Covid-19 e blocco licenziamenti

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L’art. 46 del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) – poi convertito in L. n. 27/2020 – ha imposto per tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, un divieto assoluto (ma temporaneo) di effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. n. 604/1966.
Il divieto, inizialmente della durata di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020), è stato poi esteso, per complessivi cinque mesi, dall’art. 80 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “ Decreto Rilancio Italia”).
Gli iniziali dubbi sulla disposizione in commento, recentemente acuiti per effetto della suddetta proroga, offrono quindi l’occasione per approfondire – senza presunzione di completezza – le ragioni del divieto e la sua compatibilità con i principi (anche di rango costituzionale) che presiedono la disciplina del licenziamento per g.m.o
Fermo restando l’ammissibilità di altri tipo di licenziamento (i licenziamenti per giusta causa; i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo; i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia; i licenziamenti per inidoneità, etc.) quello per giustificati motivi oggettivi, introdotto con la legge 15 luglio 1966, n. 604, pone un divieto generale per il legislatore di introdurre (rectius ripristinare) un generale regime di libera recedibilità nei rapporti di lavoro.
Tra le ipotesi “giustificate” si annovera la cessazione del rapporto lavorativo dettata da ragioni inerenti «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Sebbene tale espressione descrittiva configuri – secondo la dottrina maggioritaria– una norma “a fattispecie aperta” o “generale”, la giurisprudenza solo recentemente è approdata alla soluzione interpretativa secondo la quale, tra le ragioni ivi indicate, rientrerebbero anche le “mere” decisioni organizzative dettate dal conseguimento di un maggior profitto, dovendosi invece escludere la necessaria ricorrenza di situazioni di crisi aziendale. Un’interpretazione di tal specie, si è detto, non assimilerebbe il licenziamento al recesso “ad nutum”, in quanto la decisione imprenditoriale resterebbe comunque motivata da ragioni organizzative che sarà necessario attuare in concreto, con la conseguenza che, ove il licenziamento “sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso risulta ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore” (Cass. n. 25201/2016).
Dalle tali considerazioni, dunque, ben può comprendersi come l’art. 3 della legge n. 604/66 – nel prescrivere da un lato la necessaria giustificazione del licenziamento e, dall’altro lato, nel ritenere “a priori” che tale presupposto sia integrato dal (legittimo) esercizio del potere datoriale di organizzazione – realizzi un adeguato bilanciamento tra le opposte esigenze della conservazione del rapporto di lavoro, tutelato dall’art. 4 Cost. e della libertà d’impresa, tutelata dall’art. 41 Cost. Ebbene, se il Legislatore si era già preoccupato di ponderare gli interessi in gioco, sorge spontaneamente la domanda sulla compatibilità, nell’attuale assetto normativo, di un divieto assoluto di licenziamento, come tale, insensibile all’accertamento di tali ragioni organizzative.