Legittimo il licenziamento del dipendente che prolunga la pausa pranzo

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La Corte di Cassazione con sentenza n. 21628 del 2019 ha statuito che è legittimo il licenziamento del postino che si intrattiene con i colleghi prolungando la pausa pranzo.

La pronuncia in commento trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, da Poste Italiane Spa.

Il giudice di prime cure aveva rigettato l’impugnativa, ed anche la Corte territoriale aveva ritenuto integrata la giusta causa di licenziamento, in quanto il dipendente si era intrattenuto oltre l’orario di pranzo previsto, lasciando incustodita la posta assegnatagli ed il mezzo in dotazione, tra l’altro, senza aver consegnato due plichi.

Avverso tale sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione. Tra le censure prospettate, il ricorrente lamentava che l’addebito mossogli, rientrerebbe nella previsione del contratto collettivo, vincolando il giudice a non applicare una sanzione più grave rispetto a quella prevista dalle parti sociali. In particolare, la previsione collettiva punisce il dipendente con la sanzione della sospensione dal servizio fino a dieci giorni, per abituale negligenza o inosservanza agli obblighi di servizio nell’adempimeno della prestazione lavorativa. Ne deriva che la condotta del ricorrente non era sanzionabile con il licenziamento, ma con la semplice sospensione dal servizio.

La Corte territoriale, ha invece considerato il comportamento del ricorrente, connotato da maggiore gravità poiché: “è stato posto in essere assieme ad altri dipendenti ed è stato notato dalla collettività al punto che risulta anche presentato un esposto contro il malfunzionamento del servizio dagli abitanti della zona interessata da cui poi erano scaturite le indagini; nel corso del tempo speso a pranzo oltre la pausa concessa il dipendente avrebbe ben potuto completare le ricerche utili a consegnare i plichi rimasti inevasi; il P. , solito a intrattenersi presso il ristorante, aveva lasciato in quelle occasioni del tutto incustodito il mezzo aziendale”.

Dunque, tali elementi sono idonei ad escludere la riconduzione degli addebiti così come accertati dal giudice di merito, alla previsione di abituale negligenza o di abituale inosservanza degli obblighi di servizio punibili con la sanzione conservativa prevista nella contrattazione collettiva, come invece sostenuto dal ricorrente.

La  Corte di Cassazione ha infatti condiviso la decisione della Corte d’Appello, la quale ha correttamente considerato la graduazione delle infrazioni disciplinari indicate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, rappresentate dalla giusta causa e dal giustificato motivo soggettivo. Pertanto ha ritenuto che i fatti contestati non avevano pari disvalore disciplinare rispetto a quelli  punibili con la sanzione conservativa.

Per tali motivi la Suprema Corte ha respinto il ricorso.