Reato di diffamazione e “stato” su WhatsApp

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Il caso

Un uomo pubblicava sul suo “stato” di WhatsApp dei contenuti alquanto lesivi della reputazione di una donna.

Condannato in prime e seconde cure per il reato di diffamazione propone ricorso presso la Suprema Corte lamentando tra gli altri motivi l’assenza di una prova certa che «i messaggi fossero rivolti» alla donna che lo aveva denunciato e che, in ogni caso, «fossero realmente visionabili» da tutti i contatti presenti sulla sua rubrica.

Secondo i Giudici le ragioni che hanno permesso di stabilire «la riferibilità alla donna delle espressioni diffamatorie» sono state correttamente illustrate tra primo e secondo appello.

È inoltre illogico pensare che l’imputato abbia permesso la visione dei suoi contenuti solo alla persona offesa bloccando la visibilità a tutta la sua restante rubrica perché in quel caso «sarebbe stato sufficiente mandare un messaggio individuale» offensivo alla donna.

Con la sentenza n. 33219/21 dell’8 settembre la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile.