Protezione internazionale solo se il richiedente provi lo stato di pericolo in patria

  • Categoria dell'articolo:Diritto Internazionale
  • Tempo di lettura:3 minuti di lettura

Il richiedente protezione internazionale, al fine di ottenere la stessa, deve dare la prova, che nel caso di rientro nel suo Paese di origine, egli sarebbe soggetto a gravi rischi per la propria incolumità. In assenza della suddetta prova, che si rende necessaria ai sensi dell’art. 2697 c.c., gli organi cui l’ordinamento devolve il suo esame, legittimamente provvedono alla reiezione dato il difetto dei presupposti previsti dalla normativa vigente al fine di concedere il diritto allo straniero di permanere nel territorio nazionale anche in assenza dei presupposti di legge.

È il caso di uno straniero, di un Paese esterno alla U.E., che presentava richiesta di protezione internazionale, ma tale domanda veniva rigettata da parte della commissione territoriale competente.
Il procedimento, proseguiva pertanto in sede giurisdizionale, con i medesimi esiti in quanto il Tribunale e la Corte d’Appello adita ritenevano la richiesta infondata data l’ assenza di prova circa i fatti rappresentati a suo fondamento, ed in particolare circa l’ asserita omosessualità del richiedente che lo avrebbe esposto nel suo Paese di origine a gravi rischi per la propria incolumità.
Lo straniero ricorreva allora per Cassazione, eccependo l’invalidità della sentenza di secondo grado e deduceva, in particolare, l’errata valutazione della normativa vigente da parte dei Giudici di merito. Il ricorrente nella propria tesi difensiva, deduceva nuovamente innanzi ai Giudici della Corte Suprema come un eventuale nuovo ingresso nel Paese di origine avrebbe determinato per lui un grave rischio, dato che il proprio orientamento sessuale era addirittura passibile di sanzioni penali.
Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso, veniva deciso da parte dei Giudici della Corte Suprema di Cassazione con ordinanza n. 15794/19.

La Corte di Cassazione esamina il caso di specie sulla base delle prospettazioni indicate nella tesi difensiva, limitate comunque a quelle già individuate in sede di merito.
L’unica prova effettivamente dedotta da parte del ricorrente si fondava sulla sua iscrizione ad un’associazione, il cui fine era quello di tutelare i diritti degli omosessuali, fatto che a suo avviso avrebbe reso palese il suo orientamento sessuale.
Nella motivazione dell’ordinanza in commento, i Giudici di legittimità giungono ad altre conclusioni rispetto a quelle sostenute dal ricorrente, sulla base di un’analisi della normativa vigente relativa ai presupposti per la concessione di un provvedimento di protezione internazionale.
In particolare gli Ermellini esaminano i fatti dedotti a sostegno della richiesta, verificando come gli stessi erano sostanzialmente fondati sulle semplici affermazioni del ricorrente ma del tutto privi di prove a loro sostegno.
Sul punto, osservano i Giudici della Corte Suprema, che è onere del ricorrente provare tutti gli elementi a sostegno della propria tesi e tutti gli aspetti fondamentali della stessa.
Tale onere discende dalla previsione di una norma di carattere generale ed in particolare dell’art. 2697 c.c. che, data la sua natura di disposizione di natura generale, riguarda altresì le domande di richiesta di protezione internazionale. Pertanto, ove si possa ritenere accoglibile una istanza di tale tipo deve venire raggiunta la certezza che il ricorrente nel proprio Paese di origine sarebbe stato oggetto di gravi persecuzioni tali da metterne a serio rischio l’incolumità.
I Giudici della Cassazione osservano come la semplice iscrizione ad un ente associativo non fosse di per sé idonea a provare in maniera indiscussa l’orientamento sessuale del ricorrente, il quale addirittura avrebbe potuto compiere l’adesione al sodalizio associativo al solo fine di precostituire la prova di un fatto in realtà inesistente.
Il ricorso veniva pertanto rigettato data la mancanza di prove a sostegno della tesi difensiva del ricorrente.