La Corte di Cassazione con la sentenza n. 26759 del 2019 ha stabilito che, in seguito al trasferimento di un ramo di azienda avvenuto in assenza dei presupposti di legge, la retribuzione pagata dal destinatario della cessione si cumula con quella dovuta dall’azienda cedente.
La fattispecie traeva origine dalla decisione con cui la Corte di merito, accogliendo l’appello proposto dalla società datrice di lavoro, aveva revocato i decreti ingiuntivi con cui i lavoratori della medesima rivendicavano il pagamento delle retribuzioni loro dovute, sancito invece dal Giudice di prime cure.
La Suprema Corte è intervenuta per chiarire se, nel caso di trasferimento di un ramo d’azienda dichiarato illegittimo, possa essere detratta la retribuzione percepita dal lavoratore nello stesso periodo per l’attività prestata alle dipendenze del cessionario.
Orbene, solo un legittimo trasferimento d’azienda determina la continuità di un rapporto di lavoro che rimane unico: ai sensi infatti dell’art. 2112 c.c. è consentita la sostituzione del contraente, anche senza consenso del ceduto.
Nel caso in esame, l’unicità del rapporto è venuta meno, in quanto, il trasferimento è stato dichiarato invalido, tenuto conto della formazione di un nuovo e differente rapporto di lavoro con il soggetto non più cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore di fatto ha continuato a lavorare.
La Suprema Corte ha poi precisato come, accanto alla prestazione del lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, svolta in favore del soggetto con il quale abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra, resa in favore del datore di lavoro originario, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure ripristinato. Al lavoratore spetta la retribuzione, sia se la prestazione di lavoro sia stata effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro si trovi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti; pertanto, il rifiuto del datore di lavoro, giudizialmente dichiarato, di ricevere la prestazione lavorativa, rende equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente, alla sua utilizzazione effettiva, per cui il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare al lavoratore, la relativa la controprestazione retributiva.
Sulla scorta delle sopra esposte argomentazioni, la Cassazione ha accolto il ricorso dei lavoratori ed enunciato il seguente principio di diritto: “in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa”.