La Corte di Cassazione con la sentenza n. 30673 del 2018 torna a pronunciarsi in tema di mobbing, confermando il proprio indirizzo secondo cui grava sul lavoratore l’onere di provare l’intento persecutorio del datore di lavoro. Ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante deve essere ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì dell’intento persecutorio che li unifica.
Nella sentenza in esame, la Corte conferma il proprio orientamento già espresso nella sentenza n. 21328 del 2017, nella quale aveva affrontato il caso di un medico della ASL, il quale lamentava di essere stato oggetto di condotta vessatoria produttiva di danno da parte del proprio datore di lavoro, consistita nella disattivazione del reparto di cardiologia presso il nosocomio ove svolgeva le sue funzioni e nella mancata assegnazione dell’incarico equivalente di primario presso altro ospedale.
La Corte d’Appello aveva respinto la domanda, evidenziando che il ricorrente, nel chiedere il risarcimento dei danni subiti a seguito della condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dalla ASL, non aveva allegato che i comportamenti fossero collegati da un programmato disegno attuato allo scopo di mortificarne la personalità e la professionalità. Il medico ricorreva dunque in Cassazione, censurando la pronuncia di secondo grado laddove aveva escluso la fondatezza della domanda per un preteso difetto di allegazione.
Gli Ermellini, confermando le statuizioni della Corte territoriale, hanno respinto il ricorso proposto dal medico, ritenendo che il mobbing richiede:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. n. 2147/2017; n. 2142/2017; n. 24029/2016; n.17698/2014)”.
Non è dunque sufficiente – secondo i Giudici di legittimità – fare leva sugli aspetti oggettivi della condotta complessivamente considerata, essendo indispensabile l’elemento soggettivo unificante la pluralità dei comportamenti, ed ossia l’intento persecutorio, il cui onere probatorio incombe sul lavoratore e senza la cui prova, la domanda non può che essere rigettata.