Il caso
Un uomo veniva condannato penalmente dopo essere stato accusato dalla compagna di averle sottratto con violenza lo smartphone per poter visionare la rubrica telefonica e i messaggi.
La Corte d’Appello di Bologna confermando la sentenza del Tribunale di Bologna condannava l’uomo per i reati di rapina impropria, lesioni aggravate e violenza privata.
Avverso tale decisione proponeva ricorso presso la Suprema Corte l’imputato a mezzo del proprio legale di fiducia lamentando tra gli altri motivi l’errata configurazione del reato di rapina impropria.
L’ingiusto profitto derivato dalla condotta dell’uomo, secondo il difensore, sarebbe stato erroneamente identificato con la possibilità di “visionare i numeri e le comunicazioni contenute nel cellulare”.
I Giudici ritengono il ricorso manifestamente infondato.
La Suprema Corte afferma che “con l’impossessamento violento del telefono” della donna “l’uomo non avesse perseguito uno scopo di lucro”, anche perché “nel delitto di rapina, l’ingiusto profitto non deve necessariamente concretarsi in un’utilità materiale, potendo consistere anche in un vantaggio di natura morale o sentimentale che l’agente si riproponga di conseguire, sia pure in via mediata, dalla condotta di sottrazione ed impossessamento, con violenza o minaccia, della cosa mobile altrui”.
Impossibile per i giudici di terzo grado accogliere la doglianza della difesa secondo la quale “la rapina si sarebbe consumata tra persone legate da una relazione sentimentale” e che scopo dell’uomo era di “conoscere il codice di accesso al telefono cellulare” della donna.
Con la sentenza n. 45557/21 del 10 dicembre la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.