Costituisce violenza privata costringere un sottoposto a formalizzare le dimissioni a fronte della minaccia del licenziamento

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In presenza di una condanna generica al risarcimento del danno, la parte civile non è legittimata ad impugnare la sentenza con la quale l’imputato è stato condannato, nell’ipotesi in cui al fatto sia stata data una qualificazione giuridica diversa rispetto a quella contenuta nell’imputazione, rimanendo alla parte civile soltanto la possibilità di sollecitare l’impugnazione del P.M..

La Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi presentati avverso la condanna emessa dalla Corte di Appello, per violenza privata (art. 610 c.p.), contro un direttore di stabilimento che avrebbe costretto un dipendente a sottoscrivere una lettera di dimissioni dal lavoro minacciando, altrimenti, il licenziamento.
I Giudici del secondo grado, in particolare, rilevano come non si possa dubitare del fatto che il lavoratore, nel corso di una discussione con il caporeparto e con il direttore di stabilimento, originata da contestazioni relative al mancato funzionamento di uno strumento di lavoro, fosse stato indotto, contro la sua volontà, a redigere di suo pugno una dichiarazione di recesso dal contratto di lavoro.
La minaccia sarebbe stata quella di annotare, altrimenti, sul libretto di lavoro il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro.
L’imputato ricorreva lamentando, tra l’altro, che la minaccia utilizzata per costringere il dipendente a redigere la dichiarazione di recesso sarebbe stata realizzata prefigurando mali del tutto irrealizzabili non essendo il direttore di stabilimento competente a decidere sul licenziamento del sottoposto.
Secondo i Giudici di legittimità, l’oggettiva disparità di forze esistente tra il direttore dello stabilimento e il lavoratore dipendente (anche considerato la fragilità caratteriale di quest’ultimo), integrano una piattaforma probatoria sufficiente a fondare il giudizio di concreta idoneità intimidatoria. Senza alcun rilievo è il fatto che il male prospettato fosse inesistente o improbabile perché dipendente da un fattore eziologico e volontaristico indipendente dal direttore di stabilimento, poiché «la conoscenza di tali fattori fuoriesce da quella propria dell’uomo medio».
Anche con riferimento al ricorso proposto dalla parte civile, la Corte decreta l’inammissibilità, e ciò in quanto «quel che vincola il Giudice civile in sede risarcitoria non è la qualificazione del fatto, bensì il fatto illecito nella sua dimensione illecita». In altri termini, se la diversa qualificazione giuridica accede al fatto immutato nella sua sussistenza e consistenza storica, la parte civile non è legittimata a dolersene poiché tale diversa qualificazione non vincola il giudice civile deputato a quantificare il risarcimento, al quale non interessa tanto il reato, quanto piuttosto il fatto illecito. Ciò, ovviamente, se si è in presenza, in sede penale, di una condanna generica al risarcimento del danno, da quantificare in separata sede civile.