Il medico deve considerare i segnali d’allarme di una complicazione post-chirurgica, dal momento che il suo dovere di garanzia non è limitato all’interno della sala operatoria.
Questo è quanto chiarito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 32871/2020 nel caso di un paziente, affetto da un’occlusione colica, causata dalla presenza di una neoplasia stenostante, localizzata a livello del sigma-colon discendente (e, quindi, a livello del colon sinistro), che veniva sottoposto ad un intervento chirurgico di tipo routinario, non urgente.
Nel corso dell’intervento i chirurghi, all’atto dell’incisione della parete addominale, provocavano una lesione iatrogena della vescica, con spandimento di urina in peritoneo.
Al medico, quale chirurgo primo operatore e coordinato dell’équipe chirurgica responsabile dell’intervento, veniva contestato, sia in primo grado che in secondo grado, di non aver di non aver verificare il buon esito dell’operazione e di non aver monitorato le condizioni cliniche del paziente (così come previsto dalle linee guida e buone pratiche attualmente accreditate dalla comunità scientifica), determinando uno shock settico, che causava il decesso del paziente.
La decisione è quindi approdata al vaglio di legittimità della Corte di Cassazione che non ha mancato di rimarcare, in tema di responsabilità medica d’équipe, l’ambito di applicabilità della posizione di garanzia dell’équipe medica nei confronti del paziente.
La titolarità di una posizione di garanzia – spiega la Corte- non comporta un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante. Occorre, infatti, accertare in concreto la violazione da parte del garante di una regola cautelare (generale o specifica), la prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (c.d. concretizzazione del rischio) e, infine, la sussistenza del nesso causale tra la condotta del garante e l’evento dannoso.
Nell’attività chirurgica d’équipe, con il compimento di un’operazione chirurgica, tutta l’équipe medica assume nei confronti del paziente una vera e propria posizione di garanzia, che impone ad ogni sanitario il rispetto delle regole di prudenza e diligenza.
Sulla scorta di tali rilievi, nel caso di specie, la responsabilità medica d’equipe è stata ritenuta sussistente per non aver adeguatamente il medico verificato il decorso post-operatorio del paziente ed, in particolare, per non essersi avveduto dell’anuria derivante dalla lesione iatrogena della vescica determinata nel corso dell’intervento chirurgico, così non impedendo lo shock settico del paziente.
Secondo la Corte, “il fatto che l’anestesista non avesse segnalato in corso di intervento l’anuria del paziente non si correla alle regole di prudenza e diligenza che comunque prescrivevano l’accurata indagine del campo operatorio prima della chiusura e comunque non escludono la negligenza dell’imputato nel post-operatorio attesa la sintomatologia evidente”.
Per i giudici la colpa a carico dell’imputato veniva, quindi, individuata nell’imperita esecuzione dell’intervento chirurgico (atteso che la lesione della vescica, con conseguente spandimento uroperitoneale, era stata determinata all’atto dell’incisione della parete addominale) e nel non avere adeguatamente verificato il decorso postoperatorio del paziente, così da non avvedersi dei “segnali” di allarme ed in particolare l’anuria.
Del resto, evidenzia la Corte, nella specie, era pienamente esigibile il comportamento alternativo corretto vertendosi in tema di conoscenze tecniche, ben più basilari rispetto alle c.d. linee guida, che l’imputato medico chirurgo capo équipe non poteva ignorare.
Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso è stato rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese.