Non commette favoreggiamento alla prostituzione chi pubblica inserzioni aventi ad oggetto prestazioni sessuali

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Corte di Cassazione, sentenza n. 42588 del 18.11.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che va sospeso dall’attività il ginecologo indagato per omicidio colposo. La Corte di Cassazione ribalta il verdetto sia del Gip sia del tribunale di sorveglianza, che avevano considerato superflua la misura interdittiva nei confronti di un chirurgo ginecologo. Contro il medico il Pubblico ministero aveva aperto un procedimento ravvisando una grave negligenza nella morte di una paziente per le conseguenze di una laparoscopia. L’intervento, tra l’altro sconsigliato per il tipo di patologia, era stato eseguito in maniera tanto scorretta da procurare alla paziente lesioni gravi all’intestino e alla vescica. Conseguenze di cui il medico si era reso conto nel corso dell’intervento senza però riparare ai danni, neppure nei giorni successivi quando le condizioni della signora erano peggiorate. Il ginecologo era inoltre già stato querelato per lesioni gravissime procurate a un’altra sua “assistita” con un raschiamento. In considerazione di una condotta tanto grave da far ipotizzare addirittura un omicidio volontario, benché sotto l’aspetto del dolo eventuale, il pm aveva rinnovato anche in sede d’appello la richiesta di uno stop all’attività, incassando il doppio no del Gip e del Tribunale del riesame. Secondo i giudici la misura doveva considerarsi superflua nei confronti di un indagato per un reato di natura colposa per giunta incensurato. In più, a garanzia delle pazienti, c’era la disposizione dell’ospedale che aveva vietato l’esecuzione di interventi come quello fatto dal ricorrente. Non è d’accordo la Cassazione che giudica opportuna la sopensione dall’attività per escludere il rischio concreto di offendere nuovamente interessi collettivi già colpiti. La Cassazione invita a tenere presente quanto disposto dall’articolo 133 del codice penale sulla gravità del reato. In particolare la personalità dell’indagato, incline a violare regole cautelari, l’evitabilità dell’evento e il grado di esigibilità della condotta omessa

Corte di Cassazione, sentenza n. 42428 del 17.11.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che anche una stampante se lanciata contro una persona può essere considerata un’arma impropria e dar luogo alla relativa aggravante in un reato di lesioni volontarie. Per la Suprema Corte “correttamente i giudici di Appello mutuano il concetto di arma impropria, indicativo di qualunque strumento ad atto ad offendere di cui sia vietato il porto senza giustificato motivo, oltre che dal disposto testuale dell’articolo 585 comma 2 n. 2 Cp, anche dall’articolo 4 comma 2 legge n. 110/1975, che per l’appunto definisce la nozione della categoria di oggetti che non è consentito portare fuori dell’abitazione senza un motivo giustificato, individuandoli in qualsiasi strumento chiaramente utilizzabile, per circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”.
Non è dunque richiesta alcuna tipicità funzionale di qualsivoglia oggetto che, per circostanze spaziali e temporali, venga con modalità casuali, ma volontarie, utilizzato con finalità offensiva e quindi difformi rispetto alla naturale o merceologica destinazione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 42114 del 16.11.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che durante una torneo di calcio se un ragazzino sferra un destro ad un avversario, mentre l’azione si stava svolgendo in tutt’altra parte del campo commette lesioni personali.
Per Piazza Cavour, infatti, l’infrazione delle regole va sempre valutata in concreto con riguardo “all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco”. Inoltre, l’azione lesiva, per essere giustificata, non deve integrare una infrazione della regola sportiva e se lo fa deve essere “compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto agonistico di svolgimento”.
Pertanto, “un pugno inferto all’avversario quando il pallone sia giocato in altra zona del campo è condotta gratuita, estranea alla logica dello sport praticato, nonché dolosa aggressione fisica dell’avversario per ragioni affatto avulse dalla peculiare dinamica sportiva”.
Infatti, nel calcio “l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone”, oppure da movimenti anche senza la palla funzionali però “alle più efficaci strategie tattiche – blocco degli avversari; marcamenti vari; tagli in area e quant’altro – e non può ricomprendere tutto quanto avvenga in campo”, anche se durante l’orario di gioco

Corte di Cassazione, sentenza n. 40678 del 09.11.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è possibile parlare di desistenza volontaria solo quando l’autore del crimine ha ancora il pieno controllo dell’azione che intendeva compiere. La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, spiega in quali circostanze può essere esclusa l’accusa di reato tentato e attribuire l’attenuante della desistenza volontaria. La Suprema Corte afferma innazitutto che la desistenza attiva, per assumere un rilievo giuridico, presuppone un’azione penalmente rilevante. E’ dunque necessario che si entri nella fase del tentativo punibile e che esista concretamente la possibilità di compiere il delitto. Due i criteri indicati dalla dottrina per individuare il momento ultimo in cui la configurabilità è ancora possibile: la “continuità temporale” e “il dominio diretto” dell’azione intrapresa. In termini di sostanziale “continuità temporale” l’autore deve invertire con modalità “inequivoche” una situazione di cui ha ancora il pieno dominio, che non gli sia dunque sfuggita di mano per ragioni che prescindono dalla sua volontà.

Corte di Cassazione, sentenza n.39271 del 31.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il giudice per l’udienza preliminare non può entrare nel merito della vicenda quando emette un verdetto di non luogo a procedere. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto invita il Gup a non utilizzare nelle udienze preliminari logiche previste solo per il dibattimento e ad astenersi dal fare valutazioni sui fatti oggetto del procedimento. Gli ermellini ricordano, infatti, che la sentenza di non luogo a procedere ha un carattere prevalentemente processuale e non di merito. Il ruolo del giudice è quindi limitato a verificare la “tenuta” delle prove raccolte rispetto alla tesi che il pubblico ministero intende portare avanti con lo scopo di evitare che arrivino in giudizio cause “insostenibili”.
La semplice verifica della consistenza delle prove – La scrematura del non luogo a procedere riguarda le vicende in cui è evidente l’infondatezza dell’accusa, quelle in cui esiste una prova di innocenza o, per finire, quelle in cui gli elementi acquisiti sono pochi o contraddittori e quindi considerati troppo deboli per reggere un processo. La Suprema corte ha accolto, nel caso specifico, il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del Gup di Trento che aveva deciso il non luogo a procedere facendosi un po’ troppo “prendere la mano” fino a esprimere praticamente un giudizio di non colpevolezza nei confronti del conducente di un camion coinvolto in un incidente in cui era morto un motociclista. Considerazioni oltre tutto non corrette. Il giudice per le indagini preliminari aveva, infatti, ritenuto irrilevanti elementi al contrario importanti, come la velocità dei veicoli o l’utilizzo dei segnali luminosi. Questioni e tematiche, trattate in maniera superficiale e generica la cui soluzione è demandata alla fase del dibattimento. Per questo la Corte di piazza Cavour rinvia gli atti al Tribunale di Trento

Corte di Cassazione, sentenza n. 39326 del 02.11.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che per la custodia in carcere sono utlizzabili i brogliacci delle intercettazioni.
La Suprema corte respinge quindi la tesi sostenuta nel ricorso di una violazione del diritto di difesa. Il legale lamentava anche di essere stato informato dai carabinieri della possibilità di accedere ai supporti magnetici e non dallo stesso pubblico ministero. Ma non basta, secondo il ricorrente, un’ulteriore violazione c’era stata con l’utilizzo di impianti diversi da quelli a disposizione della procura.
Corretto, a parere del Supremo collegio, il comportamento del Pm che aveva provveduto alla duplicazione dei Dvd e per metterli a disposizione della difesa che non aveva voluto usufruirne solo in ragione di una supposta “irritualità” della comunicazione delegata dalla procura ai carabinieri. Corretto, infine per gli ermellini, anche il ricorso agli strumenti alternativi, legittimati dalla situazione eccezionale d’urgenza. La Cassazione precisa, infatti, che l’esigenza di rapidità giustifica l’uso di mezzi “extra moenia”. Una condizione legittimante che ricorre anche quando le apparecchiature in dotazione sono insufficienti o inadeguate rispetto alle indagini da svolgere.

Corte di Cassazione, sentenza n. 39163 del 28.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precito che al dializzato va riconosciuto il legittimo impedimento a comparire in udienza. La Corte di Cassazione, afferma il dovere del giudice di prendere conoscenza del calendario dei trattamenti dell’imputato, costretto alla dialisi per un’insufficienza renale, in modo da fissare udienze che non coincidano con i giorni di terapia. Una conclusione diametralmente opposta rispetto a quella a cui erano arrivati i giudici di merito che avevano escluso il legittimo impedimento ipotizzando, senza fare le opportune verifiche, per l’imputato la possibilità di spostare le date della dialisi. La seconda sezione penale sottolinea che il diritto alla salute non può essere degratato neppure in presenza di altri beni di rilievo costituzionale. “In tema di impedimento dell’imputato a comparire al dibattimento deve ritenersi idonea a documentare l’effettiva sussistenza di un impedimento assoluto a comparire la certificazione sanitaria dalla quale emerga che lo stesso trovi causa in un motivo di salute, effettivo ed attuale, quale che sia il grado di pericolo che la malattia in atto comporta, poiché il diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” in base all’articolo 32 della Costituzione, non può essere sottoposto a graduazioni o essere misurato nella sua entità

Corte di Cassazione, sentenza n. 39237 del 28.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preisato che deve essere condannato per calunnia chi dichiara di aver perso un assegno che ha in realtà dato in pagamento. Un reato che scatta a prescindere dalla mancata querela per appropriazione indebita da parte del mentitore. La Corte spiega il risvolto, per nulla innocuo, di una bugia che potrebbe avere come effetto quello di trasformare in ladro o ricettatore chi in tutta buona fede ha incassato il titolo consegnato spontaneamente.

Corte di Cassazione, sentenza n. 39228 del 28.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisat che nel reato di maltrattamenti in famiglia la prescrizione decorre dalla data dell’ultima azione penalmente rilevante.
Per la Corte il reato di violenza in familglia , come ogni reato abituale, deve essere considerato “reato di durata”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 38297 del 24.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’onore e il decoro di un bimbo può essere leso dalla parola “scioccarellino” se gli viene rivolta davanti ai suoi amichetti. Quello che nella lingua italiana sembrerebbe quasi un “vezzeggiativo”, per la Corte di cassazione è diventato un insulto da sanzionare con una condanna per ingiuria. Non si tratta di un’inversione di tendenza da parte di giudici che spesso si sono dimostrati di manica larga arrivando a considerare insulti ben più forti come espressioni ormai entrate nel linguaggio comune.
Contano il contesto e l’intenzione – Secondo gli ermellini le parole non vanno valutate in astratto, ma acquistano peso in base al contesto e alla volontà di ferire di chi le pronuncia. La ricorrente ha messo d’accordo sia i giudici di merito sia la Suprema Corte perdendo i tre i gradi di giudizio: tutti sono stati d’accordo nel ritenere che la signora abruzzese avesse l’intenzione di manifestare un disprezzo lesivo del decoro di un bimbo impegnato a giocare con altri coetanei. Gli ermellini prendono le distanze dalla tesi della difesa secondo cui la parola “scioccarellino” è “inidonea a offendere l’onore e il decoro di chicchessia”. Invano anche la donna ha spiegato che se avesse avuto l’intenzione di ingiuriare il bambino, avrebbe scelto termini più “forti”. I giudici di piazza Cavour hanno stabilito in favore della piccola vittima un risarcimento di 600 euro. Tutti da mettere nel salvadanaio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 37692 del 18.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la dubbia provenienza di un quadro non cancella il diritto di impugnare gli atti di sequestro o restituzione da parte di chi lo ha regolarmente acquistato. La Corte accoglie un ricorso per contestare la decisione, del tribunale del riesame, di bollare come tardiva l’impugnazione dell’atto con il quale la Corte d’Appello decretava la restituzione di un Trittico del XIV secolo all’arcidiocesi di Firenze. Impugnazione di cui il ricorrente difende invece la regolarità, avendola proposta entro i dieci giorni dalla data in cui era venuto a conoscenza della revoca del sequestro e della conseguente restituzione. Una notizia che a lui non era stata comunicata perché non era stato inserito tra i destinatari che hanno il diritto a proporre l’impugnazione. Anche secondo il tribunale del riesame, infatti, il ricorrente non avrebbe tratto alcun vantaggio da un’eventuale marcia indietro sul provvedimento di restituzione e ripristino del sequestro preventivo, perché il bene sarebbe rimasto in affidamento all’Arcidiocesi. Una mancanza d’interesse su cui la Cassazione non è d’accordo. Il Supremo collegio spiega, infatti, che la condizione di proprietario del ricorrente gli consentiva di opporsi alla restituzione del Trittico all’Arcidiocesi e di chiedere il trasferimento della controversia al giudice civile, dal momento che la chiesa da cui il bene era stato trafugato era di proprietà privata e non dell’Arcidiocesi. La qualifica di interessato legittimato a ricorrere – spiegano gli ermellini – deve essere riconosciuta, infatti, non solo a chi ha attivato l’intervento contestato ma anche a chi da questo subisce conseguenze dirette nella sua sfera soggettiva. Tutto regolare anche per quanto riguarda la tardività dell’opposizione perché questa decorre o dalla data di esecuzione del provvedimento o da quella in cui l’interessato è venuto a conoscenza del sequestro.

Corte di Cassazione, sentenza n. 37380 del 17.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che mettere a tacere qualcuno affermando che dice “solo stronzate” è maleducazione, ma farlo nell’ambiente di lavoro, davanti ai colleghi, è reato. La Cassazione ha condannato per ingiuria il preside di un istituto scolastiche che, durante una riunione di docenti, la frese “lei dice solo stronzate”.
Il momento sbagliato – Un’affermazione un po’ forte che comunque la Cassazione, in altre circostanze, aveva inserito tra le parolacce sdoganate, ma questa volta non lo fa per via del contesto “lavorativ
o e umano” in cui è stata proferita. Non centra il bersaglio il tentativo della difesa di negare che il suo assistito avesse pronunciato l’avverbio “solo”. Un’ omissione che – a parere dell’avvocato – consentiva di catalogare il peccato come “veniale” ma che è stata invece considerata dagli ermellini ininfluente. La lesione dei beni dell’onore e del decoro di individuo – segni distintivi del suo valore e del rispetto di cui ogni essere umano deve godere – è determinata dall’ambiente in cui l’espressione offensiva viene detta più che dal suo contenuto.
Il consesso di educatori – Banditi dunque in generale gli improperi gridati sul luogo di lavoro e davanti ai colleghi. Ma a peggiorare la situazione del ricorrente anche il suo ruolo di preside che si era malamente lasciato andare, anche come superiore, al cospetto di un collegio di educatori, dicendo la cosa sbagliata nel momento sbagliato. E’ provata per i giudici la lesione e la volontà di umiliare

Corte di Cassazione, sentenza n. 36779 del 12.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che lo spam non configura una molestia perché “il destinatario può decidere se aprire o no la posta indesiderata. La Corte esclude l’ipotizzabilità del reato de quo nel caso di molestie recate con il mezzo della posta elettronica, perché in tal caso nessuna immediata interazione tra il mittente e il destinatario si verificherebbe né veruna intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo”.
Recita così il verdetto contenuto nella sentenza in oggetto con la quale la Corte di Cassazione esclude che lo spam, l’odiosissima posta indesiderata che intasa le nostre caselle email, possa rientrare nella fattispecie di di reato previsto dall’art. 660 del codice penale, ovvero “Molestia o disturbo alle persone”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 36718 del 11.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il ritardo nella presentazione dei giustificativi di per sé non giustifica la condanna per peculato. Con questa motivazione la Corte, ha annullato la condanna a un anno e sei mesi di reclusione nei confronti dell’ex sindaco di Pagani, poi nominato consigliere regionale del Pdl ed arrestato lo scorso 15 luglio – successivamente ha ottenuto i domiciliari – con l’accusa di concussione e associazione per delinquere finalizzata allo scambio elettorale politico-mafioso.
Per i giudici, dunque, la mancata allegazione delle ricevute delle spese effettuate dal sindaco con la carta di credito attribuitagli dall’amministrazione per svolgere funzioni di rappresentanza istituzionale non può senza altra prova integrare il reato di peculato continuato.
La Suprema corte, infatti, ha chiarito che la Corte di appello di Salerno, prima di confermare la condanna emessa in primo grado dal Gup di Nocera Inferiore, avrebbe dovuto esaminare le giustificazioni offerte dal sindaco anche se in ritardo al fine di verificare la “la corrispondenza della <> della spesa”, e non sottrarsi all’esame delle stesse, come invece ha fatto, “in base alla sola considerazione della non coevità” nella presentazione della documentazione di appoggio.
Del resto, osserva la Corte, proprio il sistema di funzionamento delle carte di credito, con il rilascio di una ricevuta immediata e una contabilizzazione successiva inviata alla banca presso cui è aperto il conto corrente del comune, permetterebbe all’amministrazione di svolgere un controllo sulla congruità delle spese. In quest’ottica prosegue la Corte non importa che la giustificazione sia o meno prossima alla spesa, quanto che essa ci sia e dimostri, in modo trasparente e chiaro, la realizzazione di uno scopo pubblico.
In conclusione per i giudici della Suprema Corte hanno affermato “quando la sentenza impugnata teorizza che la mancata giustificazione coeva costituirebbe reato, compie una operazione ermeneutica scorretta, perché confondendo il reato con la prova dello stesso, introduce nella fattispecie penale un elemento estraneo (la giustificazione contabile) previsto da norme amministrative, che attiene al controllo sulla regolarità delle spese”.
Ora, a decidere se le spese effettuate dall’ex sindaco siano o meno riconducibili ad una attività di rappresentanza istituzionale sarà la Corte di appello di Napoli che dovrà valutarle nel merito.

Corte di Cassazione, sentenza n. 36503 del 10.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’eccesso di protezione che ha come conseguenza l’isolamento del bambino dal contesto sociale fa scattare il reato di maltrattamenti in famiglia. La Cassazione, ha confermato la condanna a carico di un nonno e di una madre che, iperprotettivi verso il minore gli avevano impedito di frequentare i coetanei, cancellato la figura paterna e fatto frequentare saltuariamente la scuola. Combinazione di comportamenti che avevano avuto l’effetto di danneggiare il bambino che era arrivato ad avere disturbi deambulatori. Un “eccesso di accudienza”, come lo definisce la Cassazione, che non trova giustificazioni. Inutili i tentativi della difesa dei ricorrenti di negare la sussistenza del reato di maltrattamento in famiglia. Secondo il legale, mancavano, infatti, gli elementi costitutivi, rappresentati sia dalla volontà di danneggiare sia dalla violenza fisica oltre alla mancata percezione del minore di essere maltrattato. Considerazioni che la Cassazione respinge, affermando l’estensibilità del reato a condotte in grado di ritardare gravemente lo sviluppo psicologico e relazionale (con i coetanei e con il padre) del bambino. Danni che possono essere assimilati alla violenza fisica a prescidere dalla consapevolezza della vittima di subirla.

Corte di Cassazione, sentenza n. 36503 del 10.10.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’eccesso di protezione che ha come conseguenza l’isolamento del bambino dal contesto sociale fa scattare il reato di maltrattamenti in famiglia. La Cassazione, ha confermato la condanna a carico di un nonno e di una madre che, iperprotettivi verso il minore gli avevano impedito di frequentare i coetanei, cancellato la figura paterna e fatto frequentare saltuariamente la scuola. Combinazione di comportamenti che avevano avuto l’effetto di danneggiare il bambino che era arrivato ad avere disturbi deambulatori. Un “eccesso di accudienza”, come lo definisce la Cassazione, che non trova giustificazioni. Inutili i tentativi della difesa dei ricorrenti di negare la sussistenza del reato di maltrattamento in famiglia. Secondo il legale, mancavano, infatti, gli elementi costitutivi, rappresentati sia dalla volontà di danneggiare sia dalla violenza fisica oltre alla mancata percezione del minore di essere maltrattato. Considerazioni che la Cassazione respinge, affermando l’estensibilità del reato a condotte in grado di ritardare gravemente lo sviluppo psicologico e relazionale (con i coetanei e con il padre) del bambino. Danni che possono essere assimilati alla violenza fisica a prescidere dalla consapevolezza della vittima di subirla.

Corte di Cassazione, sentenza n. 35895 del 29.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che per il reato di omesso o intempestivo versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali è sufficiente il dolo generico. Per cui la semplice coscienza e volontà della omissione o della tardività nei pagamenti, configurano un comportamento penalmente rilevante, senza la necessità di dover provare una specifica volontà fraudolenta. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la confermando la condanna emessa dalla Corte di appello di Roma nei confronti di un imprenditore che per circa un anno non aveva adempiuto agli obblighi di legge.
Per la Corte, infatti, per la sussistenza del reato rilevano soltanto il pagamento della retribuzione e la scadenza dei termini per i versamenti all’
Inps. Non è necessaria dunque alcun altra indagine circa l’esistenza o meno del dolo specifico. Mentre per la prova della condotta illecita è sufficiente la testimonianza dell’ispettore del lavoro il quale abbia verificato telematicamente, e dunque anche senza una visita ispettiva, i ritardi o le omissioni nei versamenti.
Del resto, chiarisce la Suprema corte, il processo penale è caratterizzato dalla non tassatività dei mezzi di prova e dal libero convincimento del giudice, il quale può, dunque, come in questo caso, “trarre elementi di convincimento in ordine alla omissione del versamento anche dalla successiva domanda di sanatoria”. Del resto, anche logicamente, argomentano i giudici, tale istanza segue normalmente la volontà di regolarizzare precedenti mancanze.

Corte di Cassazione, sentenza n. 35344 del 29.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia la condanna per truffa aggravata il dirigente che a fronte della falsa attestazioni della presenza in ufficio da parte di alcuni dipendenti, non solo non si adoperi per sanzionarli ma addirittura ostenti nei loro confronti un atteggiamento di favore tale da incoraggiarne la condotta fraudolenta. Scoraggiandone nello stesso tempo la denuncia da parte dei colleghi, per paura di mettersi contro il capo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione rigettando il ricorso del direttore delle relazioni esterne del comune di Milano, già condannato dalla Corte di appello meneghina.

Nel ricorso alla Suprema corte il dirigente si era difeso sostenendo che la presenza del meccanismo del tesserino magnetico per entrare a lavoro lo rassicurava circa la corretta attestazione delle presenze dei dipendenti. E che comunque un simile controllo non rientrava nelle sue mansioni, spettando semmai al capo del personale.
Di altro avviso la Cassazione, secondo cui la responsabilità del dirigente non dipendeva da un comportamento omissivo ma piuttosto, come chiarito dalla sentenza di Appello, in un comportamento sostanzialmente commissivo dato dalla esibizione di un rapporto preferenziale con i dipendenti che li aveva messi in una «posizione privilegiata» che li rendeva «capaci di ottenere il silenzio di tutti gli altri dipendenti pena delazioni del capo».
Scrive infatti la Cassazione: «Concorre nel reato con condotta commissiva – anziché mediante omissione ai sensi dell’art. 40, 2 comma c.p. – il dirigente di un ufficio pubblico che non soltanto non impedisce che alcuni dipendenti pongano in essere reiterate violazioni nell’osservanza dell’orario di lavoro, aggirando in modo fraudolento il sistema computerizzato di controllo delle presenze, ma favorisca intenzionalmente tale comportamento creando segni esteriori di un atteggiamento di personale favore nei confronti dei correi, in modo tale da creare intorno ad essi un’aurea di intangibilità, disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo e così affievolire, in ultima analisi, il cosiddetto ‘controllo socialè».
«Pertanto tale condotta – scrivono i supremi giudici – ha in sé valenza agevolatrice nella commissione del reato, anche solo per il sostegno morale e l’incoraggiamento che i dipendenti infedeli ricevono da una simile situazione di favore senza che occorra quindi accertare, sul piano del rapporto di causalità, se il dirigente dell’ufficio avesse il potere di impedire la consumazione del reato o se avesse a tal fine contemporaneamente assunto iniziative di portata generale (come il controllo computerizzato delle presenze) iniziative comunque rivelatesi inefficaci».

Corte di Cassazione, sentenza n. 34735 del 26.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se l’intercettazione è autorizzata, è possibile usare, nello stesso procedimento e per lo stesso imputato, anche le notizie che riguardano un reato diverso da quello per cui si procede e per il quale l’ “ascolto” non è invece previsto.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19095 del 19.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se l’agente immobilare nasconde che l’immobile è pignorato rischia una condanna per truffa e anche di dover risarcire la parte lesa. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, ha confermato la condanna inflitta dalla Corte di appello di Bari ad una agenzia locale per aver fatto sottoscrivere un contratto preliminare di acquisto di un fondo rustico – con relativo anticipo e pagamento della commissione – senza però aver informato l’acquirente che sull’immobile gravava una ipoteca giudiziale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18853 del 15.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il coniuge pubblicamente tradito dal partner può chiedere il risarcimento del danno subito anche se in sede di separazione non è stato deciso nulla sull’addebito. Lo ha affermato la prima sezione civile della Cassazione secondo la quale i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 del Cc, senza che la mancanza di di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 34070 del 14.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se il cane attraversa la strada e fa cadere il motociclista il padrone risponde del reato di lesioni colpose.
La Suprema Corte ha confermato la condanna inflitta dal giudice di pace a un signore di Lanciano proprietario di due cani che, approfittando del momento in cui veniva aperto il cancello erano usciti dalla villa tagliando la strada a un motociclista. La fuga era costata al centauro una caduta con lesioni guaribili in 21 giorni, mentre uno dei due cani era morto.
Per la Corte vi è l’obbligo di controllare il cane in ogni momento a prescindere dalla sua “aggressività già acclarata”. Chiaro l’avvertimento dei giudici che invitano a considerare il cane comunque un pericolo in particolari situazioni, come nel caso concreto, in cui gli animali avevano invaso uno spazio riservato alla circolazione stradale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 33734 del 12.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che devono essere condannati per omicidio colposo gli ex direttori della Michelin a seguito della morte di un operaio dovuta all’esposizione all’amianto.
La Corte ribadisce la responsabilità dei vertici “per aver cagionato la morte del lavoratore avendo omesso di sottoporlo ad adeguato controllo sanitario mirato sul rischio specifico dell’amianto, di informarsi e di informare il lavoratore sui rischi derivanti dall’esposizione all’amianto e sulle misure da adottare per ovviarvi, di disporre o di sollecitare i vertici della Michelin ad adottare le misure necessarie a contenere i rischi di tale esposizione, di curare o sollecitare la fornitura e l’effettivo impiego di mezzi personali di protezione”. Una responsabilità già affermata dal Tribunale di Cuneo che aveva fissato in 111, 400 euro il risarcimento dovuto a ciascun familiare della vittima che si era costituito parte civile.

Corte di Cassazione, sentenza n. 33485del 09.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il possesso di un computer fornito dall’organizzazione criminale, dotato di programmi in grado di dialogare in modo criptato con gli altri aderenti, è una prova sufficiente per condannare il possessore per concorso esterno in banda armata, anche se poi il Pc non viene utilizzato e i compiti affidati non sono adempiuti. Basta, infatti, che gli altri partecipanti all’organizzazione abbiano potuto confidare sulla disponibilità del soggetto per contribuire “al rafforzamento della compagine in vista dei suoi scopi”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 33485/2011, bocciando l’appello di un soggetto accusato di aver partecipato dal 1996 al 2001 ai “nuclei comunisti combattenti”, poi divenuti “brigate rosse per la costruzione del partito comunista combattente”.Secondo la difesa infatti l’imputato, che peraltro era stato già condannato e aveva scontato alcuni anni di carcere per lo stesso reato, andava assolto per la sua totale incapacità di operare sul computer e comunque per non averlo mai utilizzato.
Per la Corte però il coinvolgimento dell’imputato nel gruppo eversivo “è indiscutibilmente dimostrato dalla disponibilità da parte sua del computer fornito dall’organizzazione, fornitura accompagnata ancor più significativamente dalla dotazione degli specifici programmi di criptazione e decriptazione usati dagli altri componenti del sodalizio”, fra i quali si annoverano noti brigatisti come alcuni partecipanti all’omicidio D’Antona.
Per la Suprema Corte, infatti, il possesso del medesimo software per criptare le comunicazioni di cui disponevano Morandi, Saraceni, Mezasalma e Cinzia Banelli è un elemento “di sicura dirimenza rispetto alla posizione dell’imputato ed alla sua responsabilità penale”.Infatti, “essere messo in condizione di dialogare con i vertici del gruppo, a prescindere dalla capacità tecnica di valersene proficuamente, integra prova di condivisione e di consapevole adesione al programma associativo”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 33136 del 06.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia la condanna per omicidio colposo il chirurgo che interviene senza una reale necessità mosso soltanto da una logica di guadagno. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto analizza il caso di un cardiochirurgo accusato di aver operato avendo come obiettivo principale, non la salute del paziente, ma il superamento dei 600 interventi annui, numero oltre il quale scattava un “premio” aggiuntivo di 500 euro a operazione.
L’avvio dell’indagine – L’indagine sul conto del primario era stata avviata dopo le dichiarazioni fatte da un sacerdote al pubblico ministero.
Al religioso era stata applicata una protesi meccanica in sostituzione della valvola aortica con un intervento invasivo giudicato, in seguito, non necessario da numerosi specialisti, soprattutto in considerazione delle pesanti conseguenze sulla qualità della vita. Tanto era bastato agli inquirenti per cercare nel “curriculum” del cardiochirurgo altri casi analoghi e trovarne almeno otto che avevano indotto il Pm a contestare al medico il reato di lesioni gravissime e, in un caso in cui il paziente era morto, l’ omicidio colposo.
Il cottimo chirurgico – Ad accomunare gli interventi analizzati sarebbe stata l’esigenza di incassare le somme del “cottimo cardochirurgico”, pattuito verbalmente dal professionista con gli amministratori della clinica con la quale aveva un rapporto di lavoro dipendente. L’esistenza di un accordo tra il chirurgo e la casa di cura era stata rivelata dal responsabile delle risorse umane dell’Istituto, ritenuto dai giudici di merito un teste qualificato proprio in virtù del suo ruolo.
L’integrazione “incriminata” avrebbe fatto lievitare lo stipendio annuo da 325 mila euro fino a 625 mila euro in base agli interventi eseguiti.
Decisa la difesa del cardiochirurgo che afferma la sua buonafede e nega la possibilità di giocarsi carriera e credibilità per 4 mila euro, a tanto ammonterebbe, infatti, il compenso per gli otto casi “sospetti”.
Il fine della salute – La Corte di cassazione dal canto suo accoglie il ricorso del Pm contro la sentenza della Corte d’Appello giudicata troppo morbida. I giudici di secondo grado avevano, infatti, dichiarato prescritti i reati di lesioni gravi e gravissime e derubricato il reato di omicidio da preterintenzionale a colposo. Gli ermellini rinviano la causa a una nuova sezione dell’Appello invitando il collegio a decidere nuovamente sul caso tenendo presente il principio di diritto in base al quale, deve essere considerato penalmente responsabile il chirurgo sia quando opera contro la volontà del paziente sia quando persegue un fine diverso dalla salute “il vero bene da preservare, la cui tutela, per il relativo risalto costituzionale, fornisce copertura costituzionale all’azione del medico”. E’ invece “innocente” il chirurgo che con il suo intervento provoca al paziente le lesioni che l’operazione “naturalisticamente” comporta.

Corte di Cassazione, sentenza n. 33264 del 07.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se c’è un decreto di latitanza è inutile una duplicazione di quello già emesso, per il lo stesso fatto.
La Corte spiega, infatti, che il “concetto di diverso procedimento va collegato al dato della alterità o non uguaglianza del procedimanto in quanto instaurato in relazione a una notizia criminis che derivi da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso procedimento”. Un’ipotesi diversa da quella analizzata dal Collegio, in cui la misura cautelare si era resa necessaria per lo stesso fatto storico ed era, anzi, in relazione allo stesso reato. A fronte di ricerche già effettuate e appurata l'”abitudine” del ricercato di usare nomi di copertura e documenti falsi il Gip aveva ritenuto sufficienti le informazioni già raccolte e deciso per l’inutilità di un secondo decreto. Procedura corretta perché, come spiega la Cassazione : “La situazione di latitanza può essere apprezzata dal giudice sulla base non solo del verbale di vane ricerche, ma anche di qualsiesi altra informazione da cui si possa evincere che l’indagato si sottrae alla cattura”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32980 del 01.09.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che vi è il reato di estorsione con l’aggravante del metodo mafioso per chi “invita” il concorrente a desistere dall’aprire il suo locale incendiandogli il portone d’ingresso.
La Cassazione con la sentenza in oggetto conferma la legittimità dell’aggravante a carico dei due ricorrenti che negavano di essere consapevoli di aver usato un metodo mafioso incendiando l’ingresso di un esercizio commerciale che avrebbe dovuto aprire i battenti proprio davanti al loro. Al fuoco i due avevano unito anche il “consiglio” che non si poteva rifiutare, di evitare problemi scegliendo un’altra collocazione per avviare l’attività.
I due ricorrenti erano rimasti “ignari” della natura del metodo usato anche quando le loro vittime avevano desistito da un’impresa in cui avevano investito del denaro, perché ormai considerata fonte di guai.
Non ha invece dubbi nel bollare il metodo come mafioso la Cassazione. Gli ermellini spiegano, infatti, che l’atteggiamento da “padrino” si rivela “nel danneggiamento e nella distruzione di beni di apprezzabile valore, nel modus operandi caratterizzato da attentati incendiari volti, per un verso, a provocare allarme sociale ed evidenza pubblica dell’azione delittuosa e, per altro verso, a rafforzare il messaggio omertoso a chi doveva intenderlo”
Alla conferma della condanna la Corte ha unito l’obbligo per i ricorrenti di pagare le spese sostenute in giudizio dalle parti civili: il comune e L’associazione Antiracket di Marsala.

Corte di Cassazione, sentenza n. 17496 del 29.08.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che scatta la sanzione per illecita prescrizione di farmaci per il medico che li prescrive ad atleti perfettamente sani anche se non per fargli vincere una gara ma al solo fine di far loro recuperare il tono fisico ed assicurargli, così, le condizioni per riavere il posto in squadra.
Con tale principio la Corte ha confermato il verdetto di quattro mesi di sospensione dall’attività professionale per un camice bianco di Rimini. L’interdizione temporanea era stata decisa, nel 2005, dalla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie.
Senza successo il dottore ha sostenuto che “il recupero del tono atletico era obiettivo in linea con la tutela della salute psicofisica dello sportivo e che una delle funzioni della medicina dello sport è il miglioramento delle performances dell’atleta”. Ad avviso dei supremi giudici, che hanno concordato con quanto stabilito dalla ‘giustizia di Ippocrate’, il mancato collegamento della terapia prescritta con un evento di tipo agonistico, fa’ venir meno “l’addebito relativo al doping”, ma non la violazione delle norme deontologiche che non consentono “l’esclusiva finalizzazione della terapia prescritta al recupero di un posto in squadra”. Inutile anche il tentativo del dottore di lamentare la lesione del diritto alla difesa, protestando per non aver potuto mostrare delle diapositive alla Commissione medica centrale. La Suprema Corte ha ritenuto l’obiezione “senza pregio” in quanto l’incolpato non aveva dato “tempestiva comunicazione”, alla segreteria della Commissione, di “volersi avvalere di tale mezzo istruttorio”. In ogni caso, ha rilevato la Corte, “la proiezione non era necessaria, posto che aveva ad oggetto le origini e la fisiopatologia della fatica cronica, patologia la cui diagnosi il medico non aveva mai esplicitato al paziente, ma che aveva formulato solo ‘a posteriori’, al fine di giustificare il proprio comportamento, chiaramente diretto, invece, a migliorare le prestazioni atletiche di un soggetto sano”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32899 del 26.08.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che integra il reato di bancarotta per aggravamento del dissesto il comportamento dell’imprenditore che “pervicacemente” continua a finanziare con mezzi propri la società in perdita fin dal primo anno di attività senza valutare le reali prospettive dell’impresa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza in oggetto con la quale ha respinto il ricorso di due soci condannati dalla Corte di Appello di Milano. I giudici chiariscono che “per dissesto deve intendersi, non tanto una condizione di
generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori”. Così, la Cassazione ha fatto propria la motivazione dei giudici di merito i quali hanno “evidenziato come fin dall’inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell’attività imprenditoriale dei due imputati, con l’accumulo di perdite che avevano eroso l’intero capitale sociale”. Non solo ma “lo squilibrio era progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell’attività”. Del resto anche la stessa immissioni di capitali da parte dei soci essendo avvenuta “sotto forma di finanziamento e non di aumento di capitale, aveva ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32907 del 26.08.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che apostrofare le forze di Polizia dicendo che non sono capaci di fare il proprio mestiere non integra il reato di ingiurie aggravate ex articolo 61 n. 10 del codice penale. Almeno, non nel caso in cui il giudizio venga rivolto in un contesto ben determinato e dunque con riguardo al concreto operato degli agenti senza voler offendere il loro “patrimonio morale”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza in esame respingendo il ricorso di due agenti di Polizia che, chiamati a sedare una lite famigliare, non furono in grado di far rientrare nella propria abitazione il convivente chiuso fuori dalla porta dalla compagna.

Corte di Cassazione, sentenza n. 30205 del 28.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preisato che se il contributo del pentito è efficace alla lotta contro Cosa nostra il collaboratore merita uno sconto pieno della pena anche se è stato un boss.
Ininfluente la gravità dei reati commessi, dicono no alla riduzione del “premio” a causa dei reati particolarmente gravi di cui si è macchiato l’ex mafioso che decide di aiutare lo Stato.
La Suprema corte accoglie così il ricorso di un reggente di cosa nostra contro la decisione della Corte d’Appello di Palermo di diminuirgli la pena di un terzo, anziché della metà come previsto dall’ipotesi più favorevole. A far stringere i cordoni del beneficio erano stati i crimini, particolarmente efferati, di cui si era macchiato il collaboratore. Una valutazione – spiega il Supremo collegio – non consentita dall’articolo 8 della legge 203/1991 sull’attenuante speciale per dissociazione.
Il solo presupposto dell’utilità delle informazioni- La norma – concludono i giudici di piazza Cavour- si fonda esclusivamente sul presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione del mafioso “e non può pertanto essere disconosciuta, o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità di delinquere dell’imputato o, ancora, alle ragioni che hanno determinato l’imputato alla collaborazione”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 30091 del 28.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’amministratore formale di una società, la cosiddetta “testa di legno”, può essere ritenuto responsabile del reato di bancarotta fraudolenta documentale “solo ove si ritenesse non solo che egli era consapevole della sottrazione, bensì anche che avesse contezza dello scopo che l’autore materiale del reato (l’amministratore di fatto) si prefiggeva con la sua condotta”.
Con questa motivazione la Corte di cassazione con la sentenza in oggetto, ha cassato la decisione della Corte di Appello di Potenza – e rinviato per una nuova decisione alla Corte territoriale di Catanzaro – in quanto la motivazione della sentenza di condanna era carente “soprattutto, in ordine all’elemento soggettivo dell’odierno ricorrente in relazione alla sottrazione delle scritture contabili”. Insomma, secondo gli ermellini “il profilo soggettivo” della responsabilità “va accertato caso per caso […] accertando se l’amministratore di diritto era consapevole delle altrui pratiche sottrattive e delle finalità ulteriori perseguite con tali condotte, ovvero semplicemente aveva accettato il rischio – omettendo ogni controllo – che l’amministratore di fatto sottrasse i libri contabili”. Dolo eventuale dunque e non dolo specifico.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29957 del 28.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde per lesioni colpose il padrone del cane che scappando dal cancello aggredisce i passanti. Anche se la serratura è stata divelta dal vento.
La Corte di Cassazione respinge, infatti, la tesi dell’imprevedibilità dell’evento e sottolineano che per escludere la colpa di chi ha in custodia il cane non è sufficiente che l’animale sia tenuto in un luogo recintato e chiuso, ma è necessario anche verificare che recinzioni e ingressi siano idonei a evitare un eventuale contatto tra il cane e i terzi, dovuto sia a un accesso di questi nella proprietà privata sia ad altre ragioni. Tra queste va compresa la fuga in questione, che non può essere addebitata a “un evento eccezionale” come vorrebbe la difesa, ma va individuata in un evidente difetto della serratura che, se adeguata allo scopo, non avrebbe dovuto cedere al vento per quanto forte.
La prova dell’evento imprevedibile – Spetta all’incolpato fornire la prova del “caso fortuito” dimostrando il verificarsi di un fatto assolutamente “improvviso, imprevedibile” e dunque inevitabile pur facendo uso di tutta la diligenza. Se non bastasse la teoria, la Cassazione scende nella pratica e fornisce l’esempio più comune di colpa: il luogo privato in cui la recinzione ha un varco o un’altezza che la rendono superabile.

Corte di Cassazione, sentenza n. 16543 del 28.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il diritto al consenso informato da parte del paziente non può essere compresso in alcun modo. E, dunque, fuori dei casi di estrema urgenza che ne mettano a repentaglio la vita, il chirurgo non ha mai la facoltà di fare un intervento aggiuntivo – anche se <> e <> – se non ha prima incassato il consenso della persona. Per la Suprema Corte, però <>.
Non solo ma <Se poi, come nel caso in questione, a seguito dell’atto <>, siano <>, allora <>.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29666 del 25.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che le “soffiate” dei confidenti della polizia non possono essere considerate un indizio di reato. Per questa ragione il Gip non può considerarle un valido presupposto per dare il via libera a intercettazioni telefoniche dell’indagato, che sarebbero comunque inutilizzabili. Con la sentenza n.29666. Il Supremo collegio chiarisce il ruolo degli informatori e delle relative “riservate acquisizioni investigative”.
Le notizie raccolte al di fuori di un interrogatorio – Gli ermellini escludono la possibilità di usare, anche in fase di indagini preliminari, tutte le notizie che provengono da fonti anonime o ignote, o meglio note solo agli agenti che normalmente ricorrono all’”aiutino” dei loro confidenti. Perché le acquisizioni riservate abbiano un valore indiziario è necessario, infatti, che gli informatori siano formalmente interrogati o “assunti a sommarie informazioni”.
L’inutilizzabilità delle intercettazioni – I giudici della Corte, in virtù di una lettura garantista del codice di rito, hanno così annullato la custodia in carcere imposta al ricorrente in seguito all’esito delle intercettazioni telefoniche disposte dal Gip dopo che la Dia aveva, con una nota, ritenuto sussistenti i gravi indizi sulla base delle “acquisizioni investigative riservate”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 16230 del 25.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’azione contro il costruttore inadempiente, perché non ha realizzato il giardino condominiale ma anzi vi ha costruito un magazzino per sé, può essere esercitata direttamente dall’amministratore. Non c’è dunque bisogno di un esplicito mandato da parte dell’assemblea, in quanto l’azione rientra fra gli <> delle parti comuni.
Per la Suprema corte, infatti, la costruzione di un magazzino, comportando la perdita per i condomini dell’uso di un’area condominiale, va tutelata attraverso l’esercizio di una attività <>, che il codice civile fra rientrare tra gli obblighi dell’amministratore. Una azione, dunque, <> e non di <> di diritti di proprietà, per esercitare la quale <>.
La Cassazione dunque ha espresso il seguente principio di diritto: <>.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29161 del 21.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il concorso in bancarotta fraudolenta documentale per gli amministratori di una Srl i cui libri contabili sono tenuti in modo tale da mettere a dura prova la capacità del curatore di capire la situazione dell’impresa. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto non ha dubbi nel confermare la condanna per il più grave reato di bancarotta fraudolenta, anziché semplice, per due membri del consiglio di amministrazione colpevoli di aver consegnato al curatore fallimentare documenti da cui era impossibile desumere gli andamenti economici dell’azienda senza ricorrere a “fonti informative extracontabili”. Inutile la difesa dei diretti interessati che hanno tentato di addossare la colpa delle mancate o inesatte annotazioni sia alle carenze di un commercialista poco accorto sia alla “sudditanza” nei confronti di un padre che, benché impossibilitato a rivestire cariche sociali per un precedente fallimento, era il vero dominus della situazione.
Le responsabilità individuale – Paraventi che si rivelano inefficaci. La Cassazione sottolinea, infatti, che l’eventuale imperizia del tecnico non giustifica l’inosservanza dell’obbligo di vigilare sull’attività svolta dal delegato. Allo stesso modo la concorrente responsabilità del genitore non escluderebbe quella degli imputati che esercitavano il ruolo di amministratori di diritto.
Il dolo generico – Non passa neppure il tentativo della difesa di negare la sussistenza di un altro elemento costitutivo del reato: il dolo insito nella consapevolezza di rendere ardua la ricostruzione del patrimonio.
La parziale “trasparenza” – Secondo la suprema Corte la volontà di nascondere la situazione è provata da gravi omissioni, tra cui la mancata registrazione di passaggi di denaro sui conti correnti accesi presso le banche, anche per cifre ragguardevoli. “Sviste” difficili da giustificare con la buona fede. Per finire, i ricorrenti negano che la carenza di annotazioni fosse tale da rendere completamente illeggibile una situazione che poteva essere compresa seppure con qualche “difficoltà”, come riconosciuto dallo stesso curatore nella sua relazione. I giudici del “Palazzaccio” chiariscono in proposito che per far scattare il reato non è necessario che i documenti siano completamente “oscuri” ma è sufficiente che gli ostacoli siano tali da essere superabili solo “con l’uso di particolare diligenza”. Nel caso specifico era stato necessario il ricorso a estratti bancari e indagini presso i clienti dell’impresa per avere, in modo comunque incompleto e preciso, un quadro sul reale andamento degli affari sociali. La Cassazione conferma dunque la condanna, compreso il divieto di intraprendere per 10 anni attività commerciali o rivestire cariche sociali.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29161 del 21.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il concorso in bancarotta fraudolenta documentale per gli amministratori di una Srl i cui libri contabili sono tenuti in modo tale da mettere a dura prova la capacità del curatore di capire la situazione dell’impresa. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto non ha dubbi nel confermare la condanna per il più grave reato di bancarotta fraudolenta, anziché semplice, per due membri del consiglio di amministrazione colpevoli di aver consegnato al curatore fallimentare documenti da cui era impossibile desumere gli andamenti economici dell’azienda senza ricorrere a “fonti informative extracontabili”. Inutile la difesa dei diretti interessati che hanno tentato di addossare la colpa delle mancate o inesatte annotazioni sia alle carenze di un commercialista poco accorto sia alla “sudditanza” nei confronti di un padre che, benché impossibilitato a rivestire cariche sociali per un precedente fallimento, era il vero dominus della situazione.
Le responsabilità individuale – Paraventi che si rivelano inefficaci. La Cassazione sottolinea, infatti, che l’eventuale imperizia del tecnico non giustifica l’inosservanza dell’obbligo di vigilare sull’attività svolta dal delegato. Allo stesso modo la concorrente responsabilità del genitore non escluderebbe quella degli imputati che esercitavano il ruolo di amministratori di diritto.
Il dolo generico – Non passa neppure il tentativo della difesa di negare la sussistenza di un altro elemento costitutivo del reato: il dolo insito nella consapevolezza di rendere ardua la ricostruzione del patrimonio.
La parziale “trasparenza” – Secondo la suprema Corte la volontà di nascondere la situazione è provata da gravi omissioni, tra cui la mancata registrazione di passaggi di denaro sui conti co
rrenti accesi presso le banche, anche per cifre ragguardevoli. “Sviste” difficili da giustificare con la buona fede. Per finire, i ricorrenti negano che la carenza di annotazioni fosse tale da rendere completamente illeggibile una situazione che poteva essere compresa seppure con qualche “difficoltà”, come riconosciuto dallo stesso curatore nella sua relazione. I giudici del “Palazzaccio” chiariscono in proposito che per far scattare il reato non è necessario che i documenti siano completamente “oscuri” ma è sufficiente che gli ostacoli siano tali da essere superabili solo “con l’uso di particolare diligenza”. Nel caso specifico era stato necessario il ricorso a estratti bancari e indagini presso i clienti dell’impresa per avere, in modo comunque incompleto e preciso, un quadro sul reale andamento degli affari sociali. La Cassazione conferma dunque la condanna, compreso il divieto di intraprendere per 10 anni attività commerciali o rivestire cariche sociali

Corte di Cassazione, sentenza n. 28439 del 18.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia la sospensione dalla professione il notaio che “mente” sulla reale composizione di un immobile. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto esclude per i notai la possibilità di trincerarsi dietro la buona fede nel caso di un atto di compravendita che attesti l’esistenza di caratteristiche di un bene inesistenti o faccia passare come già esistenti eventuali opere abusive. A far le spese del giro di vite, imposto dagli ermellini, un notaio campano che in un rogito aveva messo nero su bianco l’esistenza di un ammezzato che era in realtà non c’era. Una “bugia” che gli era costata l’accusa di falso ideologico in atto pubblico e la conseguente richiesta di una misura interdittiva per impedirgli di continuare a svolgere la sua professione. Punizione giudicata però immeritata sia dal Gip come dal Tribunale del riesame di Napoli per i quali il rogito non può essere considerato un atto in grado di certificare la reale consistenza dell’immobile, non avendo la funzione di attestare la verità delle dichiarazioni dei contraenti. La pensano diversamente i giudici di piazza Cavour che spiegano come facilmente il professionista avrebbe potuto evitare un “errore” di cui era evidentemente consapevole. Il piano ammezzato non risultava, infatti, né dal contratto preliminare né dai documenti catastali. Il notaio non poteva dunque non sapere che stava avallando una falsa dichiarazione degli acquirenti. Azione di cui è penalmente responsabile

Corte di Cassazione, sentenza n. 27648 del 14.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che anche il minore con precedenti penali può ottenere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. A patto che ricorrano tre condizioni: la modesta entità della condotta, nessun allarme sociale e l’occasionalità del comportamento.
Con tale principio la Corte ha annullato con rinvio la condanna inflitta a un cittadino americano dalla Corte d’Appello di Ancona, sezione per i minorenni, per furto aggravato e spaccio di sostanze stupefacenti (nove mesi di reclusione e 2200 euro di multa). In particolare il ragazzo che, all’epoca dei fatti non aveva ancora compito 18 anni, aveva rubato da una macchinetta distributrice delle cialde di caffè e aveva ceduto dell’hashish a due ragazzi ospitati nella stessa comunità.
Contro la doppia condanna di merito la difesa ha presentato ricorso in Cassazione e lo ha vinto.
Secondo la sesta sezione penale, infatti, anche chi ha precedenti penali può ottenere la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Tre le condizioni richieste dalla Corte “la tenuità del fatto, l’occasionalità del comportamento e il pregiudizio per il minore derivante da un ulteriore corso del procedimento”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 28081 del 15.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il cliente che denunci all’ordine degli avvocati la condotta del proprio legale non è imputabile di diffamazione quando si limiti a esprimere giudizi che rientrano nel diritto di critica. Per la Corte “non integra il delitto di diffamazione la segnalazione al competente consiglio dell’ordine di comportamenti, deontologicamente scorretti, tenuti da un libero professionista nei rapporti con il cliente denunciante, sempre che gli episodi segnalati siano corrispondenti al vero; questo perché il cliente per mezzo della segnalazione esercita una legittima tutela dei suoi interessi”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 40457 del 14.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è furto aggravato dall’utilizzo del mezzo fraudolento, il comportamento di colui che occultando all’interno di un bene regolarmente pagato altra merce, la rubi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza confermando la condanna della Corte di Appello di Torino.
Il caso era quello di un furto avvenuto presso l’Ikea di Grugliasco. L’imputato aveva occultato all’interno di una scarpiera, regolarmente pagata, due tende, una lampada e quattro faretti. Secondo la Cassazione “la condotta consistita nell’occultamento (sulla propria persona o su accessori o borse) della merce che l’agente abbia prelevato dai banchi di un esercizio commerciale che opera con il sistema del prelievo self service, integra gli estremi del furto aggravato dall’suo del mezzo fraudolento”. Infatti, la circostanza aggravante “ricorre ogni qual volta l’agente tenga comportamenti improntati ad astuzia o scaltrezza, tali da eludere le cautele e gli accorgimenti predisposti dalla persona offesa a tutela delle proprie cose”.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10019 dell’11.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha stabilito che nel caso in cui un imputato abbia ottenuto l’estinzione della pena per indulto, questo non possa per chiedere la sospensione condizionale della pena. Per la Corte è la dichiarazione di estinzione della pena per indulto risulta essere provvedimento più deplorevole all’imputato rispetto all’applicazione di una sanzione sostitutiva, la quale, seppure afflittiva in minore grado rispetto alla detenzione, costituisce purtuttavia una pena da espiare.

Corte di Cassazione, sentenza n. 11560 del 25.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che ha condannato per stupro un minore che filma con il cellulare una violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazzina. La Corte di Cassazione attribuisce la stessa responsabilità addossata al resto del branco, per un minorenne che si era “limitato” a riprendere con il telefonino i suoi amici che violentavano una minorenne. Gli ermellini spiegano che “deve ritenersi acclarata la sua partecipazione attiva e consapevole non realizzatasi attraverso atti tipici di violenza sessuale ma, comunque, in rapporto causale con quello che i condannati stavano facendo. Secondo il Supremo collegio il ragazzo ha dato un contributo attivo al comportamento del branco rafforzando, attraverso il suo comportamento, la forza intimidatoria del gruppo sulla vittima. Anche in considerazione della tendenza a minimizzare il gesto e in assenza di un reale ravvedimento i giudici confermano la necessità di un ricovero in Comunità

Corte di Cassazione, sentenza n.10981 del 22.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non integra il reato di pedopornografia scattare foto a diversi bambini ritratti di spalle con inquadrature mirate sui loro sederini. Ad avviso della Suprema Corte le norme europee – in particolare la decisione quadro 68 del 2004 che definisce la nozione di pedopornografia – non consentono l’incriminazione, e men che mai l’arresto, di chi si limita a ritrarre dei minori, anche se solo posteriormente, senza che i piccoli siano coinvolti in una condotta sessualmente esplicita.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10688 del 18.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la macchina in leasing, aziendale e non, può essere sequestrata per guida in stato di ebbrezza anche se chi è al volante al momento dell’infrazione, di fatto, non è il proprietario.

Corte di Cassazione, sentenza n.10248 del 15.03.2010

La Corte di cassazione con la sentenza in esame ha precisato che dare del gay a qualcuno, con l’intenzione di denigrarlo, è reato. La Corte ha definito come ingiuria il contenuto di una lettera, con cui un 71enne offendeva il destinatario ricordando il suo “essere gay”. Una preferenza sessuale, si faceva notare nella missiva, che era chiaramente emersa durante una vacanza in montagna trascorsa dall’interlocutore con un marinaio. Nello scritto si faceva riferimento anche a un allontanamento subito dal destinatario da un club sportivo frequentato da ragazzini. Ma non basta. Uscendo dalla sfera delle preferenze sessuali l’imputato accusava l’uomo anche di aver sottratto dei documenti dai pubblici uffici e di aver favorito in un concorso la nipote dell’imputato stesso. Tanto era bastato per far scattare una condanna per ingiurie nei primi due gradi di giudizio. Scelta confermata dalla Suprema corte che ha sottolineato come l’uso del termine gay – che in genere non ha una connotazione offensiva – l’aveva acquistata nel caso specifico per il suo collegamento con due precisi episodi, da cui si evinceva il chiaro intento denigratorio e l’intenzione di adombrare un’accusa di pedofilia. Paradossalmente ha giocato contro l’imputato anche il suo dichiarare di essere “laico e apertissimo” e di “non giudicare i costumi sessuali di nessuno”: una “excusatio non petita” che il Pm aveva invece interpretato come la chiara dimostrazione della “riprovazione dell’imputato per le tendenze sessuali del contraddittore”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10022 del 11.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è legittimo lo sconto di pena previsto dalla legge in favore dei pusher ‘dilettanti’, anche se chi ha comprato la sostanza stupefacente oi morto in seguito alla sua assunzione. Con tale principio la Corte, ha accolto il ricorso di moglie e marito, due piccoli spacciatori, che avevano ceduto eroina a un ragazzo morto poco dopo la sua assunzione. La coppia ha impugnato di fronte alla Suprema corte la decisione della Corte d’Appello di Roma che aveva negato loro l’attenuante nonostante, si legge nel ri
corso, “dalle intercettazioni telefoniche era desumibile un’attività di spaccio rudimentale, domestica e solo con quattro clienti”. La Cassazione, ha motivato la decisione affermando espressamente che “in tema di spaccio di sostanze stupefacenti, la fattispecie per cui, in seguito all’assunzione di droga, via sia stata la morte dell’acquirente, non di per sé causa di esclusione dell’attenuante generica di cui all’articolo 73 del D.p.r. 309/90 per lo spacciatore”.

Corte di Cassazione, sentenza n.10175 del 12.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se ci sono condanne pesanti, il silenzio dei sacerdoti su confidenze importanti diventa del tutto “fuori luogo”. Nel caso in esame la Corte si è occupato del caso di un uomo (condannato con sentenza definitiva come mandante dell’omicidio di una coppia) il quale ha chiesto la revisione della sentenza sulla base di dichiarazioni rese, dopo nove anni dai fatti, dal cappellano del carcere dove era detenuto. Queste dichiarazioni lo avrebbero scagionato dimostrando la sua estraneità dei fatti. La Cassazione non ha ritenuto “attendibili” le dichiarazioni del sacerdote dato il notevole tempo trascorso tra la data in cui ebbe ad apprendere dei fatti e il momento in cui sono state poi riferite all’autorita’ giudiziaria. Nella parte motiva della sentenza si legge inoltre: “risulta che il sacerdote sin dal 1997 venne in possesso delle confidenze” di un detenuto “e da allora ebbe inizio il travaglio di coscienza del prelato che si concluse poi con l’inserimento della sua testimonianza nella istanza di revisione nel maggio 2006”. Su ciò Corte afferma che “le confidenze non erano state raccolte dal sacerdote nel corso di una confessione, circostanza che avrebbe pienamente giustificato il tormento, ma nel corso di colloqui avvenuti nel carcere ai quali il sacerdote partecipava nella sua qualita’ di cappellano della casa circondariale”.

Corte di Cassazione, sentenza n.10164 del 12.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che giudicare una donna inadatta a un posto di lavoro solo in virtù della sua appartenenza al sesso femminile può costare un condanna per diffamazione. Nel mirino della Corte è finito un brano di un intervista ad un sindacalista il quale affermava , riferendosi alla guida di un carcere, che “sarebbe meglio una gestione al maschile”. Frase sufficiente da sola a far scattare la condanna per diffamazione sia dell’intervistato sia dell’intervistatore e aggravata dal tenore offensivo del titolo che recitava: “Carcere: per dirigerlo serve un uomo”. Secondo la Corte “si tratta di una dichiarazione certamente lesiva della reputazione della direttrice del carcere trattandosi di un riferimento assolutamente gratuito, sganciato dai fatti, e che costituisce una mera valutazione, ripresa a caratteri cubitali nel titolo, nel quale si puntualizza proprio la necessità(sottolineata dal verbo servire) di affidare la direzione del carcere comunque ad un uomo” Per la Cassazione dunque va censurata con la condanna “la critica sganciata da ogni dato gestionale e basata solo su un gratuito apprezzamento, contrario alla dignità della persona perché ancorato al profilo ritenuto decisivo, che deriva dal dato biologico dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 5081 del 02.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non è colpevole del reato di diffamazione il giornalista che relaziona su intercettazioni che poi si rilevano false. Per la Corte, rileverebbe l’involontarietà dell’errore: infatti, il giornalista, scagionando un noto gruppo editoriale del Paese – va esente da responsabilità non in virtù della mera verosimiglianza dei fatti narrati, ma solo a seguito dell’avvenuta dimostrazione dell’involontarietà dell’errore, dell’avvenuto controllo, con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all’urgenza di informare il pubblico, della fonte e dell’attendibilità di essa, onde vincere dubbi e incertezze in ordine alla verità dei fatti narrati.

Corte di Cassazione, sentenza n.9667 del 10.03.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che una persona sottoposta a indagini può essere “spiata” con il sistema di rilevamento satellitare senza che sia necessaria un’autorizzazione preventiva del giudice. Per la Corte è legittimo il pedinamento di indagati tramite i segnali di spostamento trasmessi dai loro cellulari. In particolare secondo la Corte il “pedinamento” Gps, ha una “limitata intrusione nell’altrui sfera privata” e può quindi essere sottratto a una disciplina severa come quella prevista per le intercettazioni. Sempre in virtù della limitata intrusione – conclude la Cassazione – si puòò dire a meno anche del via libera del Pm per l’acquisizione dei tabulati e procedere all’utilizzazione dei tracciati.

Corte di Cassazione, sentenza n. 8996 del 05.03.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che i funzionari che ostentano inerzia al lavoro possono finire sotto processo. Nello specifico la Corte ha chiarito che e’ reato manifestare un “perdurante e patologico rifiuto di esercitare i doveri del proprio status e del proprio ufficio”. E’ stata così convalidata dalla Sesta sezione penale della Corte una condanna ad un anno di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio e per interruzione di pubblico servizio nei confronti di un ufficiale giudiziario che, affermando di essere oberato dal lavoro aveva rifiutato di effettuare notifiche, facendole tal volta con ritardi di mesi o addirittura di anni. La Suprema Corte ha inoltre evidenziato che “il rifiuto di atti di ufficio non sanziona penalmente la generica negligenza o la scarsa sensibilita’ istituzionale del pubblico ufficiale, ma il rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo, per la tutela dei beni pubblici, rispetto ai quali gli sono state conferite proprio quelle funzioni”.

Corte di Cassazione, sentenza n.8286 del 01.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se la prostituta non viene pagata per la sua prestazione sessuale, il cliente può essere condannato per violenza sessuale, ovvero per stupro. Per la Corte la vicenda non può quadrarsi in quella fattispecie particolare nella quale la donna risulta consenziente all’inizio del rapporto sessuale, per poi, manifestare il proprio dissenso a continuarlo, visto che, nel caso in esame, la vittima aveva già manifestato all’imputato di essere solo in attesa del pagamento del dovuto, per l’attività alla stessa prestata, come in origine concordato tra le parti. Insomma, in mancanza di un pagamento in denaro la donna non aveva alcuna intenzione trascorrere momenti di intimità con il cinquantenne. Non sussiste dubbio continua la Corte che l’imputato avesse piena coscienza e consapevolezza del sopruso che stava consumando in danno della donna: il comportamento di costui – si legge nella sentenza – ne costituisce prova, in occasione della richiesta al portiere dell’albergo di distruggere le schede di permanenza nell’hotel dove, evidentemente, era avvenuto l’incontro. Ciò osserva la Suprema Corte, evidenzia il desiderio dell’imputato di non lasciare traccia della permanenza, circostanza spiegabile solo con lo scopo di precostituirsi la possibilità di una futura negazione, che non avrebbe avuto senso se fossero consumati rapporti consensuali e non imposti.

Corte di Cassazione sentenza n. 8537 del 01.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’imprenditore che porta in detrazione gli assegni familiari senza corrisponderli ai propri dipendenti è punibile per truffa e non per semplice evasione contributiva. Per la Corte la fittizia esposizione di somme non corrisposte al lavoratore induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio realizzando in questo modo un ingiusto profitto, tipico del reato di truffa.

Corte
di Cassazione, sentenza n. 4869 del 01.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il provvedimento di proroga del trattenimento pre-espulsivo di un cittadino extracomunitario nei centri di accoglienza può essere disposto solo se viene garantita allo straniero un’effettiva assistenza legale. Per la Corte nelle disposizioni poste dal Dlgs n. 286 del 1998 a regolare il trattenimento pre-espulsivo dello straniero nei centri preposti è prevista la garanzia della difesa e del contraddittorio espressamente “per l’adozione dell’ordinanza di convalida e implicitamente, ma non meno certamente, per l’emissione del provvedimento di proroga del trattenimento stesso”.

Corte di Cassazione, sentenza n.8006 del 01.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la frase “Sei disonesta, ti faccio vedere i sorci verdi” si può essere senza commettere reato. Con la sentenza in esame la Corte ha sdoganato l’espressione “sei disonesta ti faccio vedere i sorci verdi”, censurata invece dal procuratore generale, che aveva fatto ricorso contro l’assoluzione del giudice di pace di Nuoro perché a suo avviso, l’espressione usata conteneva sia un’ingiuria sia una minaccia. La Corte invece considera l’epiteto disonesta, pronunciato nel corso di una lite sorta per motivi di interesse, non lesivo dell’onore e del decoro ma il semplice risultato di una “plausibile animosità di un legittimo sfogo mirato a contrastare le avverse ragioni”. Bocciata anche la lettura minacciosa della frase riferita ai sorci verdi: un’espressione che deriva da un disegno con tre topolini riprodotto sulla fusoliera dei trimotori “Savoia-Marchetti” emblema ai tempi del fascismo delle coraggiose e fortunate imprese e degli aviatori della 205 squadriglia aeronautica famosa per la trasvolata Roma-Rio de Janeiro. La frase era intesa, interpreta la Suprema Corte, a manifestare l’intento di usare tutti i mezzi possibili per affermare il proprio diritto a riavere indietro un appartamento oggetto del contendere.

Corte di Cassazione, sentenza n.7651 del 25.02.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il patto elettorale stretto tra politica e mafia fa scattare il reato di concorso esterno nell’associazione criminale solo se il risultato del sodalizio porta a un consolidamento della cosca.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7092 del 22.02.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il cittadino straniero condannato a sei anni di reclusione inflitta nel suo paese per violenza sessuale non basta a mantenerlo in carcere in Italia in attesa di estradizione. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso di un giovane rumeno che chiedeva di essere rimesso in libertà in vista del rimpatrio per scontare la pena decisa dal tribunale interno per violenza carnale. La Cassazione ha, infatti, scartato l’ipotesi del rischio di fuga, l’unica che potesse giustificare il persistere della custodia cautelare in carcere. I giudici di piazza Cavour, discostandosi dalla scelta della Corte d’Appello di Torino che aveva escluso la scarcerazione, hanno evidenziato che il pericolo di fuga deve essere accertato in base a elementi concreti e specifici e non semplicemente desunto da un possibile desiderio di sottrarsi a una consistente condanna. Il dato decisivo che fa accantonare alla Corte l’ipotesi che il condannato possa decidere per la latitanza, nel radicamento del cittadino rumeno in Italia, Stato in cui svolge un’attività lavorativa e dove ha costituito una famiglia. Elementi sufficienti a far pensare che possa essere rispettato l’obbligo, assunto a livello internazionale, di assicurare la consegna del cittadino rumeno al governo che l’ha richiesta.

Corte di Cassazione, sentenza n. 5876 del 18.02.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che una parola di troppo nei confronti dei figli offende anche i genitori che sono responsabili della loro educazione. Con tale principio la Corte ha convalidato una condanna per lesioni personali e ingiuria nei confronti di un uomo accusato tra le altre cose di aver offeso una ragazza in presenza del padre. L’uomo nel corso del giudizio si era difesa affermando che le offese maggiori erano rivolte alla ragazza che però non lo aveva querelato. La Corte ha respinto le richieste dell’imputato facendo notare che con riferimento alle offese rivolte alla ragazza, ”un ulteriore aspetto di offensivita’ e’ stato fondatamente individuato anche nelle espressioni che, pur attingendo in via diretta la figura della figlia del querelante, tuttavia si sono risolte anche in una lesione della reputazione del padre, chiamato in causa quale genitore della ragazza e quindi persona responsabile della formazione e della educazione della medesima”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 4971 del 08.02.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che in materia di favoreggiamento alla latitanza di persona condannata per associazione a delinquere di stampo mafioso, l’aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, contestata in relazione al reato di favoreggiamento, può essere ritenuta sussistente sempre che si dimostri che il latitante svolga un ruolo apicale nell’associazione mafiosa. Infatti non vi è dubbio che in tal caso l’aver favorito la latitanza di un soggetto che riveste un ruolo apicale lascia desumere che l’agente abbia operato al fine di agevolare l’associazione contribuendo in modo significativo a preservarne i vertici. Al contrario tale aggravante non può ritenersi sussistente ove sia favorita la latitanza di un semplice affiliato per ragioni di amicizia, di parentela o di affinità mancando in tal caso il fine di agevolare l’associazione e la consapevolezza di fornire un contributo al perseguimento dei fini della stessa.

Corte di Cassazione, sentenza n. 6377 del 16.02.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’ex marito non può dire lo 007 e introdursi a casa della moglie, in via di separazione per trafugare, fotocopiare e poi restituire, documenti da produrre nell’udienza per lo scioglimento del matrimonio. La Corte di Cassazione, ha condannato per violazione di domicilio un signore assolto dall’accusa di furto, mossa dalla sua ex consorte, dal Gup di Forl. Il giudice per l’udienza preliminare aveva scelto la via della clemenza, partendo dal presupposto che gli atti fotocopiati, presentati il giorno della causa a sostegno delle richieste per l’accordo patrimoniale, erano stati ritrovati al loro posto. Il james bond in questione poteva dunque essersi limitato a fotografare i documenti senza spostarli, operazione che esclude il furto, oppure poteva averli presi il tempo strettamente necessario per acquisirne una copia, ipotesi che farebbe scattare un furto di “serie b”, messo in atto per il godimento temporaneo della cosa e punibile solo su querela. Di parere diverso sono stati i giudici della Cassazione che, tralasciando la tesi del furto, difficilmente dimostrabile, hanno scelto l’incontestabile reato della violazione di domicilio. Per entrare in possesso delle copie, l’ex marito intraprendente, era di sicuro dovuto entrare in casa e non aveva un titolo per farlo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 5408 del 15.02.2010)

La Corte di Cassazione con la senteza in esame ha precisato che per un disoccupato la vera priorità cercare lavoro e si tratta di una priorità che precende anche l’obbliogo di presentarsi per la firma dalla polizia giudiziaria. Con questa motivazione la Corte ha ridotto da 3 a 1 giorno (e precisamente la domenica) l’obbligo di firma a cui era stato sottoposto un 40enne nei cui confronti era stata decretata la misura dell’obbligo di presentazione trisettimanale alla polizia giudiziaria. L’uomo, essendo disoccupato, si era rivolto alla Cassazione chiedendo di essere esentato dall’obbligo di firma nei giorni feriali per potersi imp
egnare nella ricerca del lavoro. La sesta sezione penale della Corte ha accolto la sua richiesta disponendo che solo la domenica dovrà rirmare mentre negli altri giorni sarà libero di dedicarsi alla ricerca di un lavoro.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n.17967 del 11.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il solo superamento dei limiti di esposizione delle onde elettromagnetiche non è sufficiente a provare il reato di inquinamento. In particolare la Corte ha specificato che perché scatti la contestazione del reato è necessario provare l’idoneità nelle onde di “offendere o molestare le persone”. In base a questo principio la Corte ha annullato il sequestro preventivo di un impianto di telefonia mobile in seguito a una rilevazione del Cria che aveva evidenziato il superamento dei limiti fissati dalla normativa in tema di ambiente. Nella relazione tecnica era stata inoltre aggiunta la notizia del peggioramento delle condizioni di salute di due condomini. Il collegio di piazza Cavour, nell’annullare il sequestro, specifica che il reato contestato all’ente gestore non è configurabile astrattamente in base al semplice superamento dei valori soglia, ma deve essere supportato dalla prova della pericolosità per l’uomo delle emissioni. Nel caso specifico – sottolinea la Corte – la perizia accolta dal tribunale di merito era stata fatta al di fuori del contraddittorio e smentita da successive verifiche, anche in sede civile. Gli ermellini bollano dunque come non corretto l’operato del tribunale del riesame di Napoli per aver accolto la tesi dei condomini senza dare alcun rilievo alle posizioni della società ricorrente.

Corte di Cassazione, sentenza n. 17574 del 07.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che preside e professori sono responsabili degli incidenti di cui sono vittime i loro alunni mentre escono da scuola, anche se avvengono fuori dai confini dell’istituto.

Corte di Cassazione, sentenza n.17672 del 07.05.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha stabilito che dare del pazzo al proprio datore di lavoro, non integra il reato di diffamazione. Il caso ha riguardato un avvocato, collaboratore di uno studio legale che, nel commentare una nota inviata dall’ufficio contabilità alle segreterie e, essendo in forte disappunto con la stessa, diceva ai colleghi: basta, ho deciso, io con l’avvocato non ci parlo.E’ un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo, bene ci resti pure. La Corte ha sottolineato la valenza diffamatoria del termine
leccaculo precisando che tale colorita espressione non era rivolta al capo ma ai propri colleghi di studio sempre pronti a qualsivoglia direttiva del capo dello studio. E che per questo, l’avvocato non può essere punito, non avendo i colleghi sporto querela. Il termine pazzo, pur essendo un concetto poco elegante, non ha valenza diffamatoria, essendo entrato nel linguaggio parlato di uso comune come i termini scemo e cretino.

Corte di Cassazione, sentenza n.17542 del 05.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia una condanna per violenza sessuale il padre che impone il test di verginità alla figlia. La Corte si è occupata del caso di un padre Torinese che in collera per il fatto che sua figlia avesse degli atteggiamenti sessualmente troppo disinvolti l’aveva sottoposta ad un “rudimentale” test della verginità Per umiliare sua figlia e verificare se avesse perso la verginità l’aveva denudata e aveva fugacemente introdotto le dita della mano nella vagina. Denunciato dalla figlia l’uomo veniva assolto in primo grado mentre in appello veniva condannato alla una pena di 8 mesi di reclusione per il solo reato di violenza privata. E’ ora intervenuta la Suprema Corte che ha bacchettato i giudici di merito ed ha accolto il ricorso della Procura diretto a far configurare l’atto come una vera e propria violenza sessuale. Secondo la Procura ”l’esplorazione vaginale su donna non collaborativa non solo non puo’ produrre alcun risultato certo” ma non esclude che “l’uomo, sebbene fortemente contrariato dalla presunta disdicevole condotta della figlia, avesse agito su impulso sessuale”. La terza sezione penale della Corte accogliendo il ricorso della Procura ha chiarito che ”la configurabilita’ del reato sessuale e’ stata esclusa dando decisivo rilievo al contesto in cui l’atto sessuale e’ stato compiuto dal quale si desumerebbe che lo stesso fosse diretto e volto a umiliare la figlia per la sua leggerezza nei costumi ma cio’ non esclude la valenza prevaricatoria del gesto sessuale potendo l’intento punitivo essere conseguito con modalita’ meno invasive della liberta’ di determinazione del soggetto passivo”. La sentenza è stata dunque annullata e si dovrà procedere a un nuovo esame del caso

Corte di Cassazione, sentenza n. 10636 del 03.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicstao che prima di convalidare l’espulsione il giudice di pace deve esprimersi “sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di espulsione nel paese di origine, pericolo concreto che, se accertato, avrebbe comportato una situazione ostativa all’espulsione dello straniero”; così opinando gli Ermellini di Piazza Cavour hanno sancito che il Giudice di Pace di Caserta, nel deliberare in merito al ricorso presentato da un cittadino originario della Liberia non in possesso di permesso di soggiorno (che si era visto negare lo status di rifugiato dall’apposita Commissione Centrale), avrebbe dovuto attenersi alla misura di protezione umanitaria racchiusa nell’art. 19 della Legge denominata “Bossi – Fini”. Ora sarà interessante assistere a come la giurisprudenza dei Giudici di Pace calerà il principio nella prassi. L’onere di allegazione delle condizioni ostative all’espulsione od al respingimento come dovrà essere calibrato

Corte di Cassazione, sentenza n. 10880 del 05.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che va precluso il ricongiungimento familiare allo straniero condannato per reati di droga. Secondo la Corte la condanna blocca la possibilità di riunificare la famiglia anche in assenza della prova certa che il condannato rappresenti una minaccia attuale e concreta all’ordine pubblico o alla sicurezza dello Stato. Si tratta, infatti, ha spiegato la Corte, di due condizioni ostative (condanna penale e minaccia all’ordine pubblico) tra loro alternative e non cumulative anche per lo straniero che faccia richiesta di ammissione in Italia per ricongiungimento familiare.

Corte di Cassazione, sentenza n.16733 del 03.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non commette il reato di estorsione l’imprenditore che subordina l’assunzione degli ex dipendenti della ditta a cui subentra, alla rinuncia a eventuali crediti derivanti dal vecchio contratto. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, esclude il reato di estorsione, configurato invece in primo grado, a carico del titolare di una ditta di pulizie che aveva messo come condizione per riassordire i dipendenti dell’appalto uscente, quella di rinunciare al Tfr e ad altre spettanze retributive dovute dal precedente datore di lavoro. Un paletto che, secondo il tribunale di Reggio Calabria, rappresentava una “coercizione” della volontà dei lavoratori e assumeva la connotazione del reato di estorsione. Lettura esclusa dagli ermellini, che sottolineano il mancato obbligo da parte del vincitore di appalto di assumere i vecchi dipendenti e dunque, a maggior ragione, quello di pagare le pendenze della precedente “gestione”. La richiesta avanzata rientra, secondo la Suprema corte, nella normale dialettica contrattuale in cui entrambe le parti cercano di ottenere le condizioni più favorevoli.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 12822 del 02.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che commette il reato di millantato credito anche chi non indica espressamente i nomi dei funzionari o degli impiegati con i quali sostiene di poter intraprendere la mediazione. Non solo. Il reato sussiste anche quando l’iniziativa non parte da colui che vanta il credito presso il pubblico impiegato, ma da colui che dovrebbe corrispondere il denaro. Lo hanno stabilito le Sezioni unite decidendo sul ricorso di un uomo di un piccolo comune nel cunese che aveva promesso a un commerciante che lo avrebbe aiutato ad ottenere l’autorizzazione ad aprire un circolo ricreativo, attraverso i suoi contatti presso l’amministrazione comunale. La Suprema Corte, risolvendo il contrasto di giurisprudenza, ha quindi affermato che “per integrare la fattispecie del millantato credito è irrilevante che l’iniziativa parta dalla persona cui è richiesto di corrispondere il denaro o l’utilità neppure è richiesto che l’agente indichi nominativamente i funzionari o impiegati che devono essere comprati o remunerati”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 9037 del 13.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde dell’aggressione il padrone del pitbull che ha morso chi, trovando il cancello aperto, è entrato nel giardino dove il cane è legato. Infatti secondo la terza sezione civili di Piazza Cavour solo “il caso fortuito” esclude la responsabilità dei padroni in caso di aggressioni da parte del proprio cane. Sul punto la Suprema corte richiama una decisione dell’anno scorso, la n. 11570, con la quale aveva affermato che, riporta il sito Cassazione.net,”non è configurabile il caso fortuito, cioè al caso imprevedibile, inevitabile o assolutamente eccezionale, idoneo ad escludere la responsabilità del proprietario (o dell’utilizzatore) dell’animale, nell’ipotesi in cui un cane, legato per mezzo del guinzaglio al corrimano delle scale di accesso ad una stazione della metropolitana e lasciato incustodito, si avventi contro una persona anziana in atto di sorreggersi al medesimo corrimano per scendere le scale, facendola cadere e provocandole lesioni, a nulla rilevando che la vittima avesse la possibilità di evitare l’animale seguendo un percorso diverso da esso”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10022 del 01.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il pusher che finisce sotto processo può ottenere uno sconto di pena anche nel caso in cui il suo cliente sia deceduto proprio a causa della droga che gli aveva fornito. Nella parte motiva della sentenza la Suprema Corte c
hiarisce che “in tema di attivita’ illecite concernenti gli stupefacenti, l’evento morte dell’acquirente, in conseguenza dell’assunzione di droga ceduta, non costituisce, di per se’, elemento ostativo all’applicazione della circostanza attenuante della lieve entita’ del fatto”.

Corte di Cassazione, sentenza n. n. 14603 del 13.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi si improvvisa infermiere senza averne l’abilitazione non commette il reato di esercizio abusivo della professione a patto che si tratti di un’attività saltuaria, non retribuita e svolta solo per sopperire alla carenza di personale infermieristico. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha annullato un doppio verdetto di condanna ed ha assolto una coordinatrice di una casa di riposo che, pur non essendo infermiera, aveva svolto attività tipicamente infermieristiche. Nella sentenza della sesta sezione penale della Corte i Giudici spiegano che la donna aveva tentato di praticare un prelievo ematico e in altre occasioni aveva effettuato iniezioni insuliniche o intramuscolo ai pazienti ricoverati. Il caso era finito in tribunale e la coordinatrice veniva condannata (in primo e in secondo grado) per esercizio abusivo della professione di infermiera. Ora Piazza Cavour ha ribaltato i verdetti facendo notare che le mansioni esercitate dall’imputata “ove eseguite non a titolo professionale ma per sopperire saltuariamente alla carenza del personale infermieristico, rispettando le cadenze, i tempi e le modalita’ stabilite dal medico, non integrano il reato” punito dall’art. 348 C.P.. Oltretutto spiegano i supremi Giudici, la coordinatrice aveva svolto queste attivita’ che “generalmente si praticano in via di automedicazione” gratuitamente e “in mancanza temporanea di personale sanitario”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 13596 del 12.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere condannato per ingiuria l’avvocato che dice Non esco fuori, mi denunci pure, e prima di indossare quella divisa paghi i suoi debitià Il legale aveva avuto un alterco con il pubblico ufficiale, che doveva saldargli una parcella, addetto a uno sportello davanti al quale era in fila. Gli ermellini non hanno accolto la tesi sostenuta dall’avvocato, di aver agito in seguito a una provocazione del vigile urbano, che a suo parere aveva rallentato lo scorrimento della fila, dando la precedenza ad altre attività solo per fargli dispetto. L’avvocato aveva a quel punto lasciato il suo posto in coda e risposto all’invito del vigile a lasciare l’ufficio ricordandogli il debito che aveva con lui.Secondo la Suprema Corte l’atteggiamento del vigile aveva provocato un’indistinta condizione di disagio per tutti gli utenti in fila ed era stato troppo generico per considerarlo rivolto solo all’avvocato. Il legale pertanto aveva offeso ingiustamente il pubblico ufficiale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 8068 del 30.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha stabilito che anche le telefonate mute integrano il reato di molestie. La vicenda arrivata fino in Cassazione l’esito del ricorso proposto da un giovane che usava tempestare, con più di cento chiamate al giorno, la sua ex finanziata. Il giovane aveva inutilmente tentato di provare che anche se le chiamate partivano dal suo numero, questo fatto non poteva essere la prova della sua colpevolezza. Gli Ermellini hanno stabilito che per integrare il reato previsto dall’art. 660 del codice penale basta il fatto del disturbo provocato dagli squilli e quindi ci sarebbe stata la consumazione del reato anche con telefonate mute. Per smontare l’eccezione sollevata dall’imputato, i giudici hanno infine chiarito che è massima di esperienza che il telefono intestato ad una persona sia nella sua disponibilità esclusiva, a meno che non vi sia prova del contrario o non siano state allegate specifiche circostanze dalle quali possa inferirsi la ragionevole possibilità di una diversa ricostruzione”. Infine, non solo il giovane è stato condannato alle spese processuali ma anche a pagare una multa di mille euro per aver fatto perdere tempo alla giustizia.

Corte di Cassazione,Sezioni Unite sentenza n. 13426 del 09.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che le intercettazioni dichiarate inutilizzabili, perché acquisite in violazione della legge, non possono essere prodotte in nessun giudizio, neppure per l’applicazione delle misure cautelari. Le sezioni unite dirimono il contrasto giurisrudenziale tra due opposti orientamenti in merito alle intercettazioni dichiarate inutilizzabili. Alcune sezioni della Cassazione avevano con le loro sentenze imboccato la strada dell’inutilizzabilità parziale, dichiarando l’impossibilità di portare nel dibattimento le prove raccolte nel mancato rispetto della normativa vigente, affermando per possibilità di utilizzarle – se non raccolte in violazione delle norme cosituzionali – nei giudizi disposti per l’applicazione delle misure di prevenzione. Il secondo orientamento, quello a cui hanno aderito le sezioni unite, bolla invece come totalmente inutili gli elementi probatori assunti contro le regole. La scelta di lasciare le intercettazioni illegittime non solo fuori dal processo penale, ma anche dall’udienza di convalida delle misure cautelari è confortata, sottolineano le sezioni unite, anche dalla giurisprudenza di Strasburgo. La Corte dei diritti dell’Uomo ha, infatti, in diverse occasioni, censurato la norma italiana che prevede la camera di consiglio per l’applicazione delle misure cautelari, reputandola in contrasto con l’articolo 6 della Convenzione che attribuisce a ogni persona il diritto a un esame pubblico della sua causa in un tempo ragionevole e da parte di un tribunale indipendente e imparziale. Garanzie che la “segretezza” della camera di consiglio farebbe venire meno. Sulla scia di Strasburgo si possa anche la Corte Costituzionale che, con la sentenza n.93 del 2010, ha sancito il diritto, su richiesta dell’interessato, al procedimento per l’applicazione dell’applicazione delle misure cautelari in Tribunale o in corte d’Appello con un rito a porte aperte

Corte di Cassazione, sentenza n. 11891 del 30.03.2010

La Corte di Cassazione,con la sentenza in esame ha stabilito che commette un reato il datore di lavoro che minaccia il licenziamento a un dipendente che non accetta di svolgere l’attività ,avorativa fuori del normale orario di servizio. Il caso ha riguardato un capo reparto che, riprendeva un impiegata per non aver accettato di svolgere l’attività lavorativa fuori dal normale orario di servizio, asserendo che l’avrebbe messa a fare del lavoro molto pesante o con macchinari difficili da utilizzare di modo che sarebbe stata costretta a licenziarsi per non stressarsi e prospettandole, con la minaccia di licenziamento, un ingiusto danno. Secondo la Suprema Corte, tale comportamento, integra i reati di minacce e di violenza privata. Per tale motivo, il capo reparto è stato condannato al pagamento di una multa di 51 euro e, al risarcimento dei danni alla lavoratrice

Corte di Cassazione, sentenza n. 9225 del 30.3.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha spiegato che costituiscono il reato di violenza privata le avances del capo alle sue dipendenti, abusando del ruolo di superiore gerarchico. Il reato di cui all’articolo 610 Cp si configura infatti perché la vittima è costretta a subire ingiuste vessazioni, che inducono non solo sofferenza e malessere ma anche concreti pregiudizi alla sua serenità sul lavoro e alle sue aspirazioni di carriera

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n.12823 del 02.04.2010

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza in esame ha precisato che solo una formale dichirazione di incompetenza determina l’inefficacia della misura cautelare che non sia stata rinnovata dal giudice competente entro venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti. questo l’ori
entamento scelto dalle sezioni unite penali chiamate a stabilire se l’ordinanza cautelare emessa dal giudice della convalida sia soggetta alla perdita di efficacia prevista dall’articolo 27 del Cpp, anche in assenza di una formale declaratoria di incompetenza, quando il logo dell’arresto o del fermo è diverso da quello in cui è stato commesso il reato.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10400 del 25.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che un comportamento petulante e ripetuto per suscitare la carità di un prelato può costare una condanna penale, per il reato di molestie. Con tale principio la Corte che ha colvalidato la condanna inflitta ad una famiglia rea di avere disturbato uun prelato apponendo cartelli sulla cancellata della curia e richiedendo insistentemente colloqui per chiarire la vicenda relativa allo sfratto da un campetto di calcio che i due coniugi gestivano e che costituiva la loro unica fonte di reddito. La coppia aveva anche seguito il prelato (all’epoca anche vescovo) nelle chiese dove andava a dire la messa e più volte andavano a suonare al campanello della curia. In una occasione era presente anche la figlia della coppia che veniva quindi coinvolta bella vicenda giudiziaria. Il caso finiva in tribunale e si concludeva con la condanna dell’intera famiglia per molestie. In Cassazione gli imputati hanno cercato di dimostrare di non avere avuto aluna intenzione di “molestare” o di “offendere” il vescovo essendo il loro unisco scopo quello di “di fare lievitare l’aspetto caritatevole proprio della funzione degli ecclesiastici”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 12433 del 30.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il dolo eventuale non può essere ravvisato da un semplice motivo di sospetto ma è necessaria una situazione fattuale tale che, dal punto di vista soggettivo, renda pressoché inequivocabile la provenienza illecita del bene acquistato. Le Sezioni Unite intervengono su entrambi gli orientamenti presenti in Cassazione rispetto alla valutazione e all’applicazione dell’articolo 712 del Codice penale, individuando una soluzione alternativa per cui sono i motivi di sospetto tipizzati, e non il sospetto, che caratterizzano l’incauto acquisto. E’ necessaria – chiariscono i giudici – una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire.

Corte di Cassazione,Sezioni Unite, sentenza n. 12067 del 29.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il soggetto che sia persona offesa e insieme indagato non può assumere l’ufficio di testimone se non dopo che nei suoi confronti sia stata emessa una sentenza di proscioglimento per non aver commesso il fatto. Per la Corte a Sezioni Unite La disciplina limitativa della capacità testimoniale – si legge nella pronuncia – di cui all’articolo 197, comma 1, lettere a) e b), all’articolo 197 bis e all’articolo 210 del Codice di procedura penale, non è applicabile alle persone sottoposte a indagini nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione.

Corte di Cassazione, sentenza n.11945 del 26.03.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere condannato per stalking lo sconosciuto che, con una certa regolarità di apposta davanti alla scuola o all’abitazione di una dodicenne molestandola verbalmente e lanciandole dei baci. La corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, classifica come stalking gli atti persecutori che sono in grado di produrre nella vittima tre stati d’animo ben individuati: un perdurante stato di ansia o di paura, un fondato timore per la propria incolumità per quella a cui si è effettivamente legati e, per finire, la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. Tre effetti che i giudici hanno, in base alle testimonianze, riscontrato nella minore molto spesso seguita nei suoi spostamenti da casa a scuola da un uomo che le rivolgeva sguardi insistenti, baci, apprezzamenti e inviti a salire a bordo del suo furgone. Quanto basta per indurre nella bambina sia lo stato di ansia sia il timore per la propria incolumità intanto da farle manifestare l’intenzione di non frequentare più scuola.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione -Sezione III Sentenza 13/04/ 2015 n. 14951

Sanzioni penali per chi interviene su un immobile vincolato, anche se si tratta di opere che ottengono successivamente l’autorizzazione del Sovrintendente. Lo sottolinea la Cassazione penale con sentenza 14951 del 13 aprile 2015, relativa ad un edificio nel centro storico di Trieste. L’amministratore dell’edificio aveva fatto sostituire due serrande ed alcuni dispositivi elettrici di chiusura realizzando un foro nella facciata, montando poi infissi grigliati di aerazione senza l’autorizzazione della sovrintendenza. Ne è scaturita un’azione penale che ha condotto la condanna dell’amministratore anche se, nel frattempo, era stata ottenuta l’autorizzazione per l’esecuzione dei lavori, qualificando questi ultimi come compatibili con il vincolo.

La Cassazione penale distingue infatti tra sanzioni contenute nella Codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs. 42/2004), separando gli abusi su beni paesaggistici rispetto agli interventi sui beni culturali. I beni paesaggistici sono quelli indicati nell’articolo 136 del predetto Codice, ad esempio quelli che ricadono nelle fasce di rispetto dal mare o da corsi d’acqua e quelli sottoposti a tutela dei piani paesaggistici. I beni culturali, invece (articolo 10 Dlgs 42) sono specifici immobili o mobili appartenenti allo Stato o a soggetti pubblici, tra i quali le raccolte dei musei, pinacoteche, gallerie, gli archivi, raccolte librarie, i beni di interesse artistico, storico, archeologico specificamente vincolati (con singoli decreti) ed ogni altro bene che abbia riferimento alla storia politica, militare, letteraria, artistica e scientifica, compresi manoscritti autografi, carte geografiche, fotografie, ville, parchi e giardini, navi ed architetture rurali.

Corte di cassazione Sezioni unite penali Sentenza 14/04/2015 n. 15232

Nelle udienze camerali, il mancato accoglimento della richiesta di rinvio da parte del legale che si astenga per uno sciopero di categoria comporta una nullità a regime intermedio della sentenza, non essendo l’assistenza del difensore obbligatoria. Tuttavia, il diritto al rinvio non sorge qualora la richiesta provenga unicamente dal difensore della parte civile, o persona offesa, e non anche dall’avvocato dell’indagato, dovendosi privilegiare la scelta di perseguire la celerità del processo. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali con la sentenza 15232/2015 fissando due principi di diritto.

Il diritto al rinvio – Per la Suprema corte, dunque, «in relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice è tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione di astensione del difensore, legittimamente proclamata dagli organismi di categoria ed effettuata o comunicata nelle forme e nei termini previsti dall’art. 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione». Tuttavia, prosegue la sentenza, «trattandosi di una ipotesi in cui l’assistenza del difensore non è obbligatoria, il mancato accoglimento della richiesta di rinvio comporta una nullità della sentenza per mancata assistenza dell’imputato ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c), e 180, cod. proc. pen.: nullità da considerarsi a regime intermedio e non assoluta ex art. 179, primo comma, cod. proc. pen.».

La difesa dell’indagato – Nel caso in esame, però, il difensore degli indagati aveva revocato la dichiarazione di astensione ed aveva espressamente chiesto la trattazione del processo nel merito. A fronte di questa manifestazione di volontà la riproposizione della dichiarazione di astensione da parte dei soli difensori delle persone offese, non da diritto al rinvio. Infatti, chiarisce la Cassazione, affermando un secondo principio di diritto: «Nelle udienze penali, a partecipazione del difensore facoltativa, l’astensione dei difensore della parte civile o della persona offesa, prevista dall’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione degli avvocati pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 4 gennaio 2008, non dà diritto al rinvio qualora il difensore dell’imputato o dell’indagato non abbia espressamente o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando un proprio interesse ad una celere definizione del procedimento».

Corte costituzionale sentenza 26/03/ 2015 n. 48

Per gli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, la previsione del carcere come unica misure per soddisfare le esigenze cautelari è incostituzionale. Siamo, infatti, di fronte ad un reato diverso rispetto all’«associazione mafiosa» vera e propria, per il quale la «pericolosità sociale» può essere fronteggiata anche con misure più blande quali i domiciliari.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza 48/2015, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, «nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

La vicenda – Il caso è stato sollevato dal Gip del tribunale di Lecce investito dell’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari dal difensore di un uomo sottoposto ad indagini per concorso esterno per aver messo a disposizione dell’organizzazione le proprie cognizioni tecniche e le apparecchiature idonee all’individuazione di microspie collocate dalla polizia giudiziaria. Per il giudice rimettente però le esigenze cautelari pur non essendo venute meno «potrebbero essere, tuttavia, adeguatamente soddisfatte con la misura meno gravosa degli arresti domiciliari», idonea a fronteggiare il pericolo di reiterazione di fatti. Ma la norma non consentiva l’accoglimento della richiesta richiedendo obbligatoriamente l’assoluta mancanza di esigenze cautelari.

La motivazione – La Consulta premesso che il concorrente esterno «è, per definizione, un soggetto che non fa parte del sodalizio», rileva che non è neppure ravvisabile quel vincolo di «adesione permanente» al gruppo criminale che legittima «il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità».

Del resto il “supporto” del concorrente esterno può risultare anche meramente episodico, o addirittura unico: «circostanza che rende ancor meno giustificabile tanto la totale equiparazione del concorrente esterno all’associato, quanto l’omologazione delle diverse modalità concrete con cui il concorso esterno è suscettibile di manifestarsi, ai fini dell’esclusione di qualunque possibile alternativa alla custodia carceraria come strumento di contenimento della pericolosità sociale dell’indiziato».

Infine, conclude la Corte, «è significativo» che la giurisprudenza di legittimità abbia già differenziato le posizioni dell’associato e del concorrente esterno con riguardo alle esigenze cautelari. Mentre, infatti, nel caso dell’associato, «la presunzione di pericolosità sociale cede solo di fronte alla dimostrazione della rescissione definitiva del vincolo di appartenenza al sodalizio»; nel caso del concorrente esterno «il parametro per superare la presunzione è diverso e meno severo, rimanendo legato alla prognosi di non reiterabilità del contributo alla consorteria» (Cassazione 2014, n. 9478).

Cassazione penale sez. II sentenza 11/03/2015 n. 10766

1. Con sentenza del 12.3.2012 il Tribunale di Palermo dichiarò S.G. responsabile del reato di truffa e – concesse le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti – lo condannò alla pena di mesi 4 di reclusione ed Euro 100.00 di multa, pena sospesa.
2. L’imputato propose gravame ma la Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 27.2.2014, confermò la pronunzia di primo grado.
3. Ricorre per cassazione l’imputato, tramite il difensore, deducendo:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in quanto l’assunto secondo il quale S. sarebbe l’unico beneficiario dell’illecito non tiene conto della deposizione del teste Falletta che ha riferito di non aver controllato se la sottoscrizione fosse di S. o della moglie e se la domanda fosse falsa; non può desumersi alcuna prova dalla mancata impugnazione dell’annullamento del decreto di riconoscimento delle provvidenze poichè non risulta che sia stato notif
icato all’imputato;
2. violazione di legge in relazione alla mancata qualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 316 ter c.p. in quanto l’artificio contestato (la formazione del verbale della commissione medica falso) non ha influito sulla formazione della volontà dell’ente erogante non essendo stato preso in considerazione dalla Prefettura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e svolge censure di merito.
La Corte territoriale ha argomentato che, comunque, beneficiario della pensione per invalidità civile è stato S.G. e sulla scorta di tale considerazione ha ravvisato il concorso di S..
In tale motivazione non vi è alcune manifesta illogicità che la renda sindacabile in questa sede.
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Integra il delitto di truffa aggravata e non quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato l’utilizzazione o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, o l’omissione di informazioni dovute, quando hanno natura fraudolenta (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21609 del 18/02/2009 dep. 25/05/2009 Rv. 244539. In motivazione la Corte ha evidenziato la necessità di valutare, ai fini della qualificazione giuridica del fatti, la rilevanza, e le conseguenze in ordine alle determinazioni dell’ente pubblico, di elementi come la natura fittizia dell’ente richiedente, la presentazione di fatture materialmente false e di documenti oggetto di rendiconto presentati anche ad altro ente, il silenzio serbato dall’imputato sull’aver ricevuto “aliunde” entrate riconducibili alle medesime iniziative).
Nel caso in esame la falsa dichiarazione di una situazione di invalidità accompagnata da documentazione falsa integra il delitto di truffa.
L’affermazione che il verbale falso non sia stato utilizzato è priva di qualunque prova.
3. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
4. Da ultimo il Collegio osserva che non possono trovare applicazione le norme sulla prescrizione del reato, pur essendo maturati i relativi termini, dal momento che – secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte – l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla mancanza, nell’atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall’art. 581 c.p.p., ovvero alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (cfr.: Cass. Sez. Un., sent. n. 21 del 11.11.1994 dep. 11.2.1995 rv 199903; Cass. Sez. Un., sent. n. 32 del 22.11. 2000 dep. 21.12.2000 rv 217266).
5. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1.000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 11 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2015

Cassazione penale , SS.UU. sentenza 17.03.2015 n. 11170

Il caso e la questione di diritto
Il Primo Presidente della Corte, con decreto del 6 maggio 2014, aveva assegnato alle Sezioni Unite uno dei due ricorsi trasmessigli dal magistrato delegato al cd spoglio, ovvero all’esame preliminare dei ricorsi, nel caso assegnati alla quinta sezione della Corte, che aveva rilevato che due ricorsi ponevano la questione della tutela dei terzi in buona fede che, vantando crediti nei confronti del fallimento, avrebbero potuto subire un pregiudizio in caso di sequestro, e successiva confisca, di parte della massa fallimentare.
Ciò in quanto il Primo Presidente della Corte aveva condiviso le osservazioni delle difese, che avevano richiesto preventivamente che la trattazione dei casi fosse riservata alle Sezioni Unite sussistendo un contrasto in materia.
Il tema era stato in qualche modo trattato anni addietro dalle Sezioni Unite, con le sentenza 24 maggio 2004, dep. il 9 luglio 2004, n. 22951, su ricorso della curatela fallimentare in proc. Focarelli.
In quella occasione la corte aveva precisato in primis che la curatela fallimentare non è “terzo estraneo al reato”, in quanto il concetto di appartenenza di cui all’art. 240 comma 3 cod. proc. pen. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, così che dovesse intendersi per terzo estraneo al reato soltanto colui che non partecipi in alcun modo alla commissione dello stesso o all’utilizzazione dei profitti derivati.
La decisione aggiungeva inoltre che la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, anche se tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare.
Per quanto attiene più specificamente al tema che era stato devoluto all’attenzione della Corte nel caso in esame, la decisione aveva affermato la legittimità del sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia stata instaurata la relativa procedura concorsuale, a condizione che il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, desse motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare.
In quella occasione la Corte aveva anche precisato che:
a) il sequestro probatorio può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, conserva la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale, trattandosi di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della ricerca della verità nel procedimento penale;
b) il sequestro conservativo previsto dall’art. 316 cod. proc. pen., in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, rientra, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area di operatività del divieto di cui all’art. 51 l. fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento;
c) il sequestro preventivo c.d. impeditivo, previsto dall’art. 321 comma 1 cod. proc. pen., di beni appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita è legittimo, a condizione che il giudice, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale;
d) il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, prevalendo l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente “pericoloso” in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato.
La posizione della più recente giurisprudenza
Ma le conclusioni della sentenza Focarelli, che si era occupata di un caso di confisca facoltativa, e non di quella ex art. 19, d.lgs n. 231/2001, non aveva potuto evitare il formarsi di un diverso e comunque rilevante contrasto.
Negli anni successivi le sezioni semplici della Corte avevano avuto modo di sostenere che la obbligat
orietà della confisca nei casi previsti dall’art. 12 sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni in legge 7 agosto 1992 n. 356, siccome stabilita non in funzione della intrinseca pericolosità delle cose da confiscare, ma soltanto del loro legame con chi ha subito condanna per determinati delitti, non impediva che, qualora dette cose, nell’ambito di procedimento penale per taluno di tali delitti, fossero state oggetto di sequestro preventivo in vista appunto della loro assoggettabilità a confisca obbligatoria e fosse sopravvenuto il fallimento dell’imputato, il curatore del fallimento potesse chiedere ed ottenere l’autorizzazione alla loro vendita ed alla conseguente distribuzione del ricavato ai creditori concorsuali.
Ciò in quanto anche in tal caso si dava luogo alla realizzazione della finalità perseguita dal legislatore, costituita dallo spossessamento del condannato; con l’avvertenza che il giudice, in tal caso, era tenuto a esercitare un più rigido e penetrante controllo onde acquisire la ragionevole certezza che i beni che sarebbero stati da confiscare non ritornassero surrettiziamente in altro modo, attraverso prestanomi o con altri fraudolenti accorgimenti, nella diretta o indiretta disponibilità del condannato medesimo.
La necessità di approfondire ai massimi livelli le questioni sottese aveva indotto il Primo Presidente a condividere le perplessità avanzate dal magistrato assegnatario, ed a fissare l’udienza dello scorso 25 settembre 2014, per vedere risolta la questione.
La decisione delle sezioni unite
Le sezioni unite penali della Corte hanno dato puntuale risposta ai quesiti sottesi alla soluzione della questione, che può essere compitamente sintetizzata come segue: se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell’art. 19, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, con riferimento ai beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compita dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd codice antimafia).
La motivazione della Corte muove dall’analisi del citato art. 19 del decreto legislativo 231 evidenziando come questo disciplini una connessione funzionale tra la misura cautelare reale e la confisca simile a quella di cui all’art. 321, comma 2 bis, c. p. p., così che il regime del sequestro segue quello della confisca.
Questa poi ha natura di vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma allorchè viene disposta in danno di un ente ritenuto responsabile di un illecito amministrativo dipendente da reato, stante lo stretto rapporto tra responsabilità accertata e sanzione, con una qualificazione certamente innovativa (anche i dubbi relativi alla confisca per equivalente sono stati superati nel senso del riconoscimento della natura di sanzione principale).
La emanazione del sequestro preventivo sarà pertanto compito del Gip e quella della confisca del giudice della cognizione, con la conseguenza che saranno costoro a dovere valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede, atteso che non può essere che il giudice che deve disporre il sequestro o la confisca a dovere selezionare i beni da escludere perché da restituire al danneggiato o perché di terzi in buona fede.
Così la verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare.
Ove il terzo non abbia avuto modo di fare valere i propri diritti in sede cognitiva (come in caso non conoscenza del procedimento) le istanza andranno rivolte al giudice dell’esecuzione penale.
La Corte ha poi sottolineato come le finalità dei due vincoli, quello fallimentare e quello penale, siano del tutto differenti e non configgenti, in quanto lo stesso articolo 19 cit. prevede che siano salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede, senza porre limiti temporali alla prova della acquisizione del diritto, in quanto è possibile che al terzo venga riconosciuta l’acquisizione in buona fede dopo la confisca (come di fatto avviene in caso di apertura della procedura fallimentare, ove il diritto del terzo viene riconosciuto alla chiusura della procedura).
Le sezioni unite hanno poi affermato il principio per il quale il curatore fallimentare non è legittimato a proporre l’impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 per mancanza di interesse.
Ciò in quanto il curatore fallimentare, soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, non può agire in rappresentanza dei creditori, i quali prima della conclusione della procedura non sono titolari di alcun diritto sui beni e quindi privi di qualsiasi titolo restitutorio sui beni, né è titolare in proprio di alcun diritto sui beni. Conseguentemente la Corte ha dichiarato inammissibili i ricorsi.

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni Unite può essere così riassunta: “Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)”.
Va peraltro subito avvertito che interferiscono con tale tematica i problemi, della legittimazione e dell’interesse concreto del curatore fallimentare a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19; i quali sono da risolvere precisando quale sia il rapporto, alla luce della legislazione vigente in materia, tra la procedura fallimentare ed i provvedimenti di sequestro e confisca adottati ai sensi del citato art. 19.
2. Prima di affrontare detti problemi, è tuttavia opportuno prendere le mosse, per la sua diretta riferibilità alla natura degli addebiti su cui si fonda il provvedimento impugnato, dalla questione posta con il primo motivo, che, pur essendo fondata, non può condurre, per le ragioni che in seguito saranno esposte, all’accoglimento dei ricorsi.
Tale questione attiene alla dedotta mancanza di un reato presupposto, a seguito della modifica del capo F della rubrica, riferito alla posizione della Uniland, da reato societario a bancarotta impropria societaria determinata dalla apertura prima della procedura di concordato preventivo e poi dalla declaratoria di fallimento della predetta società, necessario per disporre il sequestro.
Il problema non riguarda la Housebuilding, perchè il capo R contestato alla società è rimasto invariato, come pure il capo Q – aggiotaggio societario – che costituisce il delitto presupposto.
Quanto alla Uniland, il capo F contestato agli indagati veniva modificato dal P.M. dopo la dichiarazione di fallimento della società in bancarotta societaria e, tra l
e altre violazioni si specificava che la condotta era diretta anche a commettere il reato sub N, ovvero la manipolazione del mercato, reato quest’ultimo, però, mai specificamente contestato alla Uniland, perchè il capo F- bis attribuito alla società contestava il reato di cui all’art. 2632 c.c. – formazione fittizia di capitale – e conteneva un generico richiamo al capo F. In ogni caso e senza alcuna pretesa di completezza, che non sarebbe nemmeno opportuna, tenuto conto del tenore della decisione, sembra il caso di porre in evidenza che la giurisprudenza, con il consenso unanime della Dottrina, ha individuato, nell’interpretare il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 2, – secondo il quale “l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto” – oltre alle norme che contengono l’elenco dei reati presupposto che legittimano l’affermazione di responsabilità degli enti, la necessità di un doppio livello di legalità.
E’ necessario, cioè, che il fatto commesso dagli organi apicali dell’ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso e che tale reato sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto, dai quali soltanto può derivare la responsabilità amministrativa dell’ente, previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001.
Questa interpretazione appare corretta perchè dal complesso delle norme del D.Lgs. n. 231 del 2001, emerge che il sistema italiano, a differenza di altri ordinamenti giuridici, non prevede una estensione della responsabilità da reato alle persone giuridiche di carattere generale, coincidente cioè con l’intero ambito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche, ma limita detta responsabilità soltanto alle fattispecie penali tassativamente indicate nel decreto stesso.
Una tale impostazione è stata seguita dalla Terza Sezione penale (sent. n. 41329 del 07/10/2008, Galipò, Rv. 241528) in tema di reati ambientali prima che ad alcuni di essi venisse collegato l’illecito amministrativo dell’ente con il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, ed è stata confermata dalle Sezioni Unite (sent. n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv 258646) in tema di reati tributari non previsti nei tassativi elenchi del più volte citato decreto 231 del 2001 (vedi anche per una particolare applicazione del principio indicato Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, Riva Fi.Re s.p.a., Rv. 257789).
Con più specifico riferimento alla vicenda Uniland, di particolare interesse è una decisione della Suprema Corte (Sez. 2, n. 41488 del 29/09/2009, Rimoldi) che ha escluso che in caso di ritenuto reato complesso si potesse scomporre tale reato al fine di fare derivare, da una parte artificialmente separata della condotta posta in essere ed isolatamente riguardata, quelle conseguenze sanzionatorie che solo da essa, e non invece da quella globalmente considerata dalla legge, conseguirebbero.
Una siffatta operazione – nel caso considerato si versava in ipotesi di truffa aggravata in danno dello Stato e frode fiscale e si era ritenuta la prevalenza per specialità di tale ultimo reato non previsto nel catalogo dei reati presupposto – si tradurrebbe, invero, nella applicazione di una misura sanzionatoria per una ipotesi criminosa che non la contempla, con conseguente violazione del principio di stretta legalità, che contraddistingue anche l’ordinamento della responsabilità degli enti.
Quella esaminata dalla Seconda Sezione è certamente una ipotesi analoga a quella in discussione perchè il delitto di bancarotta impropria societaria assorbe il reato societario – nel caso di specie manipolazione del mercato, peraltro mai contestato all’ente, al quale, invece, era stato contestato il reato di formazione fittizia di capitale – ed assume una connotazione del tutto propria e particolare, essendo necessario che quella condotta abbia cagionato o aggravato il dissesto della società dichiarata fallita.
Peculiarità a cui non sfugge, come è stato efficacemente sottolineato (vedi Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv.
252804) nemmeno l’elemento psicologico perchè in tema di bancarotta societaria, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.
Le specificità e peculiarità del delitto di bancarotta societaria, che assorbono completamente il reato societario, non consentono l’ardita operazione di scomposizione della condotta di bancarotta contestata per far derivare dal reato societario, compreso nel catalogo dei reati presupposto a differenza della bancarotta societaria, la responsabilità amministrativa della società.
Nè a risultati diversi si potrebbe pervenire facendo riferimento al principio di autonomia della responsabilità degli enti sancito dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, principio non affermato nel provvedimento impugnato, ma nell’ordinanza del 20 luglio 2013 del Tribunale di Bologna, pure pronunciata nei confronti della Uniland, ma costituente oggetto di diverso procedimento incidentale.
Il citato articolo 8, in effetti, non consente la divaricazione tra il delitto contestato alla persona fisica e quello chiamato a fungere da presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente.
Tale norma, infatti, si limita soltanto a prevedere l’insensibilità del processo contra societatem alla mancata identificazione o alla non imputabilità della persona fisica e all’estinzione del reato- presupposto per causa diversa dall’amnistia.
Insomma l’importante è che un reato di quelli compreso nel catalogo dei reati presupposto sia stato accertato e sia riferibile ad uno dei soggetti indicati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, anche se poi manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di uno di tali soggetti.
Il riferimento al principio di autonomia della responsabilità degli enti è, quindi, destituito di fondamento.
3. Venendo ora al denunciato contrasto in ordine al rapporto tra i provvedimenti di sequestro e confisca del profitto del reato e procedura fallimentare quando i provvedimenti di sequestro/confisca riguardino beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, deve rilevarsi che, come messo in evidenza dai ricorrenti, esso appare effettivamente apprezzabile sulla base del panorama giurisprudenziale.
3.1. La sentenza Focarelli delle Sezioni Unite, n. 29951 del 24/05/2004, esaminando il caso di un sequestro preventivo disposto in funzione della confisca facoltativa prevista dall’art. 240 c.p., comma 1, sul profitto di delitti tributari e truffe ai danni dello Stato commessi in forma organizzata, affrontò la questione così enunciata, oggetto di un contrasto di giurisprudenza: “se sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell’indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita”.
Le Sezioni Unite risolsero il contrasto escludendo, pur in mancanza di una previsione legislativa, la radicale insensibilità del sequestro alla procedura concorsuale, affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, ovvero di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi di illecito potessero giovare all’indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare).
Quindi, secondo la sentenza Focarelli, il sequestro penale non sarebbe precluso a condizione che il giudice dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori.
A fondamento della decisione la sentenza poneva alcune condivisibili considerazioni sul rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale, come è lecito desumere anche dalla Relazione ministeriale alla le
gge fallimentare, e sul ruolo del curatore fallimentare, quale emerge dalle fonti del suo potere, dalle finalità istituzionalmente collegate al suo agire e dai controlli che presidiano la sua attività gestoria, che non deve essere considerato, quindi, come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei creditori, ma piuttosto come organo che svolge una funzione pubblica nell’ambito della amministrazione della giustizia, incardinato nell’ufficio fallimentare a fianco del tribunale e del giudice delegato.
Inoltre la sentenza Focarelli rilevava che non è possibile, in linea astratta, escludere che lo spossessamento determinato dalla procedura concorsuale assorba la funzione del sequestro preventivo penale, che è quella di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto, contemperandola con la garanzia dei creditori sul patrimonio dell’imprenditore fallito.
Istanza quest’ultima alla quale non può essere indifferente l’ordinamento penale (come rilevato non solo dalla citata sentenza, ma anche da autorevoli precedenti, quali Sez. U, n. 9 del 18/05/1994, Comit Leasing s.p.a. in proc. Longarini e Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti) quando la presunzione di pericolosità sottesa alla misura di sicurezza inerisca non alla cosa illecita in sè ma alla relazione che la lega al soggetto che ha commesso il reato.
Nell’esaminare, poi, le diverse ipotesi di sequestro e confisca, la sentenza Focarelli escludeva che in ipotesi di confisca obbligatoria vi fossero margini di discrezionalità per il giudice, e chiariva che le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro prevalendo la esigenza preventiva “di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato; sicchè le ragioni di tutela dei terzi creditori sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività”.
3.2. Ma le conclusioni della sentenza Focarelli, che, come si è già notato, si era occupata di una ipotesi di confisca facoltativa e, comunque, non attinente alla confisca prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, lungi dal risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno posto i presupposti per altro ed ancor più delicato contrasto.
Ed, infatti, la conclusione, che, comunque, costituiva un obiter rispetto al thema decidendum, in ordine alla insensibilità della confisca obbligatoria agli interessi dei creditori e, quindi, alla procedura concorsuale sembrava essere attenuata dal riferimento, in un successivo passaggio della motivazione, alla necessità “di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso”.
Ora è noto che dal legislatore sono previste ipotesi di confisca obbligatoria – uno dei casi è proprio quello della confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, come meglio si dirà – che non hanno per oggetto cose intrinsecamente pericolose, ovvero gli oggetti di cui all’art. 240 c.p., comma 2, n. 2.
Si è verificata, pertanto, una divaricazione tra chi ha ritenuto che le Sezioni Unite avessero inteso legare il principio della insensibilità assoluta al fallimento alla configurazione legislativa, facoltativa o obbligatoria, della confisca, o avessero, invece, tenuto conto della natura, intrinsecamente pericolosa o meno, del bene che ne forma oggetto.
3.3. Senza alcuna pretesa di completezza, anche perchè, come si vedrà, la soluzione del problema avverrà per ragioni diverse da quelle che hanno originato il contrasto di giurisprudenza, appare opportuno dare conto della giurisprudenza formatasi sul punto.
Stando a un indirizzo, che ben può ritenersi prevalente, ciò che conta al fine di stabilire la insensibilità o meno al fallimento della confisca è la natura della res.
Secondo la sentenza Sorrentino (Sez. 3, n. 20443 del 02/02/2007, Rv 236846) pronunciata in tema di sequestro finalizzato alla confisca D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12 sexies, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, la funzione della confisca obbligatoria prevista dalla norma citata è simile a quella della confisca facoltativa di cui all’art. 240 c.p., comma 1, perchè si vuole impedire che il reo possa commettere ulteriori reati; quindi non trattandosi di res pericolose in sè bisogna tenere conto della procedura concorsuale di analogo rilievo pubblicistico; naturalmente vi è la necessità che il curatore fallimentare agisca con particolare rigore, essendo poi il giudice a compiere le necessarie valutazioni in ordine alla effettiva compatibilità tra le esigenze della prevenzione penale ed il concreto svolgimento della procedura concorsuale.
La sentenza Arconte (Sez. 1, n. 20216 del 01/03/2013, Arconte, Rv 256256), sempre in materia di confisca ex art. 12 sexies, segue l’indirizzo della Sorrentino, precisando che il giudice, nel compiere le sue valutazioni, deve acquisire la ragionevole certezza che attraverso la procedura concorsuale i cespiti non rientreranno nella diretta o indiretta disponibilità del condannato.
Prescindendo dalle particolarità del caso trattato e dal riferimento alla disciplina delle fasi di gestione e liquidazione del patrimonio aziendale confiscabile e confiscato contenuta nel ed codice antimafia, la sentenza Lu.fra trasporti s.r.l. (Sez. 6, n. 49821 del 17/10/2013, Rv 258579) pronunciata in tema di prevenzione antimafia si muove nel solco della sentenza Sorrentino.
La sentenza Grassi, pronunciata in tema di sequestro e confisca per equivalente ex artt. 322 ter e 640 quater c.p., (Sez. 2, n. 31990 del 14/06/2006, Rv 235129), dopo avere confermato il principio dettato dalla sentenza Focarelli che in caso di confisca obbligatoria il sequestro di cose pericolose è insensibile al fallimento, ha precisato che il profitto diretto del reato è insensibile al fallimento trattandosi di beni oggettivamente pericolosi data la loro pertinenza al reato, mentre la confisca per equivalente va trattata come la Focarelli tratta la confisca facoltativa trattandosi di una misura sanzionatoria consistente in un prelievo pubblico a compensazione di un profitto illecito.
Di grande rilievo è poi l’affermazione della sentenza Grassi secondo cui la pretesa dello Stato deve trovare tutela nell’ambito della procedura fallimentare per il rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti da tale procedura.
Si tratta certamente di pronunce di interesse, ma che riguardano materie affini e non direttamente i provvedimenti di sequestro e confisca adottabili ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19.
3.4. Due sentenze della Quinta Sezione penale, invece, si occupano specificamente del sequestro per equivalente disciplinato dal citato art. 19.
La prima (Sez. 5, n. 33425 del 08/07/2008, Fazzalari, Rv 240559) segue l’indirizzo della Focarelli precisando che i beni oggetto di confisca per equivalente non sono intrinsecamente pericolosi e che spetta, quindi, al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare.
La sentenza Fazzalari afferma, inoltre, che la confisca per equivalente prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, diversamente da quella del profitto diretto di cui al primo comma sarebbe prevista come facoltativa in virtù del termine “può” contenuto nella disposizione.
Quest’ultima costituisce affermazione isolata e non condivisibile perchè, a tacere di altri pur importanti argomenti, di cui poi si dirà, il dato lessicale “può” valorizzato dalla sentenza segnala non la facoltatività o discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta e alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile.
Di grande interesse è la seconda sentenza della Quinta Sezione (n. 48804 del 09/10/2013,
Cur. Fall. Infrastrutture e servizi, Rv 2577553) che trova le ragioni del necessario bilanciamento delle esigenze di tutela penale e quelle dei creditori nel dettato del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, che fa salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede; ebbene – ha affermato tale sentenza – terzo in buona fede rispetto alle vicende personali del fallito è certamente il curatore, come pure i creditori insinuati.
L’interesse della sentenza è costituto dal corretto tentativo di trovare la soluzione del problema nella disposizione normativa specifica che disciplina l’istituto della confisca in danno degli enti, mentre non appare condivisibile, come meglio si dirà, la drastica affermazione che il curatore ed i creditori insinuati siano i terzi in buona fede indicati dalla norma per il semplice fatto che essi non sono certamente titolari di “diritti acquisiti sui beni”.
3.5. A tale prevalente indirizzo se ne è contrapposto altro che, nel disciplinare i rapporti tra sequestro/confisca e fallimento ha, invece, dato rilievo alla natura della confisca.
Su questa linea si sono espresse essenzialmente tre pronunce: le prime due (Sez. 6, n. 31890 del 04/03/2008, Bruno, Rv 241013; e Sez. 1, n. 16783 del 07/04/2010, Profilo, Rv 246994), in materia di prevenzione antimafia, affermano che la res confiscabile è per presunzione assoluta pericolosa perchè frutto di attività illecita, cosicchè, trattandosi di confisca obbligatoria, se ne deve affermare la insensibilità al fallimento in attuazione del principio dettato dalla più volte citata sentenza Focarelli; la seconda sentenza, poi, dopo aver negato al curatore fallimentare dell’impresa alla quale appartengono i beni confiscabili il diritto di intervenire nel procedimento di prevenzione patrimoniale, ha riconosciuto allo stesso la possibilità di proporre incidente di esecuzione avverso il provvedimento di sequestro.
La terza decisione ascrivibile a tale minoritario indirizzo è stata, invece, pronunciata proprio in tema di sequestro disposto ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001 (Sez. 6, n. 19051 del 10/01/2013, Curatela fall. Soc. Tecno Hospital s.r.l., Rv 255255).
Tale decisione, dopo avere riconosciuto alla confisca del profitto nei confronti dell’ente la natura di sanzione principale ed autonoma anche quando si tratti di confisca per equivalente di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ed averne, conseguentemente, affermato la obbligatorietà, trattandosi di profitto ottenuto illecitamente in quanto derivante da reato, ha dichiarato, in ossequio all’obiter della sentenza Focarelli, la assoluta insensibilità del sequestro finalizzato a confisca obbligatoria alla procedura fallimentare.
4. Per risolvere i problemi derivanti dal rapporto tra il sequestro/confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, e la procedura fallimentare è necessaria una impostazione diversa da quella seguita dalla sentenza Focarelli, che fondava le sue conclusioni sul presupposto, non condivisibile, della mancanza di disposizioni legislative in materia e sulla necessità, comunque, di contemperare le differenti e, per molti aspetti ritenute contrastanti, esigenze della tutela penale e dei legittimi diritti dei creditori.
Ed infatti non può parlarsi di assenza di disciplina, perchè, quantomeno per le ipotesi di sequestro/confisca in danno degli enti, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, se approfonditamente analizzato, nella sua lettera e nella sua logica, consente sia una ricostruzione precisa dell’istituto del sequestro/confisca, sia una armonica soluzione del rapporto tra tale istituto e la eventuale procedura fallimentare a carico dell’ente.
Conviene, per esigenze di chiarezza e più rapida intelligenza dei problemi, riportare il testo del citato art. 19: “1. Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede. – 2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”.
4.1. Dalla lettura del testo emergono immediatamente con tutta evidenza la natura della confisca, così come configurata dal citato art. 19, e la stretta connessione funzionale tra la misura cautelare reale del sequestro e la confisca.
Il sequestro, previsto dall’art. 53, in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, è disciplinato, infatti, in prospettiva della futura confisca, anche per equivalente, del prezzo e del profitto del reato.
Si tratta di un connessione funzionale tra la misura cautelare reale e la confisca simile a quella disciplinata dall’art. 321 c.p.p., comma 2 bis, e, quindi, il regime del sequestro – obbligatorio o facoltativo – segue quello della confisca; è necessario, pertanto, esaminare brevemente tale ultimo istituto.
La confisca disciplinata dal decreto legislativo n. 231 del 2001 è una vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma, come è stato chiarito dalla giurisprudenza (ex multis Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Impregilo-Fisia Impianti; Sez. 2, n. 9829 del 16/02/2006, Miritello, Rv 233373; Sez. 6, n. 34505 del 31/05/2012, Codelfa) e dalla prevalente dottrina, quando venga disposta in danno di un ente ritenuto responsabile di un illecito amministrativo dipendente da reato; del resto è lo stesso D.Lgs. n. 231 del 2001, che all’art. 9, comma 1, lett. c), attribuisce natura sanzionatoria alla confisca.
Il più volte citato decreto, invero, dando attuazione alla Convenzione OCSE 17/12/1997 che all’art. 2, obbligava gli Stati aderenti ad assumere “le misure necessarie a stabilire la responsabilità delle persone morali” ha introdotto nel nostro ordinamento uno specifico e, per molti aspetti, innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi superando il tradizionale principio societas delinquere et puniri non potest; ne è derivata la individuazione di originali sanzioni interdittive, pecuniarie ed ablatorie, che fossero in stretto rapporto funzionale con la responsabilità accertata.
Restando nei limiti di ciò che è strettamente necessario alla presente decisione, bisogna ricordare che il sistema sanzionatorio previsto per gli enti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, fuoriesce dagli schemi tradizionali incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie e mira a stabilire uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare.
Rapporto quest’ultimo ravvisabile, quindi, non solo per la confisca del prezzo e del profitto del reato, ma anche per quella di valore prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, perchè, come efficacemente è stato rilevato (Sez. U, Impregilo – Fisia Italimpianti, già citata), “la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato – presupposto, i cui effetti – appunto economici – sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire un profitto geneticamente illecito”.
La qualificazione della confisca come sanzione principale è certamente innovativa, dal momento che nel nostro sistema ordinamentale era stata, e lo è tuttora, variamente qualificata.
Se il codice Zanardelli, infatti, la elencava tra gli “effetti penali della condanna”, il codice Rocco la cataloga, con la previsione dell’art. 240 c.p., tra le misure di sicurezza patrimoniali, e la fonda, come precisato dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 1 del 22/01/1983, Costa) sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati.
Successivamente sono state introdotte nell’ordinamento ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato; e sempre con l’obiettivo di impedire che l’autore d
el reato potesse godere del profitto dello stesso il legislatore ha, poi, previsto numerose ipotesi di confisca per equivalente nei casi in cui non fosse possibile aggredire il profitto diretto del reato. La natura sostanzialmente sanzionatoria della confisca per equivalente risulta, quindi, evidente.
Va comunque detto che nello stesso testo legislativo sulla responsabilità degli enti la confisca assume funzioni diverse e, quindi, deve essere in diverso modo qualificata: se quella indicata dall’art. 9, comma 1 del citato decreto in relazione all’art. 19, si atteggia non solo per la espressione letterale usata dal legislatore, ma anche per la già descritta funzione sanzionatoria e specialpreventiva che alla stessa è demandata, come vera e propria sanzione amministrativa conseguente ad un reato, a quella prevista dall’art. 6, comma 5, del decreto in esame applicabile in ipotesi di assenza di responsabilità dell’ente, ad esempio, non può essere riconosciuta una funzione sanzionatoria proprio per la mancanza di responsabilità dell’ente.
4.2. L’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria.
E’, infatti, la legge che esplicitamente prevede che nei confronti dell’ente “è sempre disposta… la confisca del prezzo o del profitto del reato”; l’espressione letterale adoperata dal legislatore non si presta ad alcun equivoco: una volta accertato il reato presupposto e stabilita la responsabilità dell’ente, il giudice deve confiscare il prezzo e/o il profitto del reato.
D’altronde una tale soluzione discende dai principi generali, nel senso che una volta accertata la responsabilità di una persona per il reato contestatogli il giudice non può, nel nostro sistema penale – e la responsabilità degli enti è in buona sostanza modellata su quella penale – omettere di applicare la sanzione prevista dal codice o dalle leggi speciali, essendo la sua discrezionalità limitata alla sola misura della sanzione da infliggere al colpevole.
Del resto non conviene insistere sul punto perchè dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere l’obbligatorietà della sanzione della confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, quando sia stata accertata la responsabilità dell’ente.
4.3. Qualche incertezza si è avuta soltanto per la ipotesi prevista dal più volte citato art. 19, comma 2, ovvero per la confisca di valore equivalente al prezzo o al profitto quando non sia possibile eseguire la confisca del profitto immediato.
La disposizione, che riproduce analoghe forme di confisca per valore introdotte nel nostro sistema per i reati contro la pubblica amministrazione – art. 322 ter c.p., – e per i delitti di truffa in danno dello Stato o di altri enti pubblici – art. 644 quater c.p. – (Sez. 6, n. 19051 del 10/01/2013, Curatela fall. Soc. Tecno Hospital, Rv 255255 ha sottolineato la perfetta omogeneità funzionale tra la confisca per equivalente contra societatem e quelle previste dal codice penale dagli artt. 322 ter, 640 quater e 644 c.p.), prevede senz’altro una ipotesi di confisca obbligatoria, come chiarito dalla giurisprudenza maggioritaria di legittimità e dalla unanime dottrina, fatta salva una opinione contraria.
L’equivoco è stato introdotto, come si è già notato, da una sentenza (Sez. 5, n. 33425 del 08/07/2008, Fazzalari), che per giustificare, o meglio nel tentativo di rinvenire un fondamento normativo alla ritenuta necessità di un raffronto tra le esigenze sanzionatorie e quelle dei creditori in ipotesi che i beni da sottoporre a sequestro facessero parte della massa attiva di una procedura concorsuale, ha ritenuto che il termine “può”, utilizzato dal legislatore all’art. 19, comma 2, Decreto n. 231 del 2001, stesse ad indicare la facoltatività della confisca di valore da tale norma prevista.
L’interpretazione della sentenza Fazzalari non appare corretta perchè, sotto il profilo lessicale il termine “può”, come è già stato posto in evidenza, segnala, non la facoltatività o la discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile.
Inoltre, sotto un profilo sistematico, proprio la confisca di valore ha chiari connotati sanzionatori, cosicchè sarebbe davvero singolare che alla affermazione di responsabilità dell’ente non seguisse, come doveroso, la prevista sanzione; la finalità del legislatore è, invero, quella di ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato, finalità che verrebbe frustrata dall’interpretazione in discussione, risultando favoriti gli enti più capaci di alienare e/o dissimulare i beni, e comunque, ì proventi illecitamente acquisiti.
Per concludere sul punto si deve, pertanto, ritenere che sia la confisca prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 1, sia quella di valore prevista dal comma 2, dello stesso articolo siano vere e proprie sanzioni principali ed obbligatorie (vedi sul punto, tra le tante, Sez. 6, n. 14973 del 18/03/2009, Azzano, Rv 243507;
Da tutte le precedenti considerazioni segue l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
“il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19”.
“La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare”.
11. Le conclusioni raggiunte impongono, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi e la condanna delle ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali.
Si omette la condanna delle ricorrenti al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, tenuto conto della particolarità delle questioni e della peculiare novità della decisione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7392 del 19.02.2015

Sussiste la fattispecie di “disturbo alle occupazioni ed al riposo delle persone” di cui all’art. 659 c.p., se i rumori abbiano una tale intensità da arrecare disturbo ad una pluralità di persone.
Tale principio è stato enunciato dalla Suprema Corte relativamente al ricorso presentato dai proprietari di un cane, avverso la pronuncia con cui il Tribunale li aveva condannati ex art. 659 c.p., per non aver impedito il continuo abbaiare del loro animale.
Lamentavano i ricorrenti, appellandosi al principio della plurioffensività della condotta, come invece, nel caso in questione, ad essere disturbati fossero stati solo i vicini denuncianti, considerato che non esisteva altro nucleo abitativo nei pressi.
In proposito la Cassazione, concordando con l’interpretazione del ricorrente, ha puntualizzato come la rilevanza penale della condotta produttiva dei rumori, censurati come forma di disturbo alle occupazioni ed al riposo delle persone, richieda l’incidenza sulla quiete pubblica, quale interesse che il legislatore intende qui tutelare.
Sicché i rumori e schiamazzi devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare.

Corte di Cassazione, sentenza n. 8170 del 24.02.2015

Commette reato di truffa aggravata e non di estorsione, colui che, al fine di trarre un ingiusto profitto, si spaccia per facente parte dell’Amministrazione finanziaria e induce il titolare di un’attività commerciale a consegnargli una somma di denaro, dietro minaccia di sottoporlo ad accertamento fiscale.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, 2^ Sez. Penale, con la sentenza in oggetto, rigettando le ragioni addotte dall’imputato avverso la sua condanna per il reato di cui all’art. 629 c.p..
Il ricorrente, in particolare, era stato condannato per aver indotto un commerciante – attribuendosi il falso
stato di appartenenza all’Agenzia delle Entrate ed esibendo gli appositi distintivi – a farsi consegnare una determinata somma di denaro, minacciandolo, ove non avesse provveduto, di un imminente accertamento fiscale nei confronti della sua attività.
La Corte di Cassazione, annullando con rinvio la statuizione del provvedimento impugnato circa la qualificazione dei fatti contestati, ha ritenuto sussistere, nella fattispecie, il reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 c.p..

Corte di Cassazione, sentenza n. 5735 del 9.2.2015

Nell’esercizio di professioni rumorose, il mero superamento dei limiti di emissione fissati, si configura come illecito amministrativo di cui alla legge 447/95, mentre integra la contravvenzione penale di cui all’art. 659 comma 1 c.p., lo svolgimento delle attività, in modo tale da turbare la pubblica quiete.
E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in rigetto del ricorso presentato dal gestore di una discoteca, condannato, a seguito di giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 659 comma 1 c.p..
Il ricorrente lamentava un’arbitraria riqualificazione dei fatti contestati, ricondotti, nell’imputazione originaria, nella fattispecie di cui al comma 2 medesimo art. 659 c.p..
Con la pronuncia in esame, la Cassazione ha pertanto colto l’occasione per delineare in maniera più puntuale, previo ampio excursus normativo e giurisprudenziale, l’ambito di applicazione di ipotesi sanzionatorie aventi presupposti simili.
Ha stabilito, in particolare, la Suprema Corte che, con riferimento a mestieri o attività rumorosi, si configura il solo illecito amministrativo ex art. 10 legge 447/95, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione dalla medesima legge fissati.
Quando invece la condotta si concreti nella violazione di disposizioni e prescrizioni dettate dalle competenti autorità, sarà configurabile la contravvenzione sanzionata dall’art. 659 comma 2 c.p.
Infine, nel caso in cui il mestiere si svolga eccedendo le normali modalità di esercizio, in modo da turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1 c.p.
Nel caso di specie la Cassazione, dapprima escludendo la configurabilità del suddetto illecito amministrativo, ha riscontrato come l’attività di discoteca avvenisse spesso sino a tarda notte, ovvero ben oltre l’orario di cui all’autorizzazione amministrativa, in modo da arrecare turbamento al riposo ed alle occupazioni delle persone.

Corte di Cassazione, sentenza n. 6075 del 10.02.2015

Il primario può incorrere nel reato di “rifiuto di atti urgenti” di cui all’art. 328 co. 1 c.p., se non provvede alla esatta formazione della cartella clinica, di cui è tenuto ad accertare completezza.
E’ quanto ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in parziale accoglimento del ricorso presentato dal responsabile di un reparto sanitario, condannato ex art. 328 co. 1 c.p., per aver omesso la compilazione di un rilevante numero di cartelle cliniche.
Con la pronuncia in esame, la Cassazione ha confermato innanzitutto la qualificazione giuridica dei fatti contestati, pacificamente integranti la fattispecie di cui all’art. 328 c.p. (per cui ha tuttavia dichiarato l’intervenuta prescrizione).
Ciò, in considerazione della natura di atto pubblico della cartella clinica e della circostanza che la responsabilità della sua definitiva ed ufficiale formazione è rimessa al responsabile del reparto e nella specie, al primario, quale pubblico ufficiale tenuto, con la sua sottoscrizione, ad accertane la completezza e regolarità.
La Suprema Corte ha poi sottolineato la rilevanza della cartella clinica, avente la fondamentale funzione di ricostruire ex post, l’appropriatezza degli interventi effettuati sul paziente.
E’ dunque finalizzata a garantire il diritto alla salute nella sua accezione più ampia, inteso anche come dovere informativo nei confronti del paziente, circa quanto effettivamente eseguitogli e somministratogli durante il ricovero.

Corte di Cassazione, sentenza n. 4949 del 03.02.2015

Il controllo sulla legittimità formale dei provvedimenti del Questore limitativi della responsabilità personale, si esaurisce con la convalida da parte del Gip, di modo che non possono più trovare accoglimento eventuali eccezioni di legittimità, proposte successivamente alla convalida medesima
E’ quanto ha disposto la Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto, rigettando il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello con cui veniva affermata la condanna penale di un soggetto, per non aver ottemperato ad un provvedimento del Questore, impositivo dell’obbligo di presenziare presso il Comando dei Carabinieri, in occasione di competizioni calcistiche.
Nella sentenza in esame, la Cassazione ha motivato il proprio rigetto, adducendo che, superata la necessaria fase di convalida giurisdizionale del provvedimento amministrativo dinnanzi al Gip, non sono più proponibili – come invece è avvenuto nel caso di specie – ulteriori eccezioni relative alla legittimità del provvedimento medesimo.
Ha specificato infatti la Suprema Corte, che in tema di reati concernenti l’inosservanza dei provvedimenti del Questore, impositivi del divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive e dell’obbligo di comparizione presso un ufficio di polizia durante le manifestazioni medesime, il controllo sulla legittimità formale di essi, si esaurisce nella fase della convalida da parte del Gip.
Conseguentemente, l’omessa presentazione in tale sede, delle eccezioni relative alla legittimità del provvedimento di specie, o il rigetto delle stesse da parte del giudice e, poi, eventualmente, dalla Corte di Cassazione, attribuisce al provvedimento amministrativo convalidato, una sorta di giudicato interno, non più censurabile in sede cognitiva.

Corte di Cassazione, sentenza n. 5315 del 04.02.2015

E’ violazione di domicilio se il marito, pur se inizialmente introdottosi nell’abitazione della ex moglie con il consenso di questa, vi rimanga, nonostante poi la donna lo abbia ripetutamente intimato ad allontanarsi.
La rilevanza penale della condotta non è esclusa, se i fatti sono stati principalmente ricostruiti in base alle dichiarazioni della “persona offesa”.
E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto, con cui è stato rigettato il ricorso dell’imputato avverso la pronuncia di condanna per il reato di violazione di domicilio.
Quest’ultimo censurava, in particolar modo, la ricostruzione e la valutazione dei fatti di reato, effettuata quasi esclusivamente in base alle dichiarazioni rese dalla ex moglie, e dunque, a suo dire, in modo tale da inficiare la ragionevolezza della decisione impugnata.
Invero, la Cassazione, nella sentenza in esame, ha stabilito come le dichiarazioni rese dalla “persona offesa” dal reato, non siano affatto dotate di “affidabilità ridotta”.
Necessitano in ogni caso di un controllo circa le capacità percettive e mnemoniche del dichiarante e circa la corrispondenza al vero dei fatti dichiarati, desumibile dalla linearità logica della esposizione; controllo che nella fattispecie, è stato effettuato in maniera esaustiva.
Sarebbe dunque emerso, dalle testimonianza della ex moglie, così come anche confermata dal carabiniere, che il marito, pur se introdottosi nell’abitazione con il consenso della donna, vi sarebbe poi rimasto contro la sua volontà.
A detta della Suprema Corte, la condotta integra pienamente la fattispecie della violazione di domicilio, essendosi il marito allontanato dalla suddetta abitazione solo a seguito dell’intervento coercitivo della polizia.

Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 4909 del 2.2.2015

L’impossibilità assoluta a comparire da parte del difensore per un impegno professionale in altro procedimento, può costituire, a determinate condizioni, un “impedimento legittimo”, anche ai fini
del congelamento dei termini di prescrizione di un reato.
E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, con sentenza n. 4909 depositata il 2 febbraio 2015, in parziale annullamento della pronuncia impugnata.
La vicenda in questione, riguarda una richiesta di improcedibilità per il reato di diffamazione, per intervenuta prescrizione dello stesso.
La Corte d’Appello escludeva, dapprima, che fosse maturato il termine di prescrizione, in quanto i numerosi rinvii richiesti ed ottenuti dalla difesa dell’imputato, lo avevano fatto slittare di ben sette mesi.
Eccepiva tuttavia, il ricorrente, come tale slittamento dovesse essere piuttosto ridotto a soli 147 giorni, poiché alcuni degli ottenuti rinvii erano dovuti a legittimo impedimento della difesa, costretta a presenziare ad altri procedimenti.
Si è pertanto prospettato dinnanzi alle Sezioni Unite penali, il seguente quesito: “Se ai fini della sospensione del corso della prescrizione del reato, il contemporaneo impegno professionale del difensore in altro procedimento, possa integrare un caso di “impedimento”, con conseguente congelamento del termine fino ad un massimo di sessanta giorni dalla sua cessazione”.
La Cassazione ha risposto affermativamente, specificando tuttavia che, affinché l’impedimento del difensore possa considerarsi legittimo ex art. 420 ter, comma 5, devono ricorrere alcune condizioni, da valutarsi da parte del giudice del rinvio.
Innanzitutto il difensore è tenuto a prospettare tempestivamente l’impedimento, appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni.
Deve inoltre indicare specificatamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione in un diverso processo e rappresentare l’assenza, in detto procedimento, di altro difensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare, sia a quello di cui chiede il rinvio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 3789 del 27.01.2015

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, IV sezione penale, con sentenza n. 3789 depositata il 27 gennaio 2015, rigettando il ricorso di un’azienda che commercializzava scarpe recanti la dicitura “made in Italy”.
Le stesse venivano infatti progettate e prodotte in Italia, fatta eccezione per l’ultima parte della lavorazione, ovvero l’assemblaggio e cucitura dei pezzi, la quale veniva affidata ad altra società avente sede in Romania.
Ha affermato la Cassazione con la pronuncia in esame, come in tal caso debba considerarsi vietata l’etichettatura “made in Italy” nel prodotto in questione, in quanto tale da indurre in errore circa l’effettiva origine, provenienza e qualità dello stesso.
L’acquirente, infatti, sarebbe in tal modo portato a ritenere che la scarpa sia stata interamente concepita e fabbricata in Italia.
Eppure la fase di lavorazione compiuta all’estero – a detta della Cassazione – non è un segmento del ciclo produttivo di trascurabile rilievo, poiché, trattandosi di cucitura ed assemblaggio, è volta a conferire robustezza e stabilità alla scarpa e pertanto, a garantirne la qualità quale requisito essenziale per il compratore.

Corte di Cassazione, sentenza n. 2502 del 21.01.2015

Il reato di maltrattamenti in famiglia non implica necessariamente quello di violenza sessuale, non essendo quest’ultimo il naturale sbocco del primo.
E’ quanto ha sostenuto la Suprema Corte con la senenza in oggetto, con cui è stata riformata la pronuncia della Corte d’Appello limitatamente alla condanna dell’imputato per il reato di violenza sessuale.
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, le dichiarazioni rese dalla moglie, persona offesa, circa le vessazioni subite dal marito ed integranti il reato di maltrattamenti, hanno effettivamente trovato un riscontro nelle numerose e convergenti dichiarazioni testimoniali nonché nelle certificazioni mediche.
La stessa cosa non può dirsi, tuttavia, per quanto concerne la condotta integrante la violenza sessuale.
La Corte d’Appello – a detta della Cassazione – ha errato nel postulare, pur in assenza di un concreto supporto argomentativo, che il naturale sbocco dei maltrattamenti in famiglia sia necessariamente la violenza sessuale ai danni di taluno dei componenti del nucleo familiare.
Non può infatti presumersi l’esistenza di un reato, per il solo fatto che ne è stato commesso un altro, per di più neppure legato al precedente da un apprezzabile vincolo di progressione criminosa.
I reati in questione, tra l’altro, hanno modalità di condotta non necessariamente interferenti ed interessi tutelati non coincidenti tra loro.

Corte di Cassazione, sentenza n. 856 del 12.01.2015

La Suprema Corte con la pronuncia in oggetto ha disposto la disapplicazione del foglio di via adottato dalla Questura a carico di una donna esercente la professione di prostituta.
In particolare, la Cassazione ha ritenuto il presente provvedimento amministrativo illegittimo in quanto esclusivamente disposto sul presupposto dell’esercizio della prostituzione.
Viceversa, secondo i giudici di legittimità, il medesimo avrebbe dovuto basarsi su elementi concreti di fatto da cui dedurre che il soggetto interessato fosse dedito alla commissione di reati che offendono e mettono in pericolo l’integrità fisica e morale dei minorenni, la sanità e sicurezza pubblica, ai sensi della Legge 1423/1956.
Nel provvedimento in contestazione tuttavia non si faceva riferimento ad alcuna fattispecie di reato che giustificasse tale pericolosità sociale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 846 del 12.01.2015

E’ il principio enunciato dalla Suprema Corte, prima sezione penale, con la sentenza n. 846 del 12 gennaio 2015.
La pronuncia in questione prende le mosse dalla vicenda di uomo processato per aver incendiato lo studio professionale di un avvocato, che riteneva responsabile di avergli creato problemi nella realizzazione di alcuni reati edilizi.
In prima battuta, il Tribunale aveva respinto la domanda risarcitoria presentata dall’Ordine professionale degli avvocati, asserendo che la sua legittimazione ad agire quale parte civile sarebbe potuta sussistere solo nel caso in cui, dal reato, fosse derivato un danno patrimoniale proprio di detto Ordine, non anche quando si trattasse di difendere, come nel caso in esame, gli interessi morali della categoria.
In sede di appello e, da ultimo, con la sentenza della Cassazione qui in esame, tale posizione è stata tuttavia ribaltata e, conseguentemente, è stato disposto il risarcimento del danno anche in favore dell’Ordine professionale, poiché gravemente danneggiato dal reato contestato.
Ha stabilito, in proposito, la Cassazione la piena legittimità ad agire degli Enti in generale, tutte le volte che, come nel caso di specie, per il loro sviluppo storico, per l’attività concretamente svolta e per la posizione assunta, facciano proprio, quale fine primario, quello di tutelare gli interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo dallo specifico reato considerato.
In particolare, la legittimazione dell’Ordine degli avvocati – a detta della Cassazione – derivava direttamente dall’art. 24 Cost. che sancisce l’inviolabilità del diritto di difesa, cui si correla direttamente la libertà nell’esercizio del mandato difensivo.
Ed, infatti, un difensore minacciato o intimidito non avrebbe potuto garantire la pienezza della difesa dell’assistito.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27535 del 30.12.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che commette il reato di diffamazione colui che pubblica sul sito web un comunicato con cui si dia atto dell’apertura di un’indagine a carico di un soggetto, senza contestualmente comunicare il successivo proscioglimento dello stesso.
Né vale ad escludere la fattispecie di diffamazione, il fatto che la notizia circa la chiusura dell’indagine a favore dell’indagato, sia stata resa in altra area
tematica accessibile dallo stesso sito.
E’ necessario, infatti, che entrambe le notizie siano evidenziate nel medesimo contesto, ovvero, all’interno dello stesso comunicato.

Corte di Cassazione, sentenza n. 53850 del 30.12.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il legittimo impedimento che non permette la presenza fisica dell’arrestato all’udienza non è ostativo alla richiesta di convalida dell’arresto e contestuale giudizio direttismo.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza n. 52117 del 16.12.2014

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha precisato che commette il reato di tentato furto colui che ruba la merce in un supermercato, sotto il controllo di un addetto alla sicurezza che anziché intervenire durante la sottrazione dei prodotti interviene una volta che il ladro ha superato le casse.
Per la Corte in tale fattispecie il reato non si è consumato in quanto la marce non esce dalla sfera di controllo del proprietario ed il ladro non ne ha la piena disponibilità.

Corte di Cassazione, sentenza n. 49995 del 1.12.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che per la vendita di cibi scaduti non punibile il responsabile del punto vendita
Per la Corte il legale rappresentante od il gestore di una società è responsabile per le deficienze dell’organizzazione di impresa e per la mancata vigilanza sull’operato del personale dipendente, salvo che il fatto illecito non appartenga in via esclusiva ai compiti di un preposto, appositamente delegato a tali mansioni

Corte di Cassazione, sentenza n. 50379 del 02.12.2014

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che il giudice non può espellere lo straniero, condannato per spaccio di stupefacenti, se è padre di un bimbo di sei mesi.
La misura di sicurezza dell’espulsione, giustificata dalla pericolosità sociale dello straniero, dunque, cede il passo rispetto alla tutela della famiglia, della paternità e, in particolare, al principio della responsabilità genitoriale.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

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Lo Studio Legale Parenti raccoglie e seleziona quotidianamente per i suoi visitatori le Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito.

Corte di Cassazione, sentenza n. 50345 del 02.12.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che commette il reato di esercizio abusivo della professione l’avvocato che seppur ha
superato l’esame di stato autentichi la sottoscrizione del mandato difensivo prima di aver conseguito l’iscrizione all’Albo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 48663 del 24.11.2014

Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, di cui all’art. 316 ter c.p., la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia o maternità o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. (In applicazione del principio che precede, nel caso concreto deve escludersi che la condotta del datore di lavoro, come sopra configurata, possa inquadrarsi nella fattispecie criminosa di cui all’art. 10 quater, D.Lgs. n. 74 del 2000).

Corte di Cassazione, sentenza n. 48981 del 25.11.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non commette il reato di favoreggiamento alla prostituzione che pubbica sul proprio giornale inserzioni aventi ad oggetto prestazioni sessuali