata in primo grado aveva dimostrato come la L. era stata utilizzata dalla RAI già prima della formalizzazione del contratto del 27 settembre 1999.
Il fatto poi, allegato nel ricorso, che la L.abbia cominciato a lavorare per iniziativa del capostruttura M., senza averne poteri, costituisce circostanza non risultante dalla sentenza impugnata e che semmai realizzerebbe una ragione di danno risarcibile della società nei confronti del suo dipendente, fermo restando che la società, accettando l’attività lavorativa della L. nella produzione in particolare del programma (OMISSIS) aveva ratificato con comportamento concludente l’operato del suo dipendente.
7. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
La Corte d’appello ha puntualmente osservato che l’assunzione a termine per “specifici programmi radiofonici o televisivi” di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. e), presuppone, oltre alla puntuale individuazione della rappresentazione. che i programmi abbiano una durata prefissata e siano destinati a sopperire esigenze gestionali temporanee seppur compatibili con una programmazione ripetuta e a puntate e pertanto la reiterazione di successivi contratti a termine a copertura di una stabile esigenza lavorativa risulta contraria allo schema legale del contratto a termine, configurando un’elusione fraudolenta della relativa normativa.
Sotto questo profilo può considerarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che l’assunzione a termine a norma della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, deve rispondere ad esigenze di carattere temporaneo, destinate ad esaurirsi in un certo tempo e tali da non consentire uno stabile inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa; presupposto questo che deve ricorrere anche per le assunzioni riferite a spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi, nel senso che la specificità dello spettacolo o del programma, mentre non implica la straordinarietà o l’occasionalità, richiede pur tuttavia che lo spettacolo o il programma stesso – oltre ad essere destinato ad una temporanea necessità, ancorchè ripetuto nel tempo ed in diverse puntate – sia caratterizzato dall’appartenenza ad una specie di un certo genus e sia, inoltre, individuato, determinato e nominato.
Quindi la legittimità del termine è condizionata dal carattere dell’apporto lavorativo, che deve risultare funzionalmente necessario – anche in via strumentale e complementare – a caratterizzare quel dato programma o spettacolo. In altri termini si è più volte affermato che deve sussistere un vincolo di “necessità diretta”, anche se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo e nello specifico programma, cosi che non possa essere considerata sufficiente a legittimare la stipulazione del contratto a tempo determinato la semplice qualifica, tecnica o artistica del personale, correlata alla produzione di spettacoli o programmi televisivi o radiofonici. Cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 26 maggio 2011, n. 11573, che, proprio in tema di assunzioni a termine di lavoratori dello spettacolo (L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, comma 2, lett. e), come modificato dalla L. 23 maggio 1977, n. 266), ha ribadito che non solo è necessario che ricorrano contestualmente i requisiti della temporaneità e della specificità, ma è indispensabile, altresì, che l’assunzione riguardi soggetti il cui apporto lavorativo si inserisca, con vincolo di necessità diretta, anche se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo o programma, sicchè non può considerarsi sufficiente ad integrare l’ipotesi di legittimo ricorso al contratto a tempo determinato la mera qualifica tecnica od artistica del personale correlata alla produzione di spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, occorrendo che l’apporto del peculiare contributo professionale, tecnico o artistico del soggetto esterno sia necessario per il buon funzionamento dello spettacolo, in quanto non sostituibile con le prestazioni del personale di ruolo dell’azienda. E’ stata quindi confermata la sentenza impugnata, che – come quella attualmente impugnata dalla società ricorrente – aveva dichiarato la nullità dei contratti a termine e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con congrua e logica motivazione in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente di una attività lavorativa ordinaria, continuativa e riferita indifferentemente ad una serie di molteplici, e non omogenee, produzioni artistiche.
Nella specie la Corte territoriale, in conformità con il giudice di primo grado, ha motivatamente verificato, con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di cassazione, l’insussistenza dei suddetti presupposti.
8. Infondato altresì è il quinto motivo di ricorso – il cui esame logicamente precede quello del quarto motivo – con cui la società, ricorrente principale, contesta il riconoscimento della natura giornalistica dell’attività svolta dalla L. a fronte dell’inquadramento della stessa, attribuito dalla società, di programmista regista. In particolare la corte territoriale ha osservato che dall’istruttoria svolta era emerso che l’attività espletata dalla L. per (OMISSIS), così come per tutti i programmi per cui aveva lavorato, era stata caratterizzata dalla ricerca e dall’elaborazione di notizie e tutti i testi avevano confermato il carattere informativo e di attualità di (OMISSIS) e degli altri programmi per cui la L. ha lavorato.
9. Inammissibile è infine il quarto motivo con cui la società ricorrente chiede l’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.
Da una parte deve considerarsi che le conseguenze economiche dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro costituiscono oggetto di altro giudizio tra le medesime parti, pervenuto anch’esso al giudizio di cassazione e chiamato alla stessa odierna udienza, e quindi sono fuori dal thema decidendum.
In ogni caso si tratta di disposizione non ancora entrata in vigore alla data di proposizione del ricorso per cassazione. Pertanto la ricorrente avrebbe dovuto censurare la sentenza impugnata quanto al capo relativo alle conseguenze economiche della accertata illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro. Solo così facendo – secondo la giurisprudenza di questa corte – sarebbe stato possibile l’applicazione anche nel giudizio di cassazione dell’art. 32, comma 5, citato.
10. Il ricorso incidentale, in quanto condizionato, è assorbito.
11. In conclusione il ricorso principale va integralmente rigettato con assorbimento del ricorso incidentale.
Alla soccombenza consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 100,00 (cento) per esborsi ed in Euro 4.000,00 (quattromila) per compensi d’avvocato ed oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 30/09/2015 n.19465

NE ANCELLE DELLA DIVINA PROVVIDENZA, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI
PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI,
rappresentata e difesa dall’avvocato BATTIANTE CARMINE, giusta delega
in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3830/2008 della CORTE D’APPELLO di BARI,
depositata il 13/10/2008 R.G.N. 3883/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
04/06/2015 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 13.10.08, la Corte d’Appello di Bari, confermando sentenza del tribunale di Trani del 12.11.04, ha rigettato la domanda del lavoratore C. volta alla conservazione della retribuzione già percepita come guardiano notturno anche per il periodo di assegnazione a mansioni di guardiania diurne.
In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che il principio di irriducibilità della retribuzione del lavoratore non è assoluto, non coprendo gli emolumenti accessori o temporanei collegati alle particolari modalità della prestazione eseguita. Avverso tale sentenza ricorre il lavoratore per due motivi, cui resiste con controricorso il datore.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2103 e 2108 c.c., per avere trascurato che il lavoratore era stato assunto specificamente come guardiano notturno cui pertanto doveva commisurarsi il trattamento retributivo.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria – motivazione circa il fatto decisivo per il giudizio, anche in relazione all’art. 44, comma 10, del contratto collettivo di lavoro, nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la corte territoriale ritenuto che l’assunzione come guardiano notturno non comportasse alcun diritto a continuare a ricevere l’indennità per il lavoro disagiato, di fatto corrisposta per circa un ventennio.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione: essi sono infondati.
La corte territoriale ha ritenuto, con motivazione adeguata e congrua, che, una volta venute meno le particolari modalità attraverso le quali interviene la prestazione lavorativa, nel caso di specie, il lavoro notturno, è legittima l’eliminazione della corresponsione degli emolumenti specificamente volti a compensare le modalità particolari della prestazione lavorativa. La sentenza impugnata si sottrae alle censure sollevate, essendo in linea con quanto affermato da questa Corte in più occasioni, essendosi precisato che il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall’art. 2103 c.c., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorchè vengano meno le situazioni cui erano collegati (Cass. n. 10449/2006).
Ne consegue che ai fini del riconoscimento del diritto dei lavoratori subordinati al computo nella base di calcolo della retribuzione per il periodo feriale della maggiorazione per lavoro notturno, non è sufficiente l’accertamento della “normalità” della prestazione notturna in turni periodici e della erogazione della relativa indennità (reintroducendosi altrimenti il criterio della omnicomprensività della retribuzione, non legittimato in generale dal legislatore), ma, trattandosi di compenso erogato in ragione delle particolari modalità della prestazione lavorativa e a compensazione dei relativi disagi, e in quanto tale non assistito dalla garanzia della irriducibilità della retribuzione di cui all’art. 2103 c.c., occorre anche che la contrattazione collettiva faccia riferimento al concetto di retribuzione “ordinaria” o “normale” (Cass. n. 16261/2004). Più di recente, si è ribadito (Sez. L, Sentenza n. 20418 del 05/09/2013; Sez. L, Sentenza n. 20310 del 23/07/2008) che il principio della irriducibilità della retribuzione, che si può desumere dall’art. 2103 c.c., e art. 36 Cost., ossia dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato, si estende alle indennità compensative di particolari e gravosi modi di svolgimento del lavoro, nel senso che quella voce retribuiva può esser soppressa ove vengano meno quei modi di svolgimento della prestazione, ma deve essere conservata in caso contrario.
Corretta è dunque la decisione impugnata che ha ritenuto che l’emolumento dovuto per il lavoro notturno, pur non essendo ricompreso nel contratto, sia stato concretamente corrisposto dal datore al fine di compensare la particolare modalità di prestazione dell’attività lavorativa: infatti, non vi è nel contratto una qualifica di guardiano notturno ma solo la qualifica di guardiano, la cui retribuzione risulta essere stata correttamente corrisposta.
Ne consegue che, al mutare delle modalità della prestazione lavorativa, non più destinata a svolgersi in orario notturno, sia venuto meno l’emolumento specificamente volto a compensare quelle modalità della prestazione, senza che ciò abbia comportato la violazione del contratto di lavoro, nè dell’art. 2103, nè del principio di immodificabilità della retribuzione.
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 2.500 per compensi ed Euro 100 per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 25/09/2015 n.19034

La trasformazione della pensione d’invalidità in pensione di vecchiaia al compimento dell’età pensionabile è possibile ove di tale ultima pensione sussistano i requisiti propri anagrafico e contributivo, non potendo essere utilizzato, ai fini di incrementare l’anzianità contributiva, il periodo di godimento della pensione d’invalidità.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 25/09/2015 n.19028

In materia di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, è valida la previsione, introdotta in sede di contratto collettivo, di un salario di ingresso (cosiddetto prolungato) in deroga all’art. 3 d.l. n. 726 del 1984, convertito dalla legge n. 863/1984, in quanto il minore trattamento retributivo si giustifica per la oggettiva delimitazione di carattere temporale e per la finalità di incentivare la stabilizzazione del rapporto.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 14/09/2015 n. 18041

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. T.F.L. propose dinanzi al Tribunale di Palermo opposizione allo stato passivo della Sicilcassa s.p.a., società in liquidazione coatta amministrativa, dolendosi del parziale rigetto della domanda volta ad ottenere l’ammissione, allo stato passivo della Sicilcassa, del credito avente ad oggetto le somme, versate da lui o per suo conto, nel Fondo Integrativo Pensioni, ivi comprese quelle poste a carico del datore di lavoro.
2. Il Tribunale accolse la domanda e ammise al passivo della liquidazione il credito vantato dal ricorrente, a titolo di riscatto della sua posizione individuale, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali, e la sentenza, impugnata dalla Sicilcassa, fu confermata dalla Corte d’appello di Palermo, con sentenza depositata il 28 dicembre 2012.
3. La Corte, prestando adesione ad un precedente di questa Corte (Cass., 11 dicembre 2002, n. 17657), affermò il seguente principio di diritto: “In tema di previdenza complementare, le tre opzioni stabilite dal D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (riscatto, trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo “chiuso”, trasferimento ad un fondo “aperto”) in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto alla pensione, in epoca successiva all’entrata in vigore della legge stessa, si applicano all’intera posizione individuale, che comprende tutti gli accantonamenti previsti dall’art. 8 di detto decreto, sia del lavoratore che del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993 per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti dei fondi prevedono modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi alla norma legale”.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Sicilcassa s.p.a., sulla base di tre motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. All’udienza di discussione questa Corte ha tuttavia rilevato che, in altra controversia, sulla medesima questione di diritto sottesa al ricorso, con ordinanza interlocutoria del 28 gennaio 2014, n. 1774, era stata disposta la trasmissione degli atti al primo Presidente per l’eventuale assegnazione della questione alle Sezioni Unite, sicchè si è disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo. Quindi, fissata la nuova udienza dopo la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 477/2015, le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, deve rilevarsi l’ammissibilità del ricorso, non ravvisandosi i presupposti per l’applicabilità dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, e tanto in ragione dei contrasti esistenti sulla questione di fondo posta nella presente controversia, solo di recedente composti dall’intervento delle Sezioni Unite, come di seguito si dirà.
1. Con il primo motivo di ricorso la Sicilcassa s.p.a. denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10. Assume che è incontestata la natura del Fondo di previdenza integrativo (d’ora in poi solo FIP) come fondo a prestazione definita, privo di conti individuali, con la conseguenza che non vi può essere corrispondenza tra la contribuzione che affluisce al fondo in relazione alla posizione del singolo iscritto e la prestazione che dovrà essergli attribuita alla maturazione del diritto a pensione. Per contro, condizione indispensabile perchè possa trovare applicazione l’art. 10 D.Lgs. cit. è che il Fondo sia strutturato come fondo a contribuzione definita, in cui la prestazione si determina con il criterio della capitalizzazione individuale, in base alla contribuzione imputata sulla posizione individuale. L’art. 7 del regolamento del Fondo riconosce al lavoratore che cessa senza diritto a pensione solo la disponibilità della contribuzione da lui personalmente versata. Ne consegue l’erroneità della decisione nella parte in cui, richiamando l’art. 2117 c.c., ha riconosciuto il diritto dell’iscritto alla riscattabilità di tutta la contribuzione, disponendo l’immediata applicabilità dell’art. 10 del D.Lgs. anche ai fondi preesistenti alla sua entrata in vigore e nonostante la presenza di una norma regolamentare di contenuto diverso.
2. Con il secondo motivo censura la sentenza per violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., con riferimento agli artt. 4 e 7 del FIP che escludono la riscattabilità a favore dell’iscritto dell’intera contribuzione affluita al Fondo. Assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto di disapplicare l’art. 7 del regolamento, in base al quale, invece, l’iscritto che cessa dal servizio senza diritto alle prestazioni ha diritto alla restituzione della sola contribuzione da lui versata, con esclusione di quella versata dall’azienda, in quanto destinata a garantire la provvista necessaria a finanziare l’integrazione sui trattamenti di pensione maturati e maturandi, in regime di prestazione definita, e quindi non correlati all’importo e della contribuzione affluita al fondo in relazione al singolo assicurato.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 429 c.p.c., comma 3, al credito relativo alla contribuzione versata al fondo, suscettibile di riscatto. Assume che tale credito ha indubbiamente natura previdenziale con la conseguenza che non può essere riconosciuto il cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria, “quanto meno a far tempo dall’1 settembre 1985 (cfr. L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 194)”, momento a partire dal quale si era marcata irreversibilmente la distinzione tra retribuzione differita con funzione previdenziale e accreditamenti per la previdenza integrativa, di natura previdenziale a tutti gli effetti.
4. I primi due motivi, che si affrontano congiuntamente in ragione della connessione che li lega, sono infondati. Sulla questione all’esame di questa Corte sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza del 14 gennaio 2015, n. 477, con la quale si è affermato il seguente principio di diritto: “Il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma della L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 3, comma 1, lett. v)) si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all’entrata in vigore della legge delega (15 novembre 1992), quali che siano le loro caratteristiche strutturali e quindi non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva”.
4.1. La Corte, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento, si è soffermata sulla portata normativa del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, che si occupa della previdenza complementare. Ha osservato che, “ribadita la finalità di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”, il legislatore ha disciplinato il campo di applicazione, i destinatari, le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari, la natura giuridica dei Fondi pensione, la composizione dei relativi organi di gestione e di controllo, le prestazioni, i finanziamenti, il trattamento tributario di contributi e prestazioni, funzioni e compiti della commissione di vigilanza.
4.2. Ha quindi esaminato l’art. 10, che riguarda la situazione del lavoratore che ha perso i requisiti per la partecipazione al fondo senza aver ancora maturato il diritto alla pensione complementare. La norma dispone quanto segue: “Lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini per l’esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 (fondi pensione aperti); c) il riscatto della posizione individuale”. Il secondo comma aggiunge: “gli aderenti ai fondi pensione di cui all’art. 9 possono trasferire la posizione individuale corrispondente a quella indicata al comma 1, lett. a), presso il fondo cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività”. Il comma 3, specifica: “gli adempimenti a carico del fondo pensione conseguenti all’esercizio delle opzioni di cui ai commi 1 e 2, debbono essere effettuati entro il termine di sei mesi dall’esercizio dell’opzione”.
4.3. Individuata la ratio della norma ed il suo chiaro tenore letterale, in cui non vi è traccia di alcuna distinzione o eccezione, e in particolare non si esclude la sua applicazione alle forme pensionistiche complementari già istituite, le Sezioni Unite hanno osservato che, quando il legislatore è intervenuto nel 1992- 93, introducendo il principio della portabilità in caso di cessazione dei requisiti di partecipazione ai fondi, aveva ben presente che la nuova disciplina avrebbe coinvolto in larga maggioranza fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, quale era la gran parte dei fondi preesistenti alla riforma. Ciò nonostante, non li ha esclusi dall’immediata applicazione della nuova disciplina sulla riscattabilità e portabilità, nè ha previsto deroghe o distinzioni di sorta tra le varie forme di previdenza complementare.
4.4. Ed invero, sottolineano le Sezioni Unite che il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, fa riferimento ai concetti omnicomprensivi di “forma pensionistica complementare” e di “fondi pensioni” senza operare diversificazioni. La distinzione che il legislatore non ha formulato è stata introdotta in alcune sentenze basandosi sul dato che la lett. c), nel prevedere la possibilità di riscatto, usa l’espressione “riscatto della posizione individuale”. Si è ritenuto che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva manchi una posizione individuale e che pertanto il riscatto sia possibile solo nei fondi a capitalizzazione individuale. Il concetto, con ulteriore passaggio, è stato poi esteso anche alle ipotesi del trasferimento da un fondo ad un altro previste dalle lett. a) e b).
Si è poi aggiunto un ulteriore argomento, assumendo che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva sarebbe impossibile enucleare una posizione individuale e vi sarebbe, quindi, un’incompatibilità ontologica tra portabilità e sistemi a ripartizione o capitalizzazione collettiva.
4.5. In realtà, le Sezioni unite hanno chiarito che i due concetti di posizione e conto individuale sono concetti distinti, di cui il legislatore è consapevole laddove, nel dettare la disciplina fiscale (art. 14-quater del medesimo decreto) utilizza il concetto di conto individuale del dipendente e mostra di aver ben presente la sua funzione tutta interna alla gestione del fondo. Hanno quindi aggiunto che, pur a fronte di tale distinzione concettuale, l’operazione di enucleare posizioni individuali nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, come si è messo in rilievo in precedenti decisioni di questa Corte pienamente condivisibili (in particolare Cass. 7161 del 2013), è tecnicamente possibile con l’applicazione di regole e metodi delle specializzazioni matematiche che si occupano dei problemi del settore assicurativo – previdenziale. La posizione previdenziale, anche se non determinata, è determinabile.
4.6. Una specifica disciplina transitoria per le forme preesistenti a ripartizione viene poi prevista nelle norme finali (art. 18, commi 8 bis, ter, quater) con le quali il legislatore si è preoccupato di prevedere specifici correttivi idonei a contenere gli effetti negativi che i nuovi principi avrebbero potuto determinare sull’equilibrio gestionale dei fondi a ripartizione. Afferma la Corte che “Anche da ciò si desume che se invece nel sancire il principio della portabilità non ha operato differenziazioni e se la disciplina transitoria non solo non include l’art. 10, ma non prevede correttivi o una disciplina speciale differenziata sul riscatto e la portabilità dei fondi a ripartizione preesistenti ciò vuoi dire che il legislatore ha voluto enunciare la portabilità come principio generale al quale avrebbero dovuto adeguarsi tutti i fondi, quali che fossero le loro caratteristiche strutturali e quale che fosse l’epoca della loro costituzione”.
4.7. Le Sezioni Unite hanno pertanto concluso nel senso che tutti gli argomenti addotti per sostenere l’inapplicabilità della disciplina sulla portabilità ai fondi preesistenti a capitalizzazione collettiva o a ripartizione non appaiono convincenti: le espressioni utilizzate, generali e prive di elementi che possano fondare differenziazioni di trattamento, indicano la volontà legislativa di riconoscere la portabilità con riferimento a tutti i fondi, nuovi e preesistenti, quali che siano i meccanismi di gestione. E ciò, pur avendo il legislatore ben presente la variegata morfologia e la sussistenza di elementi di diversità, che rendono a volte più complessa l’operazione di trasferimento quando il fondo non sia a capitalizzazione individuale, ma sia a ripartizione o a capitalizzazione collettiva.
4.8. La scelta si spiega probabilmente con il fatto che il legislatore considera la portabilità come uno degli strumenti fondamentali per garantire il perseguimento di “più elevati livelli di copertura previdenziale”, che costituisce il principio guida della legge delega in materia di previdenza complementare (L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 3, lett. v), ribadito nel decreto legislativo di attuazione (D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124). Si spiega, inoltre, con la consapevolezza, maturata negli anni novanta, della crescente mobilità occupazionale che caratterizza il mercato del lavoro e di conseguenza con la necessità di predisporre strumenti per consentire ai lavoratori, esposti al frammentarsi della vita lavorativa, di non subire, o quanto meno attenuare i contraccolpi sul versante previdenziale.
4.9. Alla luce di questi chiari principi, non scalfiti dalle pur diffuse argomentazioni svolte dalla ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., entrambi i motivi devono essere rigettati.
5. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. Con sentenza del 9 marzo 2015, n. 4684, le Sezioni Unite di questa Corte hanno risolto il contrasto esistente in seno alla Suprema Corte, concernente la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza integrativa o complementare (e quindi la loro computabilità o non ai fini del trattamento di fine rapporto e dell’indennità di anzianità), affermandone il carattere previdenziale non retributivo (ed escludendone la computabilità).
5.7. La Corte, dopo aver individuato la linea di demarcazione tra previdenza obbligatoria (ex lege) e previdenza integrativa o complementare (ex contractu) nel carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda, che sono fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari (e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni), ha ritenuto che, anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non possono essere considerati di natura retributiva, per la ragione essenziale che gli stessi non sono corrisposti ai dipendenti ma erogati direttamente al fondo.
Tale soluzione, che questo Collegio condivide per l’autorevolezza dell’Organo e la chiarezza del principio, non è tuttavia risolutiva dell’ulteriore questione relativa all’applicabilità del cumulo degli interessi e della rivalutazione al credito maturato dal lavoratore, con riguardo alle somme versate nei fondi integrativi.
5.2. La norma di riferimento, invocata dalla ricorrente, è contenuta nella L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, che ha disciplinato il regime degli accessori inerenti alle prestazioni dovute dagli “enti gestori di forme di previdenza obbligatoria”: essa dispone, in primo luogo (primo periodo), che tali enti “sono tenuti a corrispondere gli interessi legali……..a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda” e, in secondo luogo (ultimo periodo), che “l’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito”. Con quest’ultima disposizione è stato sancito il cosiddetto “divieto di cumulo” fra interessi legali e rivalutazione monetaria riguardo alle prestazioni erogate in ritardo dagli enti suddetti, con la conseguenza che la mora deve essere risarcita mediante la corresponsione della maggior somma risultante dal calcolo degli interessi e dal calcolo della rivalutazione.
5.5. Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 15 ottobre 2002, n. 14617) hanno chiarito la ratio di questa disciplina, precisando che essa è stata dettata per assolvere ad una funzione riequilibratrice e di contenimento della maggiore spesa cui erano stati sottoposti gli enti previdenziali per effetto della estensione, riguardo ai crediti per accessori sulle prestazioni da essi erogate in ritardo, del meccanismo di rivalutazione proprio dei crediti di lavoro, imposto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 12 aprile 1991. Con tale decisione si è infatti dichiarato incostituzionale l’art. 442 c.p.c. “nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal titolare per la diminuzione del valore del suo credito” (v. anche la successiva sentenza n. 196 del 27 aprile 1993, che ha dichiarato illegittima la stessa norma, nella parte in cui non prevede il medesimo trattamento dei crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale “nel caso in cui il ritardo dell’adempimento sia insorto anteriormente al 31 dicembre 1991”).
5.4. Vi era dunque una pressante esigenza di contenere gli effetti negativi prodotti sulla pubblica finanza dalla decisione della Corte Costituzionale, mediante l’incremento della spesa previdenziale corrente, in un contesto di progressivo deterioramento dei conti pubblici (così Cass., n. 14617/2002, cit.). E la funzione riequilibratrice dell’art. 16 cit. è stata poi riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale nella successiva sentenza n. 361 del 24 ottobre 1996 – dichiarativa della infondatezza della questione di legittimità della L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, – in cui si è precisato che “l’art. 38 della Costituzione non esclude la possibilità di un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca un trattamento pensionistico” e, a maggior ragione, “gli accessori del credito”, essendosi manifestata, “dopo la sentenza n. 156 dell’8-12 aprile 1991, in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, la necessità di un’adeguata ponderazione dell’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica”.
5.5. E’ poi intervenuto la L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, seconda parte, che ha esteso la disciplina dettata dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, “anche agli emolumenti natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza”. Tale disposizione è stata oggetto di un nuovo intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 459 del 2 novembre 2000, ha rilevato il contrasto della norma con l’art. 36 Cost. relativamente ai rapporti di lavoro subordinato privato, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma medesima limitatamente alle parole “e privati”.
5.6. Ora, la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, nella parte in cui prevede, nel primo periodo, l’obbligo per “gli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria” di pagare gli interessi legali in caso di ritardo, oltre il termine fissato dalla legge, nell’adempimento delle “prestazioni dovute”, costituisce il presupposto per la statuizione contenuta nel secondo periodo, ossia per l’operatività del divieto di cumulo. Il primo dato che si trae dalla relativa formulazione è che la norma fa riferimento a prestazioni erogate da “enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria”. Il debitore, pertanto, va individuato non già in un qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, qualunque sia la natura di quest’ultima, ma in uno di quegli enti pubblici non economici ai quali dalla legge è attribuita una funzione di previdenza nei confronti di determinate categorie di soggetti (ritenuti meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 38 della Costituzione) (così ancora, Cass. Sez. Un., n. 14617/2002, cit).
5.7. Il secondo dato è costituito dalla natura della prestazione. Il riferimento, quanto alla decorrenza degli interessi, alla “data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda”, induce ad interpretare la norma nel senso che le prestazioni debbono essere individuate in quelle erogate previa domanda proposta dall’interessato, proprietà questa che accede (soltanto) alle obbligazioni pecuniarie aventi natura previdenziale e non anche a quelle aventi natura retributiva: solo i crediti previdenziali, in effetti, possono essere fatti valere dagli interessati – di norma – solo dopo che sia stata proposta un’apposita domanda all’ente di competenza e dopo che sia decorso un certo lasso di tempo dalla medesima, mentre i crediti cd. di lavoro soggiacciono ad una regola diversa, la relativa obbligazione essendo esigibile nel momento stesso in cui matura il diritto. Ne consegue che le prestazioni cui deve applicarsi il disposto dell’art. 16 L. cit., “non possano che essere quelle riferentesi a crediti previdenziali vantati dagli assicurati nei confronti degli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria” (Cass. Sez. Un. n. 14617/2002, cit., cui adde Cass., 21 ottobre 1997, n. 10355).
6. Alla luce di queste considerazioni, posto che non vi è dubbio che il Fondo della Sicilcassa s.p.a. ha natura privatistica e che le relative prestazioni non rientrano tra le prestazioni previdenziali a carattere obbligatorio, deve ritenersi che si è fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 16, comma 6, L. cit. In tal senso, peraltro, si è già espressa questa Corte che, con la sentenza 28 ottobre 2008, n. 25889 (in una fattispecie relativa a trattamento pensionistico integrativo corrisposto dal Fondo costituito dalla Banca di Roma s.p.a.), ha escluso l’applicabilità della disposizione citata, ribadendo che, al di là della natura previdenziale del trattamento pensionistico integrativo del Fondo, il divieto di cumulo d’interessi e rivalutazione monetaria “si riferisce esclusivamente ai crediti previdenziali vantati verso gli enti suddetti (enti gestori di previdenza obbligatoria: n.d.e.) e non è pertanto applicabile alle prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro”.
6.1. Il suddetto principio di diritto, oltre ad essere in linea con le Sezioni Unite su richiamate, non si pone in contrasto con successive pronunce di questa Corte (e specificamente con Cass., 28 agosto 2013, n. 19824; Cass., 4 maggio 2012, n. 6752; Cass., 7 marzo 2012, n. 3553), le quali sono state emesse in controversie promosse nei confronti del Fondo di previdenza per gli impiegati delle esattorie e ricevitorie delle imposte dirette, previsto dalla L. 2 aprile 1958, n. 377, come modificata dalla L. 29 luglio 1971, n. 587.
Si tratta, infatti (come le stesse sentenze hanno precisato), di un ente che costituisce una gestione autonoma dell’INPS, con lo scopo principale di integrare le pensioni dovute agli iscritti o ai loro superstiti dall’assicurazione generale obbligatoria. In tali pronunce si è rimarcata, da un lato, la natura obbligatoria della previdenza, “nel senso che gli iscritti sono inseriti contemporaneamente nell’assicurazione generale obbligatoria tanto che nel fondo confluiscono anche i contributi a.g.o. e la pensione che viene liquidata è una pensione “complessiva”, “nell’ambito di un unico rapporto di assicurazione obbligatoria”, e, dall’altro, la fonte legale della disciplina, che non è influenzata da istituti e criteri propri dei fondi integrativi di fonte contrattuale. In altri termini, diversamente dalla presente fattispecie, concorrono entrambi i presupposti – natura previdenziale della prestazione e qualità dell’ente gestore (di forme di previdenza obbligatoria) – previsti nell’art. 16, comma 6, cit., nell’esegesi offerta dalle Sezioni Unite del 2002.
7. L’obbiettiva controvertibilità della questione, attestata dai contrasti giurisprudenziali anche di questa Corte, solo di recente composti dall’intervento delle Sezioni Unite, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1. Ed invero, in tema di impugnazioni, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass., ord.13 maggio 2014 n. 10306).
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 11 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 11/09/2015 n.17980

Per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Cassazione civile sez. lav. sentenza 02/09/2015 n.17435

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 12 dicembre 2012 la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma dell’8 giugno 2010 con la quale era stata rigettata la domanda di D.N.R. intesa ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento irrogatogli dalla FARMACAP Azienda Farmasociosanitaria Capitolina in data 2 marzo 2006. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando che i fatti addebitati al ricorrente con contestazione del 9 gennaio 2006 ed avvenuti fra il 19 dicembre 2005 ed il 4 gennaio 2006, e che richiama anche i fatti addebitati con una precedente lettera di contestazione del 19 dicembre 2005, non sono mai stati contestati dal lavoratore che ha invece lamentato un atteggiamento complessivamente persecutorio nei suoi confronti che ha causato un clima di tensione che non giustificherebbe comunque l’impugnato licenziamento. La Corte capitolina ha considerato che l’espletata istruttoria non ha confermato l’atteggiamento persecutorio lamentato dal lavoratore, mentre ha confermato l’esistenza di un clima di tensione nell’azienda che giustifica il disposto licenziamento.
Il D.N. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su sette motivi.
Resiste la FARMAC con controricorso.
Il ricorrente ha presentato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; omesso esame di un fatto decisivo della causa; art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 44 CCNL Aziende Farmaceutiche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che il licenziamento sarebbe stato intimato oltre il termine perentorio stabilito dalla contrattazione collettiva, termine comunque da considerarsi integrante l’elemento essenziale della norma sostanziale art. 2119 c.c..
Con il secondo motivo si deduce violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; omesso esame di un fatto decisivo della causa; L. n. 604 del 1966, art. 2, L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 44, comma 9, CCNL Aziende Farmaceutiche ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si lamenta che il licenziamento sarebbe inefficace poichè l’azienda avrebbe omesso di fornire specifici motivi benchè ritualmente richiesti L. n. 604 del 1966, ex art. 2.
Con il terzo motivo si assume violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 111 Cost., artt. 99, 112 e 113 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che l’azienda avrebbe licenziato il lavoratore per episodi contestati con lettera del 19 dicembre 2005;
il lavoratore avrebbe impugnato il licenziamento poichè infondato; i giudici di merito lo avrebbero invece ritenuto fondato sulla base di una diversa lettera di contestazione del 9 gennaio 2006 i cui episodi sono stati ritenuti dall’azienda implicitamente giustificati dal lavoratore e, per questo, mai sanzionati.
Con il quarto motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c., art. 111 Cost., artt. 99, 112, 113, 115 e 116 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello avrebbe ritenuto fondati i fatti posti a base del licenziamento poichè il lavoratore, non provando la scriminante delle provocazioni, implicitamente non li avrebbe contestati, senza considerare che tale prova era stata ammessa per la diversa domanda di risarcimento danni da persecuzione, che sui fatti che hanno portato al licenziamento non era stata ammessa alcuna prova, e che per legge, in ogni caso, l’onere della prova dei fatti integranti la giusta causa di licenziamento è a carico del datore.
Con il quinto motivo si assume violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c., art. 111 Cost., artt. 115 e 116 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello avrebbe ritenuto fondati i fatti posti a base del licenziamento sulla base di dichiarazioni rese prima e fuori dal processo e benchè contestate dal lavoratore, così violando le regole del processo.
Con il sesto motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, L. n. 604 del 1966, art. 1 e segg., artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., art. 111 Cost., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello non avrebbe considerato quanto stabilito dall’art. 2119 cod. civ. che dispone la ricorrenza di elementi oggettivi e soggettivi per integrare una grave lesione del vincolo fiduciario, e non avrebbe considerato che il licenziamento risultava totalmente privo di prova, quindi carente degli elementi costitutivi stabiliti per legge, ed avrebbe ritenuto integrante la giusta causa fatti estranei alla contestazione ed alla motivazione formulata dalla stessa azienda, non provati in giudizio e ritenuti giustificati dall’azienda.
Con il settimo motivo si deduce violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici;vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio;
art. 2119 c.c., art. 27 Cost., artt. 1175 e 1206 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1 e segg., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si afferma che i giudici dell’appello non avrebbero considerato l’elemento essenziale e costitutivo della giusta causa di licenziamento costituito dalla proporzione fra i fatti contestati e la sanzione, tenendo conto dell’elemento soggettivo della condotta e l’atteggiarsi complessivo del lavoratore.
Il primo motivo è inammissibile. La censura è infatti relativa a circostanza non trattata nella sentenza impugnata per cui, in mancanza di precisa indicazione del modo con cui era stata proposta la doglianza nei precedenti gradi di merito, deve ritenersi che il motivo in questione sia nuovo e quindi inammissibile non essendo consentito sollevare in sede di legittimità questioni non precedentemente proposte nei gradi di merito.
Anche il secondo motivo si riferisce a doglianza non trattata nella sentenza impugnata, per cui valgono le medesime argomentazioni di cui al primo motivo, con la conseguente inammissibilità del motivo in assenza di precise indicazioni sulle modalità con cui è stata proposta la doglianza nei gradi di merito.
Il terzo motivo è infondato. Con esso sostanzialmente il ricorrente deduce che la sentenza impugnata avrebbe fondato la propria motivazione sugli addebiti contenuti nell’atto di contestazione del 9 gennaio 2006 per i quali il lavoratore non era mai stato sanzionato, mentre il licenziamento era stato in realtà comminato sulla base della diversa precedente contestazione del 20 dicembre 2005. In realtà il ricorrente confonde le due contestazioni che invece la sentenza impugnata, nella sua chiara motivazione, considera nella loro esatta portata, nel senso che il licenziamento per cui è processo si riferisce a tutti i fatti contenuti nelle due contestazioni del 20 dicembre 2005 e del 9 gennaio 2006, per cui, da un lato non appare esatta l’affermazione del ricorrente secondo cui i fatti addebitati con la seconda delle due contestazioni non sarebbero stati sanzionati, e dall’altro appare invece esatta e conseguente l’affermazione contenuta nella stessa sentenza secondo cui il lavoratore appellante nulla ha dedotto in merito ai fatti contenuti nella prima contestazione soffermandosi solo sui fatti di cui alla seconda contestazione deducendo, erroneamente come detto, che per i medesimi non era stato sanzionato.
Anche in ordine al quarto motivo il ricorrente opera una confusione, in particolare fra i fatti addebitati, il cui onere è a carico del datore di lavoro, con quella dell’atteggiamento persecutorio tenuto dallo stesso datore e che è carico del lavoratore. Nel caso in esame la sentenza impugnata/ha ritenuto non contestati i fatti addebitati al lavoratore, e non provato, da parte di questi, l’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti. La sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio di diritto secondo cui, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti un onere di allegazione, l’altra ha l’onere di constare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio (Cass. 12636/2005). La stessa Corte d’appello ha ritenuto, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede, che il lavoratore non ha contestato i fatti addebitatigli, anzi ammettendoli ritenendoli solo giustificati quale reazione all’atteggiamento datoriale nei suoi confronti, e concentrando la sua difesa sulla sussistenza di un comportamento persecutorio che è stato ritenuto non provato, parimente con giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità.
Il quinto ed il sesto motivo sono inammissibili in quanto si riferiscono alla valutazione del materiale probatorio che, a detta del ricorrente, non giustificherebbe le conclusioni a cui è pervenuto il giudice dell’appello secondo cui i fatti addebitati, da un lato non sono stati contestati, e dall’altro hanno trovato conferma nella prova documentale acquisita, affermazioni, come detto, non censurabili in sede di legittimità se non per incompletezza o illogicità che, nel caso concreto, non sussistono.
Il settimo motivo non è fondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte il giudizio di proporzionalità della sanzione costituisce giudizio di fatto come tale riservato al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se, congniamente e logicamente motivato. Nel caso in esame, fra l’altro, la Corte d’appello ha anche verificato la legittimità del licenziamento sulla base del CCNL di categoria applicabile alla fattispecie e che espressamente prevede il licenziamento senza preavviso per i comportamenti contestati al lavoratore nel caso in esame (comportamento ingiurioso o minaccioso durante il servizio, violazione di ogni norma di legge riguardante il deposito, la vendita o il trasporto di medicinali).
Il ricorso deve dunque essere rigettato.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in complessive Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge:
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 28/08/2015 n.17290

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
T.G., premesso di essere stato preposto dall’agosto 1997, quale dipendente dell’INPS con qualifica di ispettore generale, alla Direzione dell’Ufficio Affari Generali, Contabilità, e Finanza- Automazione dell’Inps di Roma (OMISSIS), chiedeva al Tribunale della stessa sede la condanna del proprio datore di lavoro a corrispondergli il trattamento economico retributivo dirigenziale connesso alle superiori mansioni svolte dal 22/11/98 al 5/10/01.
Il giudice del lavoro adito, con sentenza in data 1/2/05, accoglieva la domanda di differenze retributive per il periodo descritto e condannava l’Istituto al pagamento in favore del T., della somma di Euro 70.639,87 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Roma che condannava l’Inps al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 6.334,37 e dei soli interessi al saggio legale sulle complessive differenze retributive spettanti.
A fondamento del decisum il giudice di appello, per quel che qui rileva, osservava essenzialmente che la Direzione dell’Ufficio Affari Generali, Contabilità, e Finanza-Automazione affidata al T., alla stregua dell’organigramma dell’Inps, rivestiva natura di struttura complessa alla quale doveva essere necessariamente assegnato un dirigente. Precisava, inoltre, che con provvedimento del 1/8/97, era stato modificato l’organigramma della sede, con il collocamento a riposo del dirigente preposto. Concludeva, quindi, che l’affidamento dell’incarico al nuovo dirigente era avvenuto nella pienezza delle funzioni, quale titolare dell’Ufficio, e non nell’espletamento di funzioni di natura meramente vicaria, come dedotto dall’Inps.
Avverso tale pronunciato interpone ricorso per Cassazione l’Inps, affidato ad un unico motivo, resistito con controricorso dal T..
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con unico motivo di ricorso si denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, e dal D.Lgs. n. 165 del 2001, nonchè violazione e falsa applicazione della L. n. 88 del 1989, art. 15, comma 2, ed, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo della controversia.
Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte territoriale, per aver tralasciato di considerare che con l’introduzione della nuova disciplina in tema di dirigenza pubblica, è stato istituito un ruolo unico della dirigenza articolato in sole due fasce, dirigente generale e dirigente, in sostituzione della precedente tripartizione (dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente) e che, in coerenza con i dettami della riforma legislativa della dirigenza, l’Istituto aveva provveduto, con la delibera del c.d.a. n. 799/98 e con circolare n. 17/99, a ridisegnare le linee organiche delle proprie strutture, introducendo un nuovo assetto organizzativo per processi e riducendo le posizioni dirigenziali, con eliminazione di quelle in precedenza attribuite ai “primi dirigenti”.
In tale prospettiva, priva di valenza significativa si palesa lo svolgimento, da parte del dipendente, di mansioni che nel precedente ordinamento dei servizi centrali e periferici, erano attribuiti ad un Primo Dirigente, circostanza che i giudici del gravame avevano posto a fondamento del decisum.
Il motivo è fondato.
Si intende, invero, dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte che ha già avuto modo di affrontare tematiche analoghe a quelle prospettate dall’attuale ricorrente (vedi, ex plurimis: Cass. 11 settembre 2007, n. 19025; Cass. 9 settembre 2008, n. 22890; Cass. 23 luglio 2010, n. 17367; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4757; Cass. 29 settembre 2014 n. 20466, Cass. 2015 n. 664).
Nelle suddette sentenze è stato, in particolare, precisato che: a) in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 27, comma 1, (nel quale è confluito il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 27, bis aggiunto dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 17) si è stabilito che gli enti pubblici non economici nazionali e quindi l’INPS – dovessero adeguare i propri ordinamenti a quelli previsti nella nuova normativa sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, adottando appositi regolamenti di organizzazione; b) l’INPS ha adempiuto a tale dovere con la delibera 28 luglio 1998, n. 799 di approvazione del prescritto Regolamento organizzativo; c) nell’art. 16 di tale delibera sono state ridisegnate le funzioni dirigenziali, senza prevedere alcun differimento della relativa efficacia sino alla integrale realizzazione del nuovo modello organizzativo, diversamente da quanto stabilito per altre disposizioni di carattere organizzativo; d) dal rilievo secondo cui il differimento costituiva una conseguenza logicamente necessaria, non potendo le nuove mansioni dirigenziali essere esercitate senza quel modello, non può trarsi l’ulteriore conseguenza che le mansioni esercitate secondo il modello precedente mantenessero il loro carattere dirigenziale; e) infatti, una simile conclusione da un lato non considera che una siffatta classificazione in definitiva comporterebbe la reviviscenza di regole sulla dirigenza pubblica del tutto incompatibili con le norme recate dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (poi consolidate con il D.Lgs. n. 165 del 2001) e, dall’altro lato, non tiene conto dei profili valutativi (e peraltro indirettamente regolativi) delle norme di cui alla citata delibera;
f) le suddette fonti normative, nonchè il contratto collettivo nazionale di lavoro di settore 1998/2001 – sottoscritto nel febbraio 1999 ma riguardante, per volontà delle parti (art. 2, comma 1, del C.C.N.L. stesso), il periodo dal 1 gennaio 1998 portano a concludere che le medesime mansioni che nel precedente regime pubblicistico venivano considerate dirigenziali possono essere diversamente qualificate nel regime privatistico del pubblico impiego, in considerazione del diverso contenuto e rilievo che ad esse è stato attribuito in tale ultimo regime; g) nel suindicato ambito è collocabile anche il personale del ruolo esaurimento (espressamente preso in considerazione dall’art. 13, comma 1, del citato c.c.n.l.
1998/2001) e, nel nostro caso, gli ispettori generali del ruolo ad esaurimento, di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15, richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in cui è confluito, fra l’altro, il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 25 (sul punto vedi anche:
Cons. Stato, sez. 6^, sentenze n. 1887 e n.1888 del 2005).
Conseguentemente, la tesi del T., accreditata dalla Corte territoriale, fondata sul rilievo secondo cui la funzione di direzione dell’Ufficio Affari Generali, Contabilità ed Automazione INPS nella sede di Roma (OMISSIS), avrebbe avuto natura e carattere dirigenziale, non è conducente, poichè, in base al ricordato D.Lgs. n. 80 del 1998, è dirigenziale solo la funzione che risponde al modello ivi disegnato, cosicchè, qualora l’ente pubblico interessato si adegui alle nuove regole, pur mantenendo transitoriamente un assetto non corrispondente al nuovo modello, la valutazione delle funzioni che si esercitano in tale organizzazione, per stabilire se esse siano o no dirigenziali, dovrà essere riferita alle nuove regole e non a quelle precedenti.
E tali nuove regole portano ad inquadrare le mansioni di cui si discute nell’ambito di quelle proprie del funzionario apicale, restando irrilevante l’eventuale loro precedente qualificazione come funzioni dirigenziali.
Avendo la sentenza impugnata ancorato la propria valutazione – in conformità a quanto dedotto dal lavoratore – alla qualifica dirigenziale delle mansioni secondo il precedente ordinamento organizzativo, la censura all’esame, per il periodo successivo alla ridetta Delib. n.799 del 1998, risulta fondata.
Conclusivamente il ricorso va accolto.
La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione alla censura svolta, con rinvio al Giudice designato in dispositivo, per nuovo esame della controversia, da svolgersi in conformità degli indicati principi di diritto. Il Giudice del rinvio provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 29 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 25/08/2015 n.17119

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Frosinone l’ Istituto Commerciale Kennedy s.r.l., proponeva opposizione avverso cartella esattoriale, notificata dalla società concessionaria della riscossione Banca di Roma s.p.a., per il pagamento della somma di Euro 48.271,50 a titolo di sanzioni civili ed interessi di mora per ritardato pagamento di contributi previdenziali per il periodo marzo 1997 – agosto 2000, ai sensi della L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 116, comma 8, lett. b).
2.- Rigettata l’opposizione e proposto appello dall’opponente, che ribadiva che nella specie era applicabile il più favorevole regime sanzionatorio dell’omissione contributiva e non quello dell’evasione applicato dall’INPS, la Corte d’appello di Roma con sentenza del 19.01.10 rigettava l’impugnazione. Rilevava la Corte che la società assicurata, con l’intenzione specifica di non versare i contributi, non aveva presentato nei termini i modelli DM 10 relativi al periodo contributivo interessato, inviati solo nel gennaio 2001, ed aveva corrisposto in ritardo gli importi dovuti, di modo che era corretta la sanzione irrogata per l’evasione contributiva.
3.- Propone ricorso per cassazione la soc. Istituto Kennedy.
Risponde con controricorso INPS.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
4.- I motivi di ricorso si riassumono come segue.
4.1.- Con il primo motivo di corso è dedotta violazione della L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 116, comma 8.
La ricorrente contesta sostiene che Corte d’appello ha interpretato la norma in senso esclusivamente formale. La mancanza di uno solo degli adempimenti del datore di lavoro comporterebbe l’applicazione automatica delle maggiori sanzioni previste per l’evasione contributiva, ove sia sintomo di volontà di non adempiere all’obbligazione e, comunque, ove il datore stesso non abbia provato che la mancata osservanza non avesse quell’obiettivo. Tale interpretazione esclude che possa essere qualificato “omissione contributiva” il comportamento che indica la volontà di ritardare il pagamento, anche se non di evadere l’obbligazione, come avvenuto nel caso di specie, ove il contribuente ha tenuto regolarmente le scritture contabili, pur comunicandone tardivamente all’INPS il contenuto, ed adempiuto all’obbligazione contributiva prima ancora che l’Istituto ne facesse richiesta. La tesi della Corte di merito, inoltre, impone al contribuente di dare prova di un fatto negativo, attinente il foro interno della persona.
4.2.- Con il secondo motivo è dedotta insufficiente ed illogica motivazione in relazione all’applicazione della norma in questione.
Risulta, infatti, agli atti la prova che il datore di lavoro ha presentato spontaneamente le dichiarazioni contributive e che ha provveduto al pagamento dei contributi secondo un piano di rateizzazione, successivamente regolarmente seguito. Tali circostanze costituirebbero la prova che la società ha solo tentato di ritardare il pagamento dovuto, senza intenzione alcuna di evitarlo.
5.- Procedendo all’esame congiunto dei due motivi, deve premettersi la ricostruzione della disciplina applicabile al caso di specie.
L’art. 116, comma 8, di cui si assume la violazione, prevede che “I soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti: a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge;
b) in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al 30 per cento; la sanzione civile non può essere superiore al 60 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge. Qualora la denuncia della situazione debitoria sia effettuata spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori e comunque entro dodici mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi e semprechè il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro trenta giorni dalla denuncia stessa, i soggetti sono tenuti al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi, non corrisposti entro la scadenza di legge”.
Per il caso del mancato o insufficiente pagamento dei contributi previdenziali sul piano sanzionatorio la norma distingue, dunque, due fattispecie diversamente sanzionate: alla lett. a) il mancato o ritardato pagamento (ovvero l’omissione contributiva), per il quale è previsto il pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti, per un importo massimo del 40 per cento dei contributi non corrisposti;
alla lett. b) l’evasione contributiva per la quale è previsto il pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al 30 per cento, per un importo massimo del 60 per cento dei contributi non corrisposti.
Per la seconda fattispecie, lo stesso comma 8, lett. b) prevede l’attenuazione della sanzione (che viene parificata a quella sub a), ove la denunzia sia spontaneamente effettuata prima della contestazione dell’Istituto e comunque entro dodici mesi dal termine di pagamento dei contributi, a condizione che il pagamento avvenga nei trenta giorni seguenti.
6.- Il principio affermato in termini generali dalla giurisprudenza della Corte di cassazione è che l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS attraverso i modelli DM10 circa rapporti di lavoro e retribuzioni erogate integra di per sè l’evasione contributiva e non la meno grave omissione contributiva. L’omessa o infedele denuncia fa, infatti, presumere l’esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. In particolare, si ritiene che la mancata o infedele denunzia configuri occultamento dei rapporti e delle retribuzioni (o di entrambi) e faccia presumere l’esistenza della volontà di realizzare l’occultamento allo specifico fine di non versare i contributi. Conseguentemente grava sul datore inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può tuttavia reputarsi assolto in ragione della avvenuta corretta, annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta (v. Cass. 25.06.12 n. 10509 e 27.12.11 n. 28966, nonchè indirettamente Cass. 20.01.11 n. 1230).
7.- Nella fattispecie concreta – in cui l’INPS ha ravvisato l’evasione contributiva ed ha irrogato le sanzioni previste dall’art. 116, comma 8, lett. b), – il giudice di merito ha rilevato che: a) la società opponente ha presentato in data 5.01.01 i modelli DM10, b) dagli stessi l’Istituto ha avuto contezza del debito contributivo relativo al periodo marzo 1997/agosto 2000, c) il datore ha poi pagato il debito contributivo in forma rateale, pur in mancanza di accettazione della dilazione di pagamento.
Rileva il Collegio giudicante che l’art. 116, comma 8, ricollega la fattispecie più lieve dell’omissione contributiva alla circostanza che l’ammontare dei contributi (di cui sia stato omesso o ritardato il pagamento) sia rilevabile “dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie”.
Nel caso di specie risulta, tuttavia, che la presentazione dei modelli DM10 è stata omessa per periodi particolarmente lunghi (superiori ai tre anni per quelli più risalenti) e che sono di conseguenza state omesse le denunzie riepilogative annuali mod. 770, mentre non è stato precisato se il credito dell’Istituto fosse comunque evidenziato nella documentazione di provenienza datoriale accessibile dai servizi ispettivi.
Il comportamento del datore obbligato è, pertanto, correttamente riconducibile alla fattispecie più grave dell’evasione, in quanto nella sostanza il credito relativo ai vari periodi di contabilizzazione è rimasto ignoto all’INPS e sottratto ad ogni verifica. L’ammontare dei contributi non è stato, in altre parole, portato a conoscenza dell’Istituto per lunghi periodi, il che giustifica l’opinione del giudice di appello che ha ricompreso il comportamento del datore nella situazione legale della “evasione connessa a registrazioni o denunzie obbligatorie omesse”.
8.- In tale situazione sarebbe stato onere del datore – secondo la menzionata giurisprudenza di legittimità, qui pienamente condivisa – dare la prova della mancanza dell’intento fraudolento, in considerazione del fatto che la disposizione normativa in esame assimila la “evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero”, al “caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate”.
E’ questo il significato della locuzione “cioè” interposta nella prima parte della lett. b), tra i due comportamenti appena descritti.
L’interpretazione della norma è, quindi, nel senso che ove l’evasione derivi dalle rilevate omissioni il datore può in ogni caso scriminare il proprio comportamento assolvendo ad detto onere probatorio.
9.- Nella situazione di fatto accertata dal giudice di merito non può ravvisarsi neppure il trattamento premiale previsto sul piano sanzionatorio per il “ravvedimento operoso”, consentito dalla seconda parte della lett. b) in esame nel caso che sia stato il datore stesso a denunziare la propria situazione debitoria, nonostante l’oggettiva condizione di evasione. Tale più favorevole trattamento scatta, infatti, solo nel caso che la denunzia della situazione debitoria “sia effettuata spontaneamente… comunque entro dodici mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi e semprechè il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro trenta giorni dalla denunzia stessa”. Nel caso di specie la denunzia dell’omesso pagamento dei contributi più lontani risulta avvenuta ben dopo la scadenza del dodicesimo mese ed i versamenti sono stati effettuati in termini ben più lunghi di trenta giorni dalla denunzia.
10.- In conclusione il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con condanna della società ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100 (cento) per esborsi ed in Euro 2.500 (duemilacinquecento) per compensi, oltre accessori.
Così deciso in Roma, il 1 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 06/08/2015 n.16527

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di rigetto della domanda proposta da I.F., già dipendente del Credito Emiliano dal 1990 al 24/9/2002, data delle dimissioni, volta ad accertare la nullità della clausola apposta all’atto sottoscritto in data 10/7/2000 con il quale si prevedeva che, in deroga alla contrattazione collettiva di categoria, il termine di preavviso, in caso di dimissioni del lavoratore, era prolungato di 12 mesi e che a fronte di tale obbligo la Banca si impegnava ad integrare il trattamento economico con un assegno ad personam di L 300.000 lorde per 13 mensilità. La Corte d’appello ha affermato che il patto del 10/7/2000 era valido e non inficiato dalle nullità denunciate. Ha rilevato che l’art. 2118 c.c. non stabiliva il termine congruo di durata del preavviso; che pertanto nessun limite era previsto per le parti collettive e queste ben potevano rimettere alle parti individuali la determinazione della durata, fatti salvi i limiti derivanti da norme inderogabili e dalla finalità di realizzare interessi meritevoli di tutela.
Ha affermato che l’art. 63 del CCNL consentiva alle parti private di determinare la durata del preavviso, in caso di dimissioni, in misura diversa da quella di un mese prevista dalla norma collettiva e che nella norma non era contenuto alcun elemento che consentisse di modificare la durata del preavviso solo quando fossero state già presentate le dimissioni.
Ha affermato, altresì, che non difformi dalle previsioni dell’art. 63 erano le norme (art. 84) del CCNL di settore del 1995, reso efficace erga omnes dal D.P.R. n. 934 del 1962 e da ultimo con L. n. 97 del 1963 per le aziende di credito minori; che la previsione non era peggiorativa rispetto alla contrattazione collettiva considerata la corresponsione di un assegno ad personam e la previsione che il patto era limitato a due anni e che l’accordo inoltre non era diretto a tutelare interessi non meritevoli di tutela nè sussisteva alcuna violazione di norme comunitarie. Avverso la sentenza ricorre lo I. formulando tre motivi. Resiste il Credito Emiliano.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo si denuncia violazione artt. 1418 cc per aver la Corte ritenuto il patto legittimo e non violativo dell’art. 2118 e dei diritti indisponibili del lavoratore. Rileva che l’art. 2118 citato rinviando alla contrattazione collettiva la fissazione della durata del preavviso rendeva inderogabile in peius la previsione contrattuale collettiva e che una diversa durata incideva su diritti indisponibili del lavoratore.
2) Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 56, comma 1, del CCNL dipendenti da aziende di credito. Si censura l’affermazione della Corte secondo cui l’art. 63, comma 1, del CCNL di settore non si riferiva soltanto al caso della pattuizione di una diversa e più lunga durata del preavviso a seguito della presentazione delle dimissioni e ciò in violazione dell’interpretazione basata sul significato letterale della norma.
3) Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1322, 1382 e 1384 c.c. censurandosi la sentenza per non avere la Corte ritenuto che le parti, nel disciplinare i loro reciproci interessi, non si ponevano su un piano di parità e per non avere la banca dimostrato quale fosse il suo interesse all’adempimento della prestazione al momento della sottoscrizione del patto di prolungamento del preavviso nel luglio 2000 tale da giustificare una penale pari a 27 volte il suo corrispettivo, manifestamente eccessiva.
I motivi, congiuntamente esaminati stante la loro connessione, sono infondati.
La questione è stata già esaminata più volte da questa Corte e da ultimo con sentenza n. 4991/2015 in relazione ad altro dipendente del medesimo istituto di credito. In particolare si è evidenziato che:
1) sul piano delle fonti disciplinatrici del preavviso e del relativo contenuto l’art. 2118 c.c. prevede che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”.
2) L’art. 98 disp. att. c.c. prevede poi che “nei rapporti d’impiego inerenti all’esercizio dell’impresa, in mancanza di norme corporative o di usi più favorevoli, per quanto concerne… la durata del periodo di preavviso (Cod. Civ. 2118), si applicano le corrispondenti norme del R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella L. 18 marzo 1926, n. 562”, norme che prevedono in due mesi la durata del preavviso.
In tema, poi, il c.c.n.l. per i dipendenti delle aziende di credito del 31.8.55, reso efficace erga omnes con D.P.R. n. 934 del 1962, prevede un preavviso di un mese, “salvo che intervenga tra il lavoratore e l’azienda un accordo per abbreviare o prolungare il termine”.
L’art. 63 del CCNL del settore attribuisce alle parti la facoltà di stabilire in caso di dimissioni un termine di preavviso diverso da quello di un mese. Infine, il contratto stipulato dalle parti prevede un termine di preavviso superiore di 12 mesi al termine della contrattazione collettiva.
3) La sentenza impugnata, con interpretazione corretta e coerente con il dato letterale delle disposizioni in esame, ha ritenuto che il nucleo di inderogabilità della norma codicistica riguardasse solo l’obbligatorietà del preavviso e non anche la sua durata, la cui disciplina è stata rimessa alle fonti subordinate il che consente di escludere la possibilità di ravvisare un contrasto del patto individuale sanzionabile ex art. 2077 c.c..
4) Una volta ammessa la disciplina da parte della contrattazione collettiva della durata del preavviso, non può che affermarsi la legittimità della disciplina individuale alla quale la contrattazione collettiva (come nella specie) fa rinvio per la regolamentazione della durata del preavviso.
5) Va peraltro rilevato che, anche a prescindere dal rinvio contenuto nella disciplina collettiva, questa Corte ha da tempo risolto in senso positivo in ogni caso il problema della legittimità delle pattuizioni individuali volte a regolamentare il preavviso, affermando (Sez. L, Sentenza n. 3741 del 09/06/1981) che, nel rapporto di lavoro dipendente, il preavviso si pone come condizione di liceità del recesso, la cui inosservanza è sanzionata dall’obbligo di corrispondere da parte del recedente una indennità sostitutiva; pertanto esso non può essere preventivamente escluso dalla volontà delle parti, nè essere limitato nella sua durata rispetto a quello fissato dalla contrattazione collettiva; è lecito invece, mediante accordo individuale, pattuirne una maggior durata giacchè tale pattuizione può giovare al datore di lavoro, come avviene nel caso in cui non è agevole la sostituzione del lavoratore recedente, ed è sicuramente favorevole a quest’ultimo che resta avvantaggiato dal computo dell’intero periodo agli effetti della indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera e dal regime di tutela della salute, (v. pure Cass. n. 5929/79). Nel medesimo senso si è ritenuto (Sez. L, Sentenza n. 18547 del 20/08/2009; Sez. L, Sentenza n. 17817 del 07/09/2005) che il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, come nell’ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, e che non contrasta pertanto con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico la clausola con cui si prevedano limiti all’esercizio di detta facoltà, stabilendosi a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio per l’ipotesi di dimissioni anticipate rispetto ad un periodo di durata minima (nella fattispecie, il contratto era stato stipulato per l’assunzione di un pilota presso una compagnia aerea che si assumeva i costi dell’addestramento per il conseguimento dell’abilitazione a condurre un dato tipo di aeromobile); inoltre, la medesima clausola non rientra neppure in alcuna delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1341 cod. civ., per le quali è richiesta l’approvazione specifica per iscritto.
Il principio è stato ribadito ancor più di recente (Sez. L, Sentenza n. 17010 del 25/07/2014) essendosi affermato che il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, come nell’ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto; nè può prospettarsi, in relazione alle clausole pattizie che regolano l’esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, una limitazione della libertà contrattuale del lavoratore, in violazione della tutela assicurata dai principi dell’ordinamento.
6) Alla luce di tale ricostruzione, può dirsi che l’ordinamento rimette alle parti sociali ovvero alle stesse parti del rapporto la facoltà di disciplinare la durata del preavviso in relazione alle proprie valutazioni di convenienza, rendendo essenzialmente le parti arbitre del giudizio di maggior favore della disciplina concordata.
7) Nel descritto contesto, la durata legale o contrattuale del preavviso è dunque derogabile dall’autonomia individuale in relazione a finalità meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, quale quella per il datore di garantirsi nel tempo la collaborazione di un lavoratore particolarmente qualificato, sottraendo lo alle lusinghe della concorrenza, mediante l’attribuzione al dipendente di ulteriori benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto dal dipendente circa la limitazione della facoltà di recesso ancorandone l’esercizio ad un più lungo periodo di preavviso.
8) La pattuizione individuale di una più ampia durata del preavviso a fronte di vantaggi per il lavoratore (nel caso, la corresponsione di un assegno ad personam di 300.000 lire lorde per tredici mensilità) è dunque legittima, essendosi già affermato in sede di legittimità (Sez. L, Sentenza n. 23235 del 03/11/2009) il principio, che qui va ribadito, secondo il quale, in materia di recesso dal rapporto di lavoro, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso in denaro (la sentenza ha escluso altresì che tale accordo si ponga in contrasto con l’art. 1750 cod. civ., di cui va esclusa l’applicazione, attesa l’impossibilità di ravvisare una analogia fra il contratto di lavoro subordinato e quello d’agenzia, nel quale il lavoratore autonomo sopporta il rischio economico).
Quanto al secondo motivo l’interpretazione letterale accolta dalla Corte non risulta censurata in modo tale da evidenziarne vizi logici e, dunque, la pretesa del ricorrente di limitare la possibilità di modificare la durata del preavviso solo dopo che il lavoratore abbia già dato le sue dimissioni non trova alcun fondamento nella disposizione.
Deve infatti ribadirsi (ex plurimis Cass. 7 giugno 2011, n. 12297, Cass n 27 marzo 2013 n 14642) che, qualora il giudice di merito abbia ritenuto il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti, eventualmente confrontato con la ratio complessiva d’una pluralità di clausole, idoneo a rivelare con chiarezza ed univocità la comune volontà degli stessi, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta anche senza che si sia fatto ricorso ai criteri sussidiar dell’interpretazione negoziale.
Quanto al terzo motivo deve rilevarsi che la Corte territoriale ha precisato che solo nelle note il ricorrente aveva evidenziato la sperequazione delle reciproche obbligazioni e l’intrinseca eccessiva onerosità del patto, “la minorazione psicologica in cui si trovava il lavoratore”; l’assimibilità alla penale con richiesta di riduzione dell’indennità sostitutiva del preavviso per eccessività.
La Corte territoriale ha dunque evidenziato la novità delle suddette questioni ma su questo aspetto della decisione della Corte d’appello di Napoli il ricorrente non ha formulato alcuna censura.
Deve, comunque, rilevarsi che la pretesa di applicare la disciplina della clausola penale è priva di fondamento in quanto nella scrittura intercorsa tra le parti non vi è alcun cenno ad una penale commisurata all’indennità sostitutiva del preavviso.
Deve, altresì, escludersi che l’indennità di preavviso abbia natura risarcitoria da inadempimento contrattuale, e non invece indennitaria. Il preavviso ha la funzione economica di attenuare le conseguenze dell’improvvisa interruzione del rapporto per chi subisce il recesso. Alla stessa funzione va ricondotta l’indennità sostitutiva prevista per il caso di violazione del suddetto obbligo, onde la funzione di tale erogazione non è risarcitoria di un danno certo, ma indennitaria, ossia di rimedio contro la semplice eventualità di mancato reperimento di una nuova occupazione e di tutela della parte che subisce l’iniziativa dell’altra di porre fine al rapporto, attenuando le conseguenze della sua improvvisa interruzione. (cfr sulla natura indennitaria Cass SSUU n 7914/1994; n 11137/2004;n 24776/2013) Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
PQM
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 4.000,00 per compensi professionali e Euro 100,00 per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 15/07/2015 n.14818

Ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso non è di per sé sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. Tali significative circostanze non possono ravvisarsi nella mera percezione del t.f.r. (indennità di fine lavoro), trattandosi di emolumento connesso alle esigenze alimentari del lavoratore, la cui pur volontaria accettazione non può costituire indice di una volontà di risoluzione del rapporto.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 09/07/2015 n.14360

Deve esser confermato il licenziamento intimato al lavoratore, il quale aveva fatto seguire ai numerosi insulti e alle minacce, che così risultavano rafforzate e confermate nella loro reale consistenza, le vie di fatto, costituite dall’atto di brandire la scopa nei confronti del direttore del punto vendita i cui prestava la propria attività, arrestandola solo a pochi centimetri dalla spalla di questi.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 04/06/2015 n.11556

Il trasferimento su domanda del lavoratore già dipendente dell’Amministrazione delle Poste e delle Telecomunicazioni (poi trasformata in ente pubblico economico e poi in S.p.A.) ad una diversa amministrazione, presso la quale il medesimo prestava attività in posizione di fuori ruolo o di comando al momento della trasformazione, determina la continuazione del rapporto di lavoro con l’amministrazione di destinazione, verificandosi un fenomeno di mera modificazione soggettiva nel lato datoriale dei rapporto medesimo. Ciò comporta l’inquadramento dei dipendente sulla base della posizione già posseduta nella precedente fase dei rapporto, inquadramento da individuarsi in quello maggiormente corrispondente, nell’ambito della disciplina legale e contrattuale applicabile nell’ente ad quem, all’inquadramento in essere presso l’ente a quo.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 04/06/2015 n.11547

In tema di mobbing, va esclusa la sussistenza di una condotta persecutoria nella contestazione di una serie di addebiti al lavoratore (rientro in azienda, dopo le festività di fine anno, in ritardo; abbandono del posto di lavoro; non corretta esecuzione delle prestazioni lavorative; “disordine nella postazione di lavoro»; assenza non giustificata) allorchè in nessuno dei casi specificamente presi in considerazione risulti l’assoluta insussistenza degli addebiti, l’evidente sproporzione dei richiami o altro sintomo che consenta di ravvisarvi un carattere meramente pretestuoso o discriminatorio, atteso che l’intento persecutorio del datore di lavoro non può ricavarsi dalle iniziative disciplinari poste in essere dal medesimo, avverso le quali è pur sempre consentito al lavoratore tutelare le proprie ragioni attraverso gli specifici rimedi apprestati dalla legge.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 28/05/2015 n.11051

In materia di indennità di disoccupazione, ove il rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni del lavoratore, non riconducibili a sua libera scelta, perché indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione dell’improseguibilità del rapporto, ex art. 2119 c.c., viene a delinearsi uno stato di disoccupazione involontaria, ai sensi dell’art. 38 della Costituzione, con conseguente diritto all’indennità stessa.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 28/05/2015 n.11056

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, pronunciando sull’impugnazione proposta da M.M. A. nei confronti della Banca Carime spa, in ordine alla sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Taranto, n. 6815/09, rigettava l’appello.
2. Il giudice di primo grado aveva respinto la domanda proposta dal M. nei confronti della suddetta Banca, volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare, intimatogli con lettera raccomandata del 15 ottobre 2004, e la conseguente applicazione della tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il M., prospettando tre motivi di ricorso, assistiti da memoria depositata in prossimità dell’udienza.
4. La Banca Carime spa resiste con controricorso.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Occorre premettere che il licenziamento disciplinare trovava ragione nella riconduzione a M.M.A., impiegato della Banca Carime spa, della proposta rivolta a S. G., di finanziare la sas Arredare di Castellana Grotte per la realizzazione di un capannone con l’utilizzo di somme provenienti dallo smobilizzo di capitali che lo stesso S. aveva presso la Banca, con conseguente conflitto tra l’interesse del dipendente e quello del datore di lavoro, e la violazione del dovere di riservatezza, utilizzando la conoscenza della situazione finanziaria dello S. per metterlo in contatto con i soggetti interessati al prestito.
2. Tanto premesso può passarsi ad esaminare i motivi di ricorso.
3. Con il primo motivo di ricorso è dedotto difetto di motivazione riferito ai mezzi istruttori.
Il ricorrente riporta le dichiarazioni rese il 31 luglio 2008 alla Guardia di Finanza di Taranto dallo S., assumendo la non tardività della produzione del documento in giudizio, e la decisività delle stesse quanto all’esclusione di qualsiasi coinvolgimento del M. con i contatti intercorsi con la Ditta Arredare sas, nonchè il difetto di motivazione circa il rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale.
Analoghe considerazioni svolge il ricorrente per l’acquisizione, nel giudizio di primo grado, del decreto di archiviazione del GIP presso il Tribunale di Bari in ordine ai fatti contestati al M..
La Corte d’Appello, infatti, riteneva che, correttamente, all’udienza del 19 gennaio 2009, il giudice di primo grado, aveva respinto la produzione del suddetto verbale della Guardia di finanza, in quanto lo S. era già stato esaminato nella qualità di teste all’udienza del 22 giugno 2007, ed aveva, in detta sede, precisato che, tre anni prima, aveva sporto denuncia per truffa nei confronti, fra gli altri, del dipendente M..
Il diniego alla produzione, trovava ragione non nella tardività della stessa, ma nella ininfluenza della medesima, atteso che già era in atti la deposizione testimoniale resa sotto giuramento, e l’eventuale difformità dalla versione resa dallo S. avrebbe dovuto essere fatta valere con gli appropriati rimedi processuali, non essendo sovrapponile la vicenda relativa al licenziamento con l’illecito penale, ovvero solo civile, denunciato dallo S..
3.1. Il motivo non è fondato e deve esser rigettato. Va precisato, rispetto al decreto di archiviazione del GIP di Bari, che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale non ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare, non essendo equiparabile ad una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso (Cass., n. 16277 del 2010).
Con riguardo al verbale della Guardia di finanza, che comunque, per come trascritto in ricorso, riporta che lo S. dichiarava di avere denunciato/querelato anche il M., la motivazione della Corte d’Appello è corretta e congrua, atteso che lo S. veniva sentito come teste nel giudizio avente ad oggetto al specifica vicenda disciplinare e che, dunque, in sede di escussione, andavano richiesti chiarimenti, tenuto conto, altresì che gli accertamenti in sede penale non precludono una autonoma valutazione dell’incidenza dei medesimi fatti sul rapporto professionale, dovendosi negare – in linea con gli orientamenti della Corte costituzionale (sentenze n. 971 del 1988 e n. 197 del 1993), che ha riferito l’autonomia del procedimento disciplinare al criterio di razionalità, con conseguente esclusione di ogni automatismo di valutazione – che sussista incompatibilità tra la necessaria autonomia del procedimento disciplinare, che riflette garanzie fondamentali della persona del lavoratore, e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale, in funzione delle esigenze di economicità dei giudizi e di salvaguardia dei principi di imparzialità (Cass., n. 15890 del 2011, relativa a fattispecie diversa dalla presente, di sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti, ma che qui si richiama in ragione del principio generale enunciato con riguardo al rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare).
Nè, ai fini della rilevanza, atteso quanto sopra riportato circa la dedotta denuncia/querela del M., il ricorrente chiarisce quali divergenze per lui significative erano ravvisabili rispetto all’esito della prova per testi dello S. alla quale fa riferimento la Corte d’Appello.
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento agli artt. 115 e 166 c.p.c..
Insufficiente e contraddittoria – motivazione in ordine alla valutazione della prova orale acquisita.
Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello, relativa alla ricostruzione dei fatti, in ordine al ruolo svolto da esso ricorrente nel bonifico richiesto dallo S. alla propria Banca Carime a favore della società Arredare sas, in quanto affetta da vizio di ragionamento che non consentirebbe di controllarne l’iter logico seguito.
L’unico teste a sfavore era il D., denunciato per falsa testimonianza, anch’esso dipendente della Banca e con interesse precipuo, ignorato senza motivazione dal giudice di appello, ad addossare le responsabilità al collega M., che si era limitato a cambiare un assegno al portatore di Euro 3.510.000, emesso dallo S. e consegnato a Montanaro Angelo della Arredare sas.
Nè, valore poteva attribuirsi al rapporto degli ispettori della Banca, per non essere gli stessi pubblici ufficiali, mentre fede privilegiata aveva il verbale della Guardia di Finanza che non era stato ammesso, peraltro in contrasto con gli artt. 115 e 166 c.p.c..
4.1. Il motivo non è fondato e deve esser rigettato.
Quanto alla mancata ammissione del verbale della Guardia di finanza, non è ravvisabile la suddetta censura atteso l’espletamento della prova per testi dello S. e le considerazioni sopra svolte.
Rispetto alla valutazione delle prove raccolte va ricordato come con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente;
l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
In tema di prova, altresì, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni.
Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello ha rilevato come il giudice di primo grado aveva valutato con attenzione l’interrogatorio formale, e passato in rassegna le deposizioni assunte. Il Tribunale dava atto, altresì, dei riscontri documentali raccolti in sede di verifica ispettiva e relativi alle operazioni effettuate per il rimborso delle quote e obbligazioni e per lo smobilizzo dei fondi nella titolarità dello S..
Peraltro non solo il teste D.R., ma anche il teste Longo Francesco, riferivano del comportamento del M. in termini tali da potersene dedurre la consapevolezza dei reali contorni dell’operazione effettuata dallo S., dell’interesse a non comparirvi e della volontà di liberare il collega D. da ogni responsabilità per i negativi sviluppi della vicenda.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, ove la testimonianza abbia ad oggetto fatti che espongano il dichiarante a responsabilità penale non si pone una questione di incapacità a deporre, nè di esonero dall’obbligo di deporre, ma solo, in ipotesi, di attendibilità del teste (Cass., n. 24580 del 2013), che afferisce alla veridicità della deposizione e il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità.
Nella specie, la attendibilità ritenuta dalla Corte d’Appello, atteso che il D. non era interessato al giudizio, è contestata in modo generico e non adeguato da parte del ricorrente, in quanto genericamente e senza riferimenti/riscontri temporali o procedimentali/processuali, è prospettato che lo stesso sarebbe stato denunciato per falsa testimonianza ed essendo l’unico autore dei fatti avrebbe avuto interesse ad addossare le proprie responsabilità al ricorrente.
Infine, va rilevato che la Corte d’Appello poichè richiama la verifica ispettiva, specificatamente con riguardo alle operazioni bancarie effettuate rispetto alla posizione dello S., non supplisce all’onere probatorio gravante sulle parti.
5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta omessa e insufficiente motivazione in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento e al rapporto di proporzionalità tra addebiti contestati e sanzione applicata (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2106 e 2119 c.c., e all’art. 36 del CCNL, art. 360 c.p.c., n. 5).
Il ricorrente, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità, contesta la motivazione sul punto, in ragione del verbale della Guardia di finanza e del decreto di archiviazione del GIP di Bari, ricorda le dichiarazioni di plauso ricevute per l’espletamento delle proprie mansioni, l’assenza di interesse per sè medesimo, nonchè di danno per la Banca in ordine ai fatti in questione, e la circostanza che il D., anch’egli oggetto di procedimento disciplinare, era stato solo trasferito.
5.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Non possono trovare accoglimento in ragione di quanto già sopra detto le argomentazioni relative al verbale della Guardia di finanza e al decreto di archiviazione del GIP. Tanto premesso, si rileva che a prescindere dall’inammissibilità della censura formulata con riguardo al CCNL di settore, del cui art. 30, non è riportato il testo, va ricordato che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass., n. 4060 del 2011).
E’ necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore.
L’irrogazione della massima sanzione disciplinare, dunque, risulta giustificata solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro.
La valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata, in sede di legittimità è insindacabile.
La Corte d’Appello, correttamente, e con congrua motivazione, tenuto conto anche del rigore con cui l’elemento fiduciario deve essere valutato nel settore bancario, ha ritenuto intervenuta la violazione dei doveri di fedeltà e riservatezza e la lesione del vincolo fiduciario. Va considerato, altresì, che nel caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso viene in considerazione non l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti (cfr, Cass., n. 14507 del 2003, n. 19684 del 2014).
Nè il diverso esito disciplinare per altro dipendente può assumere rilievo, in quanto ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un’analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro (Cass., n. 10550 del 2013), non venendo peraltro messe a confronto le relative contestazioni ai fini di prospettare l’identità delle situazioni riscontrate.
6. Il ricorso deve essere rigettato.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro cento per esborsi, Euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 29 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2015

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto del Lavoro.

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Lo Studio Legale Parenti raccoglie e seleziona quotidianamente per i suoi visitatori le Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 27/05/2015 n.10955

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. D.L.D., dipendente della Pelliconi Abruzzo s.r.l.
con la qualifica di operaio addetto alle presse stampatrici, è stato licenziato in data 24 settembre 2012 sulla base delle seguenti contestazioni: 1) in data 21/8/2012 si era allontanato dal posto di lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era rimasta incastrata nei meccanismi; 2) nello stesso giorno era stato trovato, nel suo armadietto aziendale, un dispositivo elettronico (Ipad) accesso e in collegamento con la rete elettrica; 3) nei giorni successivi, in orari esattamente indicati, si era intrattenuto con il suo cellulare a conversare su face book.
Il licenziamento è stato intimato per giusta causa, ai sensi dell’art. 1, comma 10, Sez., 4^ – Tit. 7^ del C.C.N.L. di categoria.
1.1. Il D.L. ha presentato ricorso L. n. 300 del 1970, ex art. 18, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, al Tribunale di Lanciano il quale, con sentenza resa in sede di opposizione contro l’ordinanza con la quale era stata rigettata l’impugnativa di licenziamento, l’ha accolta e ha dichiarato risolto rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data del licenziamento; ha quindi condannato la società datrice di lavoro a corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno pari a ventidue mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il Tribunale ha infatti ritenuto che i fatti contestati al lavoratore, – non essendo riconducigli a condotte punite dal C.C.N.L. con sanzioni conservative, in ragione della pluralità delle stesse e della loro commissione in un ristretto contesto spaziotemporale -, nondimeno, non integrassero gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, con la conseguenza che in base all’art. 18 cit., comma 5, nel testo modificato, doveva riconoscersi al lavoratore la sola tutela “attenuata” del risarcimento del danno.
1.2. La sentenza è stata reclamata dinanzi alla Corte d’appello dell’Aquila, con impugnazione principale, dal D.L. e, con impugnazione incidentale, dalla Pelliconi s.r.l. e la Corte aquilana, con sentenza depositata in data 12 dicembre 2013 ha rigettato il reclamo principale e accolto quello incidentale, rigettando così l’impugnativa di licenziamento proposta dal ricorrente, che ha poi condannato alla restituzione della somma ricevuta in esecuzione della sentenza reclamata.
1.3. La Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati al lavoratore siano stati provati attraverso la deposizione del teste P., responsabile del personale; che l’accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il tempo indicato – accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un “falso profilo di donna su face book” – non costituisse violazione della L. n. 300/1070, art. 4, in difetto dei caratteri della continuità, anelasticità, invasività e compressione dell’autonomia del lavoratore, nello svolgimento della sua attività lavorativa, del sistema adottato dalla società per pervenire all’accertamento dei fatti. Ha quindi proceduto al giudizio di proporzionalità tra i fatti accertati e la sanzione arrogata, ritenendo che si fosse in presenza di inadempimenti che esulano dallo schema previsto dall’art. 10 del C.C.N.L., in considerazione del fatto che il lavoratore era stato già sanzionato per fatti analoghi nel 2003 e nel 2009 e che tali precedenti erano stati espressamente richiamati nella lettera di contestazione.
1.4. Contro la sentenza il D.L. propone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, cui resiste con controricorso la società.
Le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare deve rilevarsi che è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione sollevata dalla difesa della Pelliconi Abruzzo s.r.l. nella memoria ex art. 378 c.p.c., sul presupposto che esso sarebbe stato notificato ai sensi dell’art. 149 c.p.c., l’11 febbraio 2014 (espressamente definito dal notificante, quale “ultimo giorno”), e cioè il sessantunesimo giorno dopo la data di comunicazione della sentenza della Corte aquilana, avvenuta a mezzo PEC il 12 dicembre 2013. In realtà, come si evince dalla stampigliatura in calce al ricorso, apposta dall’ufficiale giudiziario notificatore, l’atto è stato consegnato per la notifica il 10 febbraio 2014, con la conseguenza che il ricorso è tempestivo e, dunque, ammissibile.
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, e dell’art. 1175 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non essersi dichiarato inutilizzabile il controllo a distanza operato sul lavoratore senza la preventiva e indispensabile autorizzazione”. Assume che lo “stratagemma” (così definito dalla corte del merito) adoperato dall’azienda per accertare le sue conversazioni telefoniche via internet durante l’orario di lavoro costituisce una forma di controllo a distanza, vietato dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, trattandosi peraltro di un comportamento di rilievo penale, oltre che posto in violazione dei principi di correttezza e buona fede previsti dall’art. 1175 c.c..
1.2. – Il motivo è infondato.
1.3.- E’ rimasto accertato nella precedente fase di merito che, previa autorizzazione dei vertici aziendali, il responsabile delle risorse umane della Pelliconi Abruzzo s.r.l. ha creato un falso profilo di donna su face book con richiesta di “amicizia” al D. L., con il quale aveva poi “chattato in più occasioni”, in orari che la stessa azienda aveva riscontrato concomitanti con quelli di lavoro del dipendente, e da posizione, accertata sempre attraverso face-book, coincidente con la zona industriale in cui ha sede lo stabilimento della società.
1.4. – L’art. 4 dello statuto dei lavoratori vieta le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo. E’ stato affermato da questa Corte che l’art. 4 “fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore” (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250), sul presupposto – “espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (Cass., n. 8250/2000, cit., principi poi ribaditi da Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, e da Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722).
7.5.- Il potere di controllo del datore di lavoro deve dunque trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente, ed anche l’esigenza, pur meritevole di tutela, del datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
1.6. – Benchè non siano mancati precedenti di segno contrario (Cass., 3 aprile 2002, n. 4746), tale esigenza di tutela della riservatezza del lavoratore sussiste anche con riferimento ai cosiddetti “controlli difensivi” ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentino quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro” (Cass., n. 15892/2007, cit.; v. pure Cass., 1 ottobre 2012, n. 16622). In tale ipotesi, è stato precisato, si tratta di “un controllo c.d. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2” (Cass. 23 febbraio 2010 n. 4375).
1.7. – Diversamente, ove il controllo sia diretto non già a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, si è fuori dallo schema normativo della L. n. 300 del 1970, art. 4.
1.8. – Si è così ritenuto che l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali per conoscere il testo di messaggi di posta elettronica, inviati da un dipendente bancario a soggetti cui forniva informazioni acquisite in ragione del servizio, prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) (Cass., n. 2722/2012). Così come è stata ritenuta legittima l’utilizzazione, da parte del datore di lavoro, di registrazioni video operate fuori dall’azienda da un soggetto terzo, estraneo all’impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive finalità “difensive” del proprio ufficio e della documentazione in esso custodita (Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117).
1.9. – Infine, è stato precisato che le norme poste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 2 e 3, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino nè il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti nè il divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009, n. 16196).
1.10.- Nell’ambito dei controlli cosiddetti “occulti”, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermarne la legittimità, ove gli illeciti del lavoratore non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa, ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione delle somme incassate), e non presuppongono necessariamente illeciti già commessi (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388; v. Cass., 14 febbraio 2011, n. 3590, che ha precisato che le disposizioni dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative – purchè queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e Cass., 2 marzo 2002, n. 3039 che ha ritenuto legittimo il controllo tramite pedinamento di un informatore farmaceutico da parte del capo area; v. pure Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in cui si è ribadita, citando ampia giurisprudenza, la legittimità dei controlli effettuati per il tramite di normali clienti, appositamente contattati, per verificare l’eventuale appropriazione di denaro – (ammanchi di cassa) – da parte del personale addetto).
In questo stesso orientamento, si pone da ultimo, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, che ha ritenuto legittimo il controllo svolto attraverso un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex L. n. 104 del 1992, ex art. 33, (suscettibile di rilevanza anche penale), non riguardando l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.
1.11.- Da questo panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.
1.12.- Ad avviso del Collegio, la fattispecie in esame rispetta questi limiti e si pone al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati, e già manifestatisi nei giorni precedenti, allorchè il lavoratore era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto (che era così rimasta incustodita per oltre dieci minuti e si era bloccata), ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via internet.
Il controllo difensivo era dunque destinato ad riscontare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è trattato di un controllo ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti, e cioè dal riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio.
1.13. – Nè può dirsi che la creazione del falso profilo face book costituisca, di per sè, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva nè induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
1.14. Altrettanto deve dirsi con riguardo alla localizzazione del dipendente, la quale, peraltro, è avvenuta in conseguenza dell’accesso a face book da cellulare e, quindi, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare.
In ogni caso, è principio affermato dalla giurisprudenza penale che l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione prevista dall’art. 266 c.p.c. e ss., (Cass. pen., 13 febbraio 2013, n. 21644), ma piuttosto ad un’attività di investigazione atipica (Cass., pen., 27 novembre 2012, n. 48279), i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice (cfr. sul libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5 marzo 2010, n. 5440).
1.14. – Sono invece inammissibili per difetto di autosufficienza le ulteriori doglianze del ricorrente, incentrate sull’inquadrabilità della condotta posta in essere da P.G., responsabile delle risorse umane della Pelliconi, e costituita dalla creazione del falso profilo face book, nel reato di cui all’art. 494 c.p.. Di tale questione non vi è, infatti, cenno nella sentenza impugnata e la parte, pur asserendo di averla sottoposta alla cognizione dei giudici di merito, non indica in quale momento, in quale atto e in quali termini ciò sarebbe avvenuto, con la precisa indicazione dei dati necessari per il reperimento dell’atto o del verbale di causa in cui la questione sarebbe stata introdotta. Nè l’accertamento della rilevanza penale del fatto può essere condotto d’ufficio da questa Corte, poichè la valutazione circa l’esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato richiede un’indagine tipicamente fattuale, che esula dai limiti del sindacato devoluto a questa Corte.
Conseguentemente, sono da dichiararsi inammissibili ai sensi dell’art. 372 c.p.c., i documenti prodotti dal ricorrente unitamente alla memoria difensiva, relativi ad atti del procedimento penale avviato nei confronti del P. (decreto penale di condanna e verbali di interrogatorio), poichè essi non riguardano la nullità della sentenza impugnata nè l’ammissibilità del ricorso o del controricorso. 2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 5, dell’art. 2697 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), per non essersi assolto all’onere probatorio gravante in capo al datore di lavoro giustificativo del comminato licenziamento. Erronea e carente valutazione delle risultanze probatorie in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5), per essersi erroneamente valutate ed interpretate le acquisizioni probatorie agli atti di causa”.
2.1. – Il motivo è inammissibile sotto il profilo della violazione di legge, dal momento che il ricorrente non indica quale affermazione della Corte territoriale si pone in violazione delle norme indicate.
Ed invero il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatoci della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, (cfr.
Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038; 1 dicembre 2014, n. 25419).
2.2. – Sotto il profilo del vizio di motivazione deve rilevarsi che, nel regime del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (applicabile ratione temporis alla sentenza in esame, in quanto pubblicata dopo il 30 giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134), valgono i principi espressi dalle Sezioni unite di questa Corte, che con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, hanno affermato che “L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciatile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale atto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
2.3. – Nel caso di specie, il ricorrente non ha assolto tale onere, avendo omesso di specificare quale tra i fatti principali o secondari non sia stato considerato dal giudice di merito, risolvendosi la censura essenzialmente nell’addebitare alla Corte di non aver valutato la documentazione esibita dalle parti nel secondo grado del giudizio – documentazione di cui peraltro non viene indicato nè il contenuto nè i tempi e i luoghi della sua produzione, con evidente violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione -; nonchè di aver ritenuto provate circostanze di fatto che, invece, non erano state trovate, senza peraltro, anche in tal caso, riportare integralmente le deposizioni testimoniali che non sarebbero state esattamente interpretate e senza specificare dove sarebbero rinvenibili i verbali in cui le dette deposizioni sarebbero state trascritte. Infine, introduce questioni nuove, che non risultano affrontate nella sentenza di merito e rispetto alle quali il ricorrente non fornisce indicazioni sul modo ed il tempo in cui esse sarebbero state introdotte nelle pregresse fasi del giudizio di merito. Ciò vale per la mancata affissione del codice di disciplinare e per la recidiva, che secondo il suo assunto non avrebbe potuto esser utilizzata dal giudice di merito in quanto i fatti, relativi all’anno 2009, sarebbero stati archiviati e gli altri, risalenti al 2003, non potevano certo valere ai fini di determinare il licenziamento.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, è sufficiente rilevare che il giudice del merito ne ha tenuto conto ai soli fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati, non già come fatto costitutivo del diritto di recesso, con la conseguente irrilevanza dell’asserita archiviazione (Cass., 19 dicembre 2006, n. 27104; Cass., 20 ottobre 2009, n. 22162; Cass., 27 marzo 2009, n. 7523; Cass., 19 gennaio 2011, n. 1145).
2.4. – In definitiva, così impostato, il motivo del ricorso si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal Giudice di merito cui non può imputarsi d’avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr.
tra le tante, Cass., 25 maggio 2006, n. 12446; Cass. 30 marzo 2000 n. 3904; Cass. 6 ottobre 1999 n. 11121).
2.5.- Non sussiste pertanto il denunciato vizio di motivazione il quale, anche nella giurisprudenza precedente all’intervento delle sezioni unite citato, deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettate dalle parti rilevabili, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dalla ricorrente e, in genere, dalle parti per tutte, Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass., ord. 7 gennaio 2014, n. 91).
3.- Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 1, dell’art. 1455 c.c., dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sotto il profilo della mancata proporzionalità tra il comportamento addebitato al lavoratore e il licenziamento comminatogli. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 1, degli artt. 9) e 10) sez. 4^, titolo 7^ del C.C.N.L. dei metalmeccanici e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), sotto il profilo dell’erronea, incongrua e immotiva applicazione della sanzione del licenziamento comminato al lavoratore”.
3.1.- Il motivo è improcedibile con riferimento alla dedotta violazione delle norme del C.C.N.L. dei metalmeccanici, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, in difetto della produzione, unitamente al ricorso per cassazione, del contratto collettivo, oltre che di ogni precisa indicazione circa il tempo e il luogo della sua produzione nelle pregresse fasi del giudizio e l’attuale sua collocazione nel fascicolo del giudizio di cassazione.
Quanto al giudizio di proporzionalità, esso è stato condotto dal giudice del merito con rigore, valutando tutti gli elementi di fatto raccolti e complessivamente considerati dai quali ha tratto un giudizio, da un lato, di gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, di proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per giungere al convincimento che le lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, era tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
4. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e 4.000,00, per compensi professionali, oltre oneri accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2015