Dichiarazione dell'illegittimità del licenziamento

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Cassazione civile sez. I sentenza 26/10/2015 n.21711

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione, notificato in data 14-10-2005, B. F. conveniva davanti al Tribunale di Orvieto Banca INTESA S.p.A. chiedendo dichiararsi la nullità, annullabilità o risoluzione per inadempimento del contratto quadro e degli ordini di acquisto di azioni argentine effettuate tra il 1998 e il 2000, con condanne alle restituzioni e al risarcimento dei danni. Lamentava gravi violazioni di legge da parte della banca, in particolare collegate alla mancanza o insufficienza di informazioni.
Costituitosi il contraddittorio, la banca chiedeva rigettarsi ogni domanda contro di lei proposta e instava per la chiamata in causa di B.S., essendo le azioni a lui cointestate.
Si costituiva il terzo chiamato, B.S., nipote dell’attore, e aderiva in sostanza alle domande dell’attore stesso.
Il Tribunale di Orvieto, con sentenza in data 3-12-2007, accoglieva le domande.
Proponeva appello Banca INTESA. Si costituivano entrambe le parti appellate, chiedendone il rigetto.
La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza in data 6/7/2011, in accoglimento dell’appello e in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava le domande delle parti appellate.
Ricorre per cassazione B.F..
Propone ricorso incidentale B.S..
Resiste al ricorso principale e a quello incidentale, con due controricorsi, INTESA Sanpaolo S.p.A., successore di Banca INTESA. Il ricorrente principale deposita memoria difensiva.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell’art. 1218, 1453 e 2697 c.c., sull’onere della prova, in ordine alla risoluzione per inadempimento contrattuale.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c. circa le domande di risoluzione contrattuale e condanna alle restituzioni, in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Con il terzo, vizio di motivazione in relazione, ancora, alle domande di risoluzione contrattuale. Con il quarto, violazione dell’art. 345 c.p.c., con riguardo, al preteso nesso causale tra la violazione ex art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 Reg. Consob 11522/98 e il danno lamentato (novità della domanda proposta).
Con il quinto, vizio di motivazione circa l’insussistenza del nesso causale fra l’omessa informazione di inadeguatezza al cliente e il danno subito.
Con il sesto, violazione dell’art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 predetto Regolamento Consob, là dove il Giudice a quo ha ritenuto che l’odierno ricorrente fosse stato adeguatamente informato, chiedendo comunque di procedere all’investimento.
Con il settimo, vizio di motivazione circa vari punti decisivi della controversia, sull’inadeguatezza dell’informazione, sul consenso del cliente, anche con riferimento alla circostanza della falsità di firma di alcuni ordini.
Con l’ottavo, violazione dell’art. 21 T.U.F. e dell’art. 27 predetto Regolamento, in ordine alla raccolta di informazioni sullo stato del cliente.
Con il nono, vizio di motivazioni con riferimento al conflitto di interessi della banca, che aveva alienato al B. titoli di sua proprietà.
Con il decimo, violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla domanda di nullità degli ordini di acquisto, già formulata in primo grado, su cui vi era stata omessa pronuncia.
Il ricorso incidentale presenta ampie analogie rispetto a quello principale.
Con il primo motivo, il ricorrente incidentale lamenta violazione degli artt. 1218, 1453 e 2697 c.c., con riferimento alla domanda di risoluzione contrattuale.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c., circa il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Con il terzo,vizio di motivazione in relazione alla domanda di risoluzione contrattuale.
Con il quarto, vizio di motivazione circa l’insussistenza del nesso causale tra l’omessa informazione al cliente e il danno subito.
Con il quinto, violazione dell’art. 21 T.U.F., artt. 28 e 29 Regolamento Consob 11522/98, con riguardo all’affermazione del Giudice a quo per cui B.F. era stato adeguatamente informato, chiedendo comunque di procedere all’investimento.
Con il sesto, vizio di motivazione circa vari fatti decisivi della controversia, sull’inadeguatezza dell’informazione, sul consenso del cliente, anche con riferimento alla circostanza della falsità di firma di alcuni ordini.
Con il settimo, vizio di motivazione, con riferimento al conflitto di interessi della banca, che aveva alienato titoli di sua proprietà.
Preliminarmente, va precisato che i rapporti in questione si sono svolti sotto l’impero del D.Lgs. n. 58 del 1998 (T.U.F.) e del Regolamento Consob 11522 del 1998.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata (tra le altre, Cass. n. 3773 del 2009), in materia di contratti di intermediazione finanziaria, ove risulti accertata la responsabilità contrattuale per danni subiti dall’investitore, va acclarato se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni del contratto di negoziazione, nonchè a tutte le obbligazioni poste a suo carico dai predetti testi normativi, così disciplinando il riparto dell’onere della prova: l’investitore deve allegare l’inadempimento delle obbligazioni, nonchè fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra esso e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, deve provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito con la specifica diligenza richiesta.
Non può parlarsi di inammissibilità dei ricorsi, come afferma la controricorrente: i documenti su cui essi si fondano sono indicati ed ampiamente richiamati, e talora (così nel ricorso principale, in un caso) addirittura riprodotti integralmente.
Possono trattarsi congiuntamente, per gran parte, i motivi proposti nei due ricorsi, frequentemente coincidenti.
I primi tre motivi del ricorso principale e di quello incidentale, vanno rigettati in quanto infondati, pur presentando alcuni profili di inammissibilità.
Com’è noto, per giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. S.U. n. 26794 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), la violazione dei doveri di informazione e di corretta esecuzione delle operazioni poste dalla legge a carico degli intermediari, non produce nullità, ma da luogo a responsabilità, precontrattuale in ordine al contratto – quadro, ovvero responsabilità contrattuale per i successivi ordini di acquisto, con eventuale risoluzione e/o risarcimento del danno.
Risoluzione, la cui azione l’altro, ha presupposti differenti rispetto alla mera azione di risarcimento dei danni (primo, tra tutti, quello dell’importanza dell’inadempimento cui i ricorrenti non fanno specifico riferimento); del resto non sempre e comunque alla risoluzione consegue una totale restituzione, come sembrano invece ritenere i ricorrenti stessi.
I motivi (in particolare il secondo e terzo) sono, come si diceva, almeno in parte non autosufficienti: i ricorrenti censurano il mancato esame della domanda di risoluzione, lamentando violazione dell’art. 112 c.p.c., e carenza di motivazione, senza indicare le argomentazioni in fatto e diritto eventualmente sviluppate al riguardo.
Come si vedrà, nella maggior parte dei motivi che seguono i ricorrenti sembrano “dimenticare” la domanda di risoluzione (e restituzione), soffermandosi invece sugli inadempimenti, sul danno, sul nesso eziologico e sull’onere della prova.
Appare infondato il quarto motivo del ricorso principale.
La controricorrente, al riguardo, precisa che, fin dal primo grado, essa aveva affermato l’insussistenza del nesso eziologico tra inadempimento e danno, e, in omaggio al principio di autosufficienza, indica le pagine della memoria di replica e comparsa conclusionale in primo grado. In effetti dall’esame di tali documenti, che questa Corte può effettuare, trattandosi di questione processuale, emerge che, nel primo si fa esplicito riferimento al predetto profilo, sviluppato poi nel secondo.
Quanto al deci
mo motivo del ricorso principale, da trattarsi a questo punto, per ragioni sistematiche, non si ravvisa il lamentato vizio di omessa pronuncia: il ricorrente principale richiama le proprie conclusioni in sede di appello incidentale, con la domanda di nullità del contratto quadro e dei singoli ordini di acquisto, ma riguardo alle violazioni di legge, e non con riferimento alla violazione di una clausola contrattuale. Nella comparsa di risposta, con appello incidentale, si fa bensì un limitato accenno alla forma contrattuale ma senza riferimento alcuno a clausole contrattuali.
Pertanto il giudice a quo non poteva pronunciarsi su quanto non era stato specificamente indicato.
Gli altri motivi dei due ricorsi appaiono fondati.
I ricorrenti, come si diceva, sembrano a questo punto riferirsi ad un’azione di risarcimento del danno per inadempimento, richiamando correttamente le specificità della fattispecie e la normativa di riferimento, già sopra indicata, incidente, all’evidenza, e come già si precisato, anche sull’onere della prova.
La Corte territoriale si riferiva esattamente alle indicazioni di questa Corte già sopra indicate, in ordine all’inadempimento, al danno, al nesso di causalità e relativo onere della prova, ma non ne traeva le necessarie conseguenze in ordine alla fattispecie dedotta.
Pare opportuno evidenziare il contesto di fatto, pacifico tra le parti: nove ordini di acquisto, di cui sette a firma apocrifa, due soltanto a doppia firma del ricorrente principale circa l’ordine di effettuare investimento e l’inadeguatezza delle obbligazioni, uno non prodotto dalla banca. Si ravvisano gravi violazioni di legge e altrettanti vizi di motivazione.
Non poteva la Corte d’Appello ritenere insussistente il nesso causale tra l’informativa di inadeguatezza al cliente e il danno da lui subito, nella considerazione del tutto illogica che egli, avendo preso consapevolezza dell’inadeguatezza dell’operazione, con riferimento agli ultimi due ordini, e comunque preferito investire ancora, piuttosto che disinvestire gli ordini precedenti, avrebbe manifestato la volontà di perseguire alti interessi, pure a rischio di subire la perdita del capitale. Ovviamente il disinvestimento non prova nulla, potendo tale scelta essere influenzata da molteplici fattori; nè potrebbe escludersi che l’investitore, non avendo ricevuto adeguata informativa, sia stato indotto a sottoscrivere anche gli ultimi due ordini, confidando nella bontà dell’investimento. Del resto, appare pacifico che l’attore provenisse da forme di investimento sicure e senza rischio, per cui il suo profilo appariva più volto alla conservazione del capitale che alla speculazione, come precisato dai ricorrenti.
Com’è noto, l’art. 21 T.U.F., in materia di prestazione di servizi di investimento, detta una serie di criteri generali cui l’intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente: egli deve acquisire le informazioni necessarie dal cliente stesso ed operare in modo che questi sia adeguatamente informato: tali obblighi sono specificati dagli artt. 28 e 29 Reg. Consob, per cui l’intermediario deve avere informazioni dal cliente stesso sulla sua tipologia di investitore, sulla situazione finanziaria, sugli obiettivi di investimento e sulla sua propensione al rischio; in caso di operazione ritenuta inadeguata, egli deve informare specificamente il cliente delle ragioni, per cui non è opportuno procedere e, ove questi, intenda comunque dar corso all’operazione, eseguirla soltanto su ordine scritto. Tali obblighi, per l’intermediario, si collocano sia al momento della stipulazione del contratto, sia all’atto di effettuare i singoli investimenti. Egli deve pertanto disporre di informazioni aggiornate, in relazione ad ogni singolo investimento da effettuare.
La Corte di merito ha accertato l’inadeguatezza degli investimenti, ma ha sostanzialmente ritenuto legittimi anche gli ordini apocrifi e quello non prodotto dalla banca, pure in assenza del consenso scritto del cliente, con riferimento al quale risultava all’evidenza accertato l’inadempimento della banca stessa.
Il Giudice a quo ha erroneamente ritenuto completa l’informazione data al cliente sugli ultimi due ordini, sulla base di una crocetta apposta su modulo prestampato e unico per tutte le tipologie di clientela, ove si indicava unitariamente l’inadeguatezza dell’operazione: il modulo viene riportato, in omaggio al principio di autosufficienza, nel ricorso principale. E’ appena il caso di precisare che l’informazione resa ad un cliente dotato di conoscenza e di esperienza degli strumenti finanziari, non può avere eguale efficacia rispetto ad un altro di modesta cultura ed esperienza.
Anche in ordine alla raccolta di informazioni sullo status del cliente, va precisato che, a differenza di quanto afferma la Corte d’Appello, l’obbligo della raccolta di informazioni non poteva esaurirsi nei limiti della situazione finanziaria del cliente all’atto della stipula del contratto quadro, ma sussisteva obbligo di continuo aggiornamento all’atto dell’effettuazione degli investimenti (e ciò pur con riferimento alla normativa in vigore all’epoca) (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 26724 del 2007).
Quanto al conflitto di interessi, l’argomentazione del giudice a quo appare del tutto inadeguata, là dove afferma che negli ordini era indicato il limite di prezzo con riferimento ai prezzi praticati nelle transazioni, e da ciò fa derivare la proprietà dei titoli in capo alla banca, null’altro aggiungendo.
Accolti i motivi suindicati, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Firenze, territorialmente prossima a quella di Perugia, per nuova valutazione degli inadempimenti e del danno, precisando che questo, ovviamente, può considerarsi oltre che attraverso prove specifiche pure con riguardo a presunzioni o ad eventuali ammissioni della controparte.
Il giudice a quo si pronuncerà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla corte di Appello di Firenze.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 22/10/2015 n.21499

Una volta cessata l’aspettativa sindacale e riattivato l’originario rapporto di lavoro, l’assenza del lavoratore, che dipenda dall’evento che ha dato luogo all’infortunio sul lavoro nel periodo di aspettativa sindacale, non può che essere imputata, rispetto all’originario datore di lavoro, ad un’attività extralavorativa, in quanto non riconducibile al rapporto di lavoro originario, ciò perché durante l’aspettativa sindacale il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione; infatti, l’organizzazione sindacale, in quanto beneficiaria della prestazione di cosiddetto lavoro sindacale, è tenuta a corrispondere all’INAIL il premio assicurativo computato sull’indennità erogata al lavoratore sindacalista.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 20/10/2015 n.21225

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con sentenza depositata in data 14 luglio 2010 la Corte d’appello di Napoli, in parziale accoglimento dell’appello proposto da I. L., lavoratore dipendente del Comune di Afragola con la qualifica e le mansioni di custode, condannava il Comune al pagamento in suo favore della somma di Euro 6.123,97, oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli crediti sino all’effettivo pagamento.
2. La Corte osservava che non vi era contestazione sul fatto che il dipendente avesse svolto attività di custodia in favore del Comune nelle domeniche e nei giorni festivi e che non avesse goduto dei riposi compensativi. Riteneva che, ai sensi del D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, art. 17, relativo alla disciplina del comparto degli enti locali, al lavoratore spettava la maggiorazione del 20% sul lavoro domenicale svolto, nonchè la retribuzione per i giorni di riposo compensativo non fruiti; che, nel regolamentare la remunerazione della giornata destinata al riposo settimanal
e con la retribuzione ordinaria unitamente alla maggiorazione del 20%, la norma assolveva unicamente ad una funzione retributivo-corrispettiva, e non anche risarcitoria, con la conseguenza che al lavoratore spettava la retribuzione per i riposi compensativi non fruiti, parametrati al lavoro svolto di domenica con la maggiorazione del 20%, nonchè il risarcimento del danno da usura psico-fisica per il mancato godimento dei riposi compensativi, che liquidava ex art. 1226 facendo ricorso all’importo della paga giornaliera, non contestata nella sua entità, per ogni giornata di riposo non goduta.
3. Contro la sentenza il Comune di Afragola propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, cui resiste con controricorso lo I..
4. Con il primo di ricorso il Comune censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., e D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, art. 17, nonchè per contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Reputa che l’assunto della Corte territoriale circa la natura non risarcitoria della maggiorazione sancita dall’art. 17, del D.P.R. citato non rispetta il dettato normativo e, comunque, non è stato adeguatamente motivato.
5. Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione delle medesime norme di diritto, cui aggiunge l’art. 36 Cost., e la contraddittorietà della motivazione, assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il danno alla salute derivante dalla mancata fruizione del riposo compensativo oltre il sesto giorno consecutivo di lavoro non ha necessità di essere provato.
6. Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c.), nonchè la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto non contestati i conteggi allegati dal lavoratore e sulla cui base ha determinato l’importo al cui pagamento l’ha condannato.
8. I primi due motivi, che si affrontano congiuntamente in quanto involgono la medesima questione della disciplina legale e contrattuale del riposo oltre il sesto giorno lavorativo, sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di ribadire che la fattispecie di prestazione di lavoro domenicale senza riposo compensativo non può essere equiparata a quella del riposo compensativo goduto oltre l’arco dei sette giorni, atteso che una cosa è la definitiva perdita del riposo agli effetti sia dell’obbligazione retribuiva che del risarcimento del danno per lesione di un diritto della persona, altra il semplice ritardo della pausa di riposo; e, in questa seconda ipotesi (ove non sia consentita, dalla legge e dal contratto, una deroga al principio che impone la concessione di un giorno di riposo dopo sei di lavoro), il compenso sarà dovuto a norma dell’art. 2126 c.c., comma 2, che espressamente gli attribuisce natura retribuiva, salvo restando il risarcimento del danno subito, per effetto del comportamento del datore di lavoro, a causa del pregiudizio del diritto alla salute o di altro diritto di natura personale (cfr. Cass., 26 novembre 2013, n. 26398, che richiama Cass., 3 luglio 2001, n. 9009).
9. Nello stesso solco, si è poi affermato che, in relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, va tenuto distinto il danno da “usura psicofisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima ipotesi, il danno sull'”an” deve ritenersi presunto e il risarcimento può essere determinato spontaneamente, in via transattiva, dal datore di lavoro con il consenso del lavoratore, mediante ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive; nella seconda ipotesi, invece, il danno alla salute o biologico, concretizzandosi in una infermità del lavoratore, non può essere ritenuto presuntivamente sussistente ma deve essere dimostrato sia nella sua sussistenza sia nel suo nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall’illecito contrattuale (Cass., 20 agosto 2004, n. 16398;
Cass., 16 gennaio 2004, n. 615; Cass., 3 aprile 2003, n. 5207; Cass., 4 marzo 2000, n. 2455; 3 luglio 2001, n. 9009; Cass., 12 marzo 1996, n. 2004).
10. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di questi principi, dal momento che ha riconosciuto la somma di Euro 2.824,23 non già a titolo di risarcimento del danno biologico o esistenziale, bensì a titolo di risarcimento del danno per la mancata fruizione dei riposi compensativi, dovendosi inoltre condividere l’affermazione secondo cui, per un verso, il riposo dopo sei giorni di lavoro consecutivo costituisce un diritto irrinunciabile del dipendente, garantito dall’art. 36 Cost., e dall’art. 2109 c.c., e, per altro verso, risponde ad una nozione di comune esperienza che l’attività lavorativa, come qualsiasi impegno delle energie psicofisiche, se protratta senza interruzioni, risulta via via più onerosa con il trascorrere delle giornate e il riposo che sopraggiunge dopo un arco di tempo più ampio rispetto alla normale cadenza settimanale non può, di per sè, compensare tale crescente disagio (in tal senso Cass., 30 maggio 2001, n. 7359).
11. Il terzo motivo è inammissibile. Premesso che la Corte ha ritenuto di liquidare il danno da mancata fruizione dei riposi compensativi usando come paramente la retribuzione giornaliera, ritenuta “non contestata”, era onere del ricorrente indicare con esattezza in che termini ed in quale atto difensivo o verbale di causa avrebbe contestato tale specifico dato – e non genericamente “in toto il prospetto contabile allegato al ricorso” -, precisando altresì dove l’atto o il verbale sarebbero attualmente rinvenibili nel presente giudizio. Con tali omissioni non risulta assolto il duplice onere imposto, a pena di inammissibilità del ricorso, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare esattamente in quale fase processuale ed in quale fascicolo si trovi l’atto in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (v. da ultimo, Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass., 7 febbraio 2011, n. 2966).
12. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese del presente giudizio, da distrarsi in favore del difensore dell’intimato, per la dichiarazione resa ex art. 93 c.p.c..
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali e altri accessori di legge, disponendone l’integrale distrazione in favore dell’avvocato Ferdinando Del Mondo, anticipatario.
Così deciso in Roma, il 10 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 14/10/2015 n.20685

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza n. 4113/06 depositata in data 23.12.06, il Tribunale di Milano, disattesa ogni altra domanda ed in accoglimento parziale delle domande della ricorrente L.A., dichiarava invalido il termine finale apposto al contratto di assunzione del 9.9.1998 e successivi; condannava la convenuta Rai a ripristinare il rapporto lavorativo con la L., in mansioni e con trattamento retributivo previsti per i giornalisti nonchè, per il periodo pregresso, al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio; condannava altresì la Rai a rimborsare alla ricorrente le spese di lite nella misura di 3/5.
In particolare la sentenza del Tribunale – con riferimento alla mancata qualificazione come atto risolutivo di ogni rapporto intercorso tra le parti della lettera del 6 giugno 2003 con cui la Rai aveva comunicato alla L. la cessazione anticipata del rapporto di lavoro a tempo determinato all’epoca in corso – rilevava che la sottoscrizione da parte della L. della lettera suddetta non aveva in alcun modo concretizzato nè una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nè un licenziamento non impugnato. Il giudice di primo grado aveva affermato che il solo fatto di avere sottoscritto per ricevuta e conoscenza la lettera di cessazione (unilateralmente determinata dalla Rai) anticipata soltanto rispetto alla data di scadenza massima possibile (ma non rispetto all’ipotesi, contrattualmente pure prevista, e invocata dalla Rai, di fine produzione) dell’ultimo contratto a termine non consentiva di desumere una chiara e inequivoca volontà della L. di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.
Inoltre il Tribunale riteneva che i termini apposti ai contratti a tempo determinato dal 9 settembre 1999 al 23 gennaio 2003 erano tutti invalidi, in base alla considerazione che l’attività prestata dalla L. e i programmi a cui essa aveva collaborato risultavano l’una e gli altri manifestamente privi dei requisiti necessari secondo la giurisprudenza di legittimità, ossia dei requisiti della temporaneità e della specificità.
Altresì il tribunale riconosceva alla ricorrente la qualifica di giornalista redattore sin dal contratto 9.9.1998 sulla base del presupposto che le mansioni svolte dalla stessa fossero quelle tipiche del giornalista.
Il tribunale poi – quanto a pregressi rapporti di lavoro a tempo determinato – riteneva valido il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in data 9 settembre 1998 con la previsione di una nuova assunzione a tempo determinato e con rinuncia della dipendente a ogni pretesa quanto agli intercorsi rapporti di lavoro precedenti.
2. Avverso tale pronuncia interponeva appello principale la Rai, deducendo diversi motivi di gravame e chiedendo, in parziale riforma della sentenza impugnata, di rigettare tutte le domande proposte dalla ricorrente nel ricorso di primo grado.
Si costituiva in giudizio l’appellata, la quale chiedeva di respingere l’appello e, in accoglimento dell’appello incidentale, di dichiarare nullo, annullabile ed illegittimo il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in data 9.9.1998, di dichiarare intercorso tra le parti, a far tempo dal 23.9.09, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di ordinare alla Rai di assumere la ricorrente con inquadramento come praticante giornalista nei primi 18 mesi e successivamente come redattore ordinario, di condannare la Rai al pagamento delle differenze retributive maturate, di liquidare le spese di primo grado in Euro 5.000,00 senza procedere a compensazione parziale.
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 13 ottobre 2009 – 12 novembre 2009 rigettava entrambi gli appelli salvo accogliere quello incidentale limitatamente alla determinazione delle spese di lite fissando l’importo globale delle stesse in Euro 6.000,00.
3. Avverso questa pronuncia la RAI propone ricorso articolato in cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata L.A. che ha anche proposto contestuale ricorso incidentale condizionato, cui ha resistito la società con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso principale è articolato in cinque motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in riferimento alla risoluzione del rapporto di lavoro come previsto dalla lettera del 6 giugno 2003 sopra citata. Con la sottoscrizione di tale lettera la ricorrente originaria aveva accettato la risoluzione del rapporto di lavoro a far data dal 28 giugno 2003.
Con il secondo motivo la società denuncia violazione degli artt. 1398 e 1399 c.c.. Contesta l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui l’utilizzo delle prestazioni lavorative della dipendente anteriori alla data di decorrenza del contratto del 27 settembre 1999 non fossero meramente preparatorie ma fossero già riferibili ad un rapporto di lavoro instaurato tra le parti. La ricorrente cominciò a lavorare presso la società senza contratto su disposizione di un capostruttura che non aveva poteri di rappresentare la società.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione con riferimento al requisito della specificità dei programmi televisivi oggetto del contratti a termine stipulati dal 9 settembre 1998 al 23 gennaio 2003. In realtà si trattava di programmi per i quali ricorreva il requisito della specificità che giustificava l’apposizione del termine al contratto di lavoro.
Con il quarto motivo la società deduce la violazione della L. n. 230 del 1962, art. 2, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e della L. n. 183 del 2010, art. 32. Chiede in particolare l’applicazione dello ius superveniens costituito dall’art. 32, comma 5, citato.
Con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla asserita natura giornalistica dell’attività svolta dalla dipendente a partire dal 9 settembre 1998. In particolare lamenta che l’istruttoria svolta non aveva offerto alcun elemento con riferimento ai programmi realizzati nel periodo 1998-1999.
2. Il ricorso incidentale condizionato è articolato in due motivi con cui si deduce la nullità o annullabilità del verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto dalla Rai e dalla L. in data 9 settembre 1998 (in relazione agli artt. 1418, 1343, 1344, 1434 e 1438 c.c., e art. 2113 c.c., e art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè la carenza di motivazione, nella sentenza di appello, circa punto decisivo della controversia in relazione sempre al mancato riconoscimento della nullità o annullabilità del predetto verbale di conciliazione in sede sindacale del 9 settembre 1998.
3. Vanno riuniti i giudizi promossi con ricorso principale e con ricorso incidentale avendo ad oggetto la stessa sentenza impugnata.
4. Il ricorso principale – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.
5. Quanto al primo motivo, con cui la società ricorrente lamenta il vizio di motivazione in relazione alla asserita acquiescenza della dipendente alla risoluzione del rapporto di lavoro comunicata con lettera in data 6 giugno 2003, deve rilevarsi che da una parte la società, omettendo di riportare il contenuto del documento suddetto, è venuta meno all’onere di autosufficienza del ricorso. La corte d’appello con valutazione di merito ha ricostruito il significato dell’apposizione della firma da parte della ricorrente in calce alla lettera suddetta. In particolare la corte territoriale ha osservato che la sottoscrizione da parte della L. della lettera del 6 giugno 2003, con la quale la Rai comunicava la risoluzione anticipata dal rapporto di lavoro a termine del 22 gennaio 2003 non aveva in alcun modo concretizzato nè una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nè un licenziamento non impugnato. Il solo fatto di avere sottoscritto per ricevuta e conoscenza la lettera di cessazione (unilateralmente determinata dalla Rai) anticipata del rapporto non consentiva affatto di desumere una chiara e inequivoca volontà della L. di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.
In proposito questa Corte (ex plurimis Cass., sez. lav., n. 23319 del 18/11/2010) ha più volte affermato che, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo dissenso, è necessario che sia accertata una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che la valutazione del significato e della portata del complesso dei predetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
6. Infondato è anche il secondo motivo con cui la ricorrente principale censura inoltre la sentenza del Tribunale per aver
e la stessa dato rilievo all’utilizzo delle prestazioni lavorative della L. prima della data di scadenza del contratto di lavoro e in particolare di quello del 27 settembre 1999.
Trattasi di inammissibile censura di merito laddove la corte territoriale ha puntualmente motivato in proposito pervenendo al convincimento, sulla base della valutazione delle risultanze di causa, che l’istruttoria espletata in primo grado aveva dimostrato come la L. era stata utilizzata dalla RAI già prima della formalizzazione del contratto del 27 settembre 1999.
Il fatto poi, allegato nel ricorso, che la L.abbia cominciato a lavorare per iniziativa del capostruttura M., senza averne poteri, costituisce circostanza non risultante dalla sentenza impugnata e che semmai realizzerebbe una ragione di danno risarcibile della società nei confronti del suo dipendente, fermo restando che la società, accettando l’attività lavorativa della L. nella produzione in particolare del programma (OMISSIS) aveva ratificato con comportamento concludente l’operato del suo dipendente.
7. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
La Corte d’appello ha puntualmente osservato che l’assunzione a termine per “specifici programmi radiofonici o televisivi” di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. e), presuppone, oltre alla puntuale individuazione della rappresentazione. che i programmi abbiano una durata prefissata e siano destinati a sopperire esigenze gestionali temporanee seppur compatibili con una programmazione ripetuta e a puntate e pertanto la reiterazione di successivi contratti a termine a copertura di una stabile esigenza lavorativa risulta contraria allo schema legale del contratto a termine, configurando un’elusione fraudolenta della relativa normativa.
Sotto questo profilo può considerarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che l’assunzione a termine a norma della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, deve rispondere ad esigenze di carattere temporaneo, destinate ad esaurirsi in un certo tempo e tali da non consentire uno stabile inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa; presupposto questo che deve ricorrere anche per le assunzioni riferite a spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi, nel senso che la specificità dello spettacolo o del programma, mentre non implica la straordinarietà o l’occasionalità, richiede pur tuttavia che lo spettacolo o il programma stesso – oltre ad essere destinato ad una temporanea necessità, ancorchè ripetuto nel tempo ed in diverse puntate – sia caratterizzato dall’appartenenza ad una specie di un certo genus e sia, inoltre, individuato, determinato e nominato.
Quindi la legittimità del termine è condizionata dal carattere dell’apporto lavorativo, che deve risultare funzionalmente necessario – anche in via strumentale e complementare – a caratterizzare quel dato programma o spettacolo. In altri termini si è più volte affermato che deve sussistere un vincolo di “necessità diretta”, anche se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo e nello specifico programma, cosi che non possa essere considerata sufficiente a legittimare la stipulazione del contratto a tempo determinato la semplice qualifica, tecnica o artistica del personale, correlata alla produzione di spettacoli o programmi televisivi o radiofonici. Cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 26 maggio 2011, n. 11573, che, proprio in tema di assunzioni a termine di lavoratori dello spettacolo (L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, comma 2, lett. e), come modificato dalla L. 23 maggio 1977, n. 266), ha ribadito che non solo è necessario che ricorrano contestualmente i requisiti della temporaneità e della specificità, ma è indispensabile, altresì, che l’assunzione riguardi soggetti il cui apporto lavorativo si inserisca, con vincolo di necessità diretta, anche se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo o programma, sicchè non può considerarsi sufficiente ad integrare l’ipotesi di legittimo ricorso al contratto a tempo determinato la mera qualifica tecnica od artistica del personale correlata alla produzione di spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, occorrendo che l’apporto del peculiare contributo professionale, tecnico o artistico del soggetto esterno sia necessario per il buon funzionamento dello spettacolo, in quanto non sostituibile con le prestazioni del personale di ruolo dell’azienda. E’ stata quindi confermata la sentenza impugnata, che – come quella attualmente impugnata dalla società ricorrente – aveva dichiarato la nullità dei contratti a termine e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con congrua e logica motivazione in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente di una attività lavorativa ordinaria, continuativa e riferita indifferentemente ad una serie di molteplici, e non omogenee, produzioni artistiche.
Nella specie la Corte territoriale, in conformità con il giudice di primo grado, ha motivatamente verificato, con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di cassazione, l’insussistenza dei suddetti presupposti.
8. Infondato altresì è il quinto motivo di ricorso – il cui esame logicamente precede quello del quarto motivo – con cui la società, ricorrente principale, contesta il riconoscimento della natura giornalistica dell’attività svolta dalla L. a fronte dell’inquadramento della stessa, attribuito dalla società, di programmista regista. In particolare la corte territoriale ha osservato che dall’istruttoria svolta era emerso che l’attività espletata dalla L. per (OMISSIS), così come per tutti i programmi per cui aveva lavorato, era stata caratterizzata dalla ricerca e dall’elaborazione di notizie e tutti i testi avevano confermato il carattere informativo e di attualità di (OMISSIS) e degli altri programmi per cui la L. ha lavorato.
9. Inammissibile è infine il quarto motivo con cui la società ricorrente chiede l’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.
Da una parte deve considerarsi che le conseguenze economiche dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro costituiscono oggetto di altro giudizio tra le medesime parti, pervenuto anch’esso al giudizio di cassazione e chiamato alla stessa odierna udienza, e quindi sono fuori dal thema decidendum.
In ogni caso si tratta di disposizione non ancora entrata in vigore alla data di proposizione del ricorso per cassazione. Pertanto la ricorrente avrebbe dovuto censurare la sentenza impugnata quanto al capo relativo alle conseguenze economiche della accertata illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro. Solo così facendo – secondo la giurisprudenza di questa corte – sarebbe stato possibile l’applicazione anche nel giudizio di cassazione dell’art. 32, comma 5, citato.
10. Il ricorso incidentale, in quanto condizionato, è assorbito.
11. In conclusione il ricorso principale va integralmente rigettato con assorbimento del ricorso incidentale.
Alla soccombenza consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 100,00 (cento) per esborsi ed in Euro 4.000,00 (quattromila) per compensi d’avvocato ed oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 30/09/2015 n.19465

NE ANCELLE DELLA DIVINA PROVVIDENZA, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI
PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI,
rappresentata e difesa dall’avvocato BATTIANTE CARMINE, giusta delega
in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3830/2008 della CORTE D’APPELLO di BARI,
depositata
il 13/10/2008 R.G.N. 3883/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
04/06/2015 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 13.10.08, la Corte d’Appello di Bari, confermando sentenza del tribunale di Trani del 12.11.04, ha rigettato la domanda del lavoratore C. volta alla conservazione della retribuzione già percepita come guardiano notturno anche per il periodo di assegnazione a mansioni di guardiania diurne.
In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che il principio di irriducibilità della retribuzione del lavoratore non è assoluto, non coprendo gli emolumenti accessori o temporanei collegati alle particolari modalità della prestazione eseguita. Avverso tale sentenza ricorre il lavoratore per due motivi, cui resiste con controricorso il datore.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2103 e 2108 c.c., per avere trascurato che il lavoratore era stato assunto specificamente come guardiano notturno cui pertanto doveva commisurarsi il trattamento retributivo.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria – motivazione circa il fatto decisivo per il giudizio, anche in relazione all’art. 44, comma 10, del contratto collettivo di lavoro, nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la corte territoriale ritenuto che l’assunzione come guardiano notturno non comportasse alcun diritto a continuare a ricevere l’indennità per il lavoro disagiato, di fatto corrisposta per circa un ventennio.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione: essi sono infondati.
La corte territoriale ha ritenuto, con motivazione adeguata e congrua, che, una volta venute meno le particolari modalità attraverso le quali interviene la prestazione lavorativa, nel caso di specie, il lavoro notturno, è legittima l’eliminazione della corresponsione degli emolumenti specificamente volti a compensare le modalità particolari della prestazione lavorativa. La sentenza impugnata si sottrae alle censure sollevate, essendo in linea con quanto affermato da questa Corte in più occasioni, essendosi precisato che il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall’art. 2103 c.c., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorchè vengano meno le situazioni cui erano collegati (Cass. n. 10449/2006).
Ne consegue che ai fini del riconoscimento del diritto dei lavoratori subordinati al computo nella base di calcolo della retribuzione per il periodo feriale della maggiorazione per lavoro notturno, non è sufficiente l’accertamento della “normalità” della prestazione notturna in turni periodici e della erogazione della relativa indennità (reintroducendosi altrimenti il criterio della omnicomprensività della retribuzione, non legittimato in generale dal legislatore), ma, trattandosi di compenso erogato in ragione delle particolari modalità della prestazione lavorativa e a compensazione dei relativi disagi, e in quanto tale non assistito dalla garanzia della irriducibilità della retribuzione di cui all’art. 2103 c.c., occorre anche che la contrattazione collettiva faccia riferimento al concetto di retribuzione “ordinaria” o “normale” (Cass. n. 16261/2004). Più di recente, si è ribadito (Sez. L, Sentenza n. 20418 del 05/09/2013; Sez. L, Sentenza n. 20310 del 23/07/2008) che il principio della irriducibilità della retribuzione, che si può desumere dall’art. 2103 c.c., e art. 36 Cost., ossia dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato, si estende alle indennità compensative di particolari e gravosi modi di svolgimento del lavoro, nel senso che quella voce retribuiva può esser soppressa ove vengano meno quei modi di svolgimento della prestazione, ma deve essere conservata in caso contrario.
Corretta è dunque la decisione impugnata che ha ritenuto che l’emolumento dovuto per il lavoro notturno, pur non essendo ricompreso nel contratto, sia stato concretamente corrisposto dal datore al fine di compensare la particolare modalità di prestazione dell’attività lavorativa: infatti, non vi è nel contratto una qualifica di guardiano notturno ma solo la qualifica di guardiano, la cui retribuzione risulta essere stata correttamente corrisposta.
Ne consegue che, al mutare delle modalità della prestazione lavorativa, non più destinata a svolgersi in orario notturno, sia venuto meno l’emolumento specificamente volto a compensare quelle modalità della prestazione, senza che ciò abbia comportato la violazione del contratto di lavoro, nè dell’art. 2103, nè del principio di immodificabilità della retribuzione.
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 2.500 per compensi ed Euro 100 per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 25/09/2015 n.19034

La trasformazione della pensione d’invalidità in pensione di vecchiaia al compimento dell’età pensionabile è possibile ove di tale ultima pensione sussistano i requisiti propri anagrafico e contributivo, non potendo essere utilizzato, ai fini di incrementare l’anzianità contributiva, il periodo di godimento della pensione d’invalidità.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 25/09/2015 n.19028

In materia di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, è valida la previsione, introdotta in sede di contratto collettivo, di un salario di ingresso (cosiddetto prolungato) in deroga all’art. 3 d.l. n. 726 del 1984, convertito dalla legge n. 863/1984, in quanto il minore trattamento retributivo si giustifica per la oggettiva delimitazione di carattere temporale e per la finalità di incentivare la stabilizzazione del rapporto.

Cassazione civile sez. lav. sentenza 14/09/2015 n. 18041

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. T.F.L. propose dinanzi al Tribunale di Palermo opposizione allo stato passivo della Sicilcassa s.p.a., società in liquidazione coatta amministrativa, dolendosi del parziale rigetto della domanda volta ad ottenere l’ammissione, allo stato passivo della Sicilcassa, del credito avente ad oggetto le somme, versate da lui o per suo conto, nel Fondo Integrativo Pensioni, ivi comprese quelle poste a carico del datore di lavoro.
2. Il Tribunale accolse la domanda e ammise al passivo della liquidazione il credito vantato dal ricorrente, a titolo di riscatto della sua posizione individuale, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali, e la sentenza, impugnata dalla Sicilcassa, fu confermata dalla Corte d’appello di Palermo, con sentenza depositata il 28 dicembre 2012.
3. La Corte, prestando adesione ad un precedente di questa Corte (Cass., 11 dicembre 2002, n. 17657), affermò il seguente principio di diritto: “In tema di previdenza complementare, le tre opzioni stabilite dal D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (riscatto, trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo “chiuso”, trasferimento ad un fondo “aperto”) in favore degl
i iscritti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto alla pensione, in epoca successiva all’entrata in vigore della legge stessa, si applicano all’intera posizione individuale, che comprende tutti gli accantonamenti previsti dall’art. 8 di detto decreto, sia del lavoratore che del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993 per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti dei fondi prevedono modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi alla norma legale”.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Sicilcassa s.p.a., sulla base di tre motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. All’udienza di discussione questa Corte ha tuttavia rilevato che, in altra controversia, sulla medesima questione di diritto sottesa al ricorso, con ordinanza interlocutoria del 28 gennaio 2014, n. 1774, era stata disposta la trasmissione degli atti al primo Presidente per l’eventuale assegnazione della questione alle Sezioni Unite, sicchè si è disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo. Quindi, fissata la nuova udienza dopo la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 477/2015, le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, deve rilevarsi l’ammissibilità del ricorso, non ravvisandosi i presupposti per l’applicabilità dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, e tanto in ragione dei contrasti esistenti sulla questione di fondo posta nella presente controversia, solo di recedente composti dall’intervento delle Sezioni Unite, come di seguito si dirà.
1. Con il primo motivo di ricorso la Sicilcassa s.p.a. denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10. Assume che è incontestata la natura del Fondo di previdenza integrativo (d’ora in poi solo FIP) come fondo a prestazione definita, privo di conti individuali, con la conseguenza che non vi può essere corrispondenza tra la contribuzione che affluisce al fondo in relazione alla posizione del singolo iscritto e la prestazione che dovrà essergli attribuita alla maturazione del diritto a pensione. Per contro, condizione indispensabile perchè possa trovare applicazione l’art. 10 D.Lgs. cit. è che il Fondo sia strutturato come fondo a contribuzione definita, in cui la prestazione si determina con il criterio della capitalizzazione individuale, in base alla contribuzione imputata sulla posizione individuale. L’art. 7 del regolamento del Fondo riconosce al lavoratore che cessa senza diritto a pensione solo la disponibilità della contribuzione da lui personalmente versata. Ne consegue l’erroneità della decisione nella parte in cui, richiamando l’art. 2117 c.c., ha riconosciuto il diritto dell’iscritto alla riscattabilità di tutta la contribuzione, disponendo l’immediata applicabilità dell’art. 10 del D.Lgs. anche ai fondi preesistenti alla sua entrata in vigore e nonostante la presenza di una norma regolamentare di contenuto diverso.
2. Con il secondo motivo censura la sentenza per violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., con riferimento agli artt. 4 e 7 del FIP che escludono la riscattabilità a favore dell’iscritto dell’intera contribuzione affluita al Fondo. Assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto di disapplicare l’art. 7 del regolamento, in base al quale, invece, l’iscritto che cessa dal servizio senza diritto alle prestazioni ha diritto alla restituzione della sola contribuzione da lui versata, con esclusione di quella versata dall’azienda, in quanto destinata a garantire la provvista necessaria a finanziare l’integrazione sui trattamenti di pensione maturati e maturandi, in regime di prestazione definita, e quindi non correlati all’importo e della contribuzione affluita al fondo in relazione al singolo assicurato.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 429 c.p.c., comma 3, al credito relativo alla contribuzione versata al fondo, suscettibile di riscatto. Assume che tale credito ha indubbiamente natura previdenziale con la conseguenza che non può essere riconosciuto il cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria, “quanto meno a far tempo dall’1 settembre 1985 (cfr. L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 194)”, momento a partire dal quale si era marcata irreversibilmente la distinzione tra retribuzione differita con funzione previdenziale e accreditamenti per la previdenza integrativa, di natura previdenziale a tutti gli effetti.
4. I primi due motivi, che si affrontano congiuntamente in ragione della connessione che li lega, sono infondati. Sulla questione all’esame di questa Corte sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza del 14 gennaio 2015, n. 477, con la quale si è affermato il seguente principio di diritto: “Il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma della L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 3, comma 1, lett. v)) si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all’entrata in vigore della legge delega (15 novembre 1992), quali che siano le loro caratteristiche strutturali e quindi non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva”.
4.1. La Corte, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento, si è soffermata sulla portata normativa del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, che si occupa della previdenza complementare. Ha osservato che, “ribadita la finalità di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”, il legislatore ha disciplinato il campo di applicazione, i destinatari, le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari, la natura giuridica dei Fondi pensione, la composizione dei relativi organi di gestione e di controllo, le prestazioni, i finanziamenti, il trattamento tributario di contributi e prestazioni, funzioni e compiti della commissione di vigilanza.
4.2. Ha quindi esaminato l’art. 10, che riguarda la situazione del lavoratore che ha perso i requisiti per la partecipazione al fondo senza aver ancora maturato il diritto alla pensione complementare. La norma dispone quanto segue: “Lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini per l’esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 (fondi pensione aperti); c) il riscatto della posizione individuale”. Il secondo comma aggiunge: “gli aderenti ai fondi pensione di cui all’art. 9 possono trasferire la posizione individuale corrispondente a quella indicata al comma 1, lett. a), presso il fondo cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività”. Il comma 3, specifica: “gli adempimenti a carico del fondo pensione conseguenti all’esercizio delle opzioni di cui ai commi 1 e 2, debbono essere effettuati entro il termine di sei mesi dall’esercizio dell’opzione”.
4.3. Individuata la ratio della norma ed il suo chiaro tenore letterale, in cui non vi è traccia di alcuna distinzione o eccezione, e in particolare non si esclude la sua applicazione alle forme pensionistiche complementari già istituite, le Sezioni Unite hanno osservato che, quando il legislatore è intervenuto nel 1992- 93, introducendo il principio della portabilità in caso di cessazione dei requisiti di partecipazione ai fondi, aveva ben presente che la nuova disciplina avrebbe coinvolto in larga maggioranza fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, quale era la gran parte dei fondi preesistenti alla riforma. Ciò nonostante, non li ha esclusi dall’immediata applicazione della nuova disciplina sulla riscattabilità e portabilità, nè ha previsto deroghe o distinzioni di sorta tra le varie forme di previdenza complementare.
4.4. Ed invero, sottolineano le Sezioni Unite che il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, fa riferimento ai concetti omnicomprensivi di “forma pensionis
tica complementare” e di “fondi pensioni” senza operare diversificazioni. La distinzione che il legislatore non ha formulato è stata introdotta in alcune sentenze basandosi sul dato che la lett. c), nel prevedere la possibilità di riscatto, usa l’espressione “riscatto della posizione individuale”. Si è ritenuto che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva manchi una posizione individuale e che pertanto il riscatto sia possibile solo nei fondi a capitalizzazione individuale. Il concetto, con ulteriore passaggio, è stato poi esteso anche alle ipotesi del trasferimento da un fondo ad un altro previste dalle lett. a) e b).
Si è poi aggiunto un ulteriore argomento, assumendo che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva sarebbe impossibile enucleare una posizione individuale e vi sarebbe, quindi, un’incompatibilità ontologica tra portabilità e sistemi a ripartizione o capitalizzazione collettiva.
4.5. In realtà, le Sezioni unite hanno chiarito che i due concetti di posizione e conto individuale sono concetti distinti, di cui il legislatore è consapevole laddove, nel dettare la disciplina fiscale (art. 14-quater del medesimo decreto) utilizza il concetto di conto individuale del dipendente e mostra di aver ben presente la sua funzione tutta interna alla gestione del fondo. Hanno quindi aggiunto che, pur a fronte di tale distinzione concettuale, l’operazione di enucleare posizioni individuali nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, come si è messo in rilievo in precedenti decisioni di questa Corte pienamente condivisibili (in particolare Cass. 7161 del 2013), è tecnicamente possibile con l’applicazione di regole e metodi delle specializzazioni matematiche che si occupano dei problemi del settore assicurativo – previdenziale. La posizione previdenziale, anche se non determinata, è determinabile.
4.6. Una specifica disciplina transitoria per le forme preesistenti a ripartizione viene poi prevista nelle norme finali (art. 18, commi 8 bis, ter, quater) con le quali il legislatore si è preoccupato di prevedere specifici correttivi idonei a contenere gli effetti negativi che i nuovi principi avrebbero potuto determinare sull’equilibrio gestionale dei fondi a ripartizione. Afferma la Corte che “Anche da ciò si desume che se invece nel sancire il principio della portabilità non ha operato differenziazioni e se la disciplina transitoria non solo non include l’art. 10, ma non prevede correttivi o una disciplina speciale differenziata sul riscatto e la portabilità dei fondi a ripartizione preesistenti ciò vuoi dire che il legislatore ha voluto enunciare la portabilità come principio generale al quale avrebbero dovuto adeguarsi tutti i fondi, quali che fossero le loro caratteristiche strutturali e quale che fosse l’epoca della loro costituzione”.
4.7. Le Sezioni Unite hanno pertanto concluso nel senso che tutti gli argomenti addotti per sostenere l’inapplicabilità della disciplina sulla portabilità ai fondi preesistenti a capitalizzazione collettiva o a ripartizione non appaiono convincenti: le espressioni utilizzate, generali e prive di elementi che possano fondare differenziazioni di trattamento, indicano la volontà legislativa di riconoscere la portabilità con riferimento a tutti i fondi, nuovi e preesistenti, quali che siano i meccanismi di gestione. E ciò, pur avendo il legislatore ben presente la variegata morfologia e la sussistenza di elementi di diversità, che rendono a volte più complessa l’operazione di trasferimento quando il fondo non sia a capitalizzazione individuale, ma sia a ripartizione o a capitalizzazione collettiva.
4.8. La scelta si spiega probabilmente con il fatto che il legislatore considera la portabilità come uno degli strumenti fondamentali per garantire il perseguimento di “più elevati livelli di copertura previdenziale”, che costituisce il principio guida della legge delega in materia di previdenza complementare (L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 3, lett. v), ribadito nel decreto legislativo di attuazione (D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124). Si spiega, inoltre, con la consapevolezza, maturata negli anni novanta, della crescente mobilità occupazionale che caratterizza il mercato del lavoro e di conseguenza con la necessità di predisporre strumenti per consentire ai lavoratori, esposti al frammentarsi della vita lavorativa, di non subire, o quanto meno attenuare i contraccolpi sul versante previdenziale.
4.9. Alla luce di questi chiari principi, non scalfiti dalle pur diffuse argomentazioni svolte dalla ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., entrambi i motivi devono essere rigettati.
5. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. Con sentenza del 9 marzo 2015, n. 4684, le Sezioni Unite di questa Corte hanno risolto il contrasto esistente in seno alla Suprema Corte, concernente la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza integrativa o complementare (e quindi la loro computabilità o non ai fini del trattamento di fine rapporto e dell’indennità di anzianità), affermandone il carattere previdenziale non retributivo (ed escludendone la computabilità).
5.7. La Corte, dopo aver individuato la linea di demarcazione tra previdenza obbligatoria (ex lege) e previdenza integrativa o complementare (ex contractu) nel carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda, che sono fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari (e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni), ha ritenuto che, anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non possono essere considerati di natura retributiva, per la ragione essenziale che gli stessi non sono corrisposti ai dipendenti ma erogati direttamente al fondo.
Tale soluzione, che questo Collegio condivide per l’autorevolezza dell’Organo e la chiarezza del principio, non è tuttavia risolutiva dell’ulteriore questione relativa all’applicabilità del cumulo degli interessi e della rivalutazione al credito maturato dal lavoratore, con riguardo alle somme versate nei fondi integrativi.
5.2. La norma di riferimento, invocata dalla ricorrente, è contenuta nella L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, che ha disciplinato il regime degli accessori inerenti alle prestazioni dovute dagli “enti gestori di forme di previdenza obbligatoria”: essa dispone, in primo luogo (primo periodo), che tali enti “sono tenuti a corrispondere gli interessi legali……..a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda” e, in secondo luogo (ultimo periodo), che “l’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito”. Con quest’ultima disposizione è stato sancito il cosiddetto “divieto di cumulo” fra interessi legali e rivalutazione monetaria riguardo alle prestazioni erogate in ritardo dagli enti suddetti, con la conseguenza che la mora deve essere risarcita mediante la corresponsione della maggior somma risultante dal calcolo degli interessi e dal calcolo della rivalutazione.
5.5. Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 15 ottobre 2002, n. 14617) hanno chiarito la ratio di questa disciplina, precisando che essa è stata dettata per assolvere ad una funzione riequilibratrice e di contenimento della maggiore spesa cui erano stati sottoposti gli enti previdenziali per effetto della estensione, riguardo ai crediti per accessori sulle prestazioni da essi erogate in ritardo, del meccanismo di rivalutazione proprio dei crediti di lavoro, imposto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 12 aprile 1991. Con tale decisione si è infatti dichiarato incostituzionale l’art. 442 c.p.c. “nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al paga
mento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal titolare per la diminuzione del valore del suo credito” (v. anche la successiva sentenza n. 196 del 27 aprile 1993, che ha dichiarato illegittima la stessa norma, nella parte in cui non prevede il medesimo trattamento dei crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale “nel caso in cui il ritardo dell’adempimento sia insorto anteriormente al 31 dicembre 1991”).
5.4. Vi era dunque una pressante esigenza di contenere gli effetti negativi prodotti sulla pubblica finanza dalla decisione della Corte Costituzionale, mediante l’incremento della spesa previdenziale corrente, in un contesto di progressivo deterioramento dei conti pubblici (così Cass., n. 14617/2002, cit.). E la funzione riequilibratrice dell’art. 16 cit. è stata poi riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale nella successiva sentenza n. 361 del 24 ottobre 1996 – dichiarativa della infondatezza della questione di legittimità della L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, – in cui si è precisato che “l’art. 38 della Costituzione non esclude la possibilità di un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca un trattamento pensionistico” e, a maggior ragione, “gli accessori del credito”, essendosi manifestata, “dopo la sentenza n. 156 dell’8-12 aprile 1991, in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, la necessità di un’adeguata ponderazione dell’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica”.
5.5. E’ poi intervenuto la L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, seconda parte, che ha esteso la disciplina dettata dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, “anche agli emolumenti natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza”. Tale disposizione è stata oggetto di un nuovo intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 459 del 2 novembre 2000, ha rilevato il contrasto della norma con l’art. 36 Cost. relativamente ai rapporti di lavoro subordinato privato, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma medesima limitatamente alle parole “e privati”.
5.6. Ora, la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, nella parte in cui prevede, nel primo periodo, l’obbligo per “gli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria” di pagare gli interessi legali in caso di ritardo, oltre il termine fissato dalla legge, nell’adempimento delle “prestazioni dovute”, costituisce il presupposto per la statuizione contenuta nel secondo periodo, ossia per l’operatività del divieto di cumulo. Il primo dato che si trae dalla relativa formulazione è che la norma fa riferimento a prestazioni erogate da “enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria”. Il debitore, pertanto, va individuato non già in un qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, qualunque sia la natura di quest’ultima, ma in uno di quegli enti pubblici non economici ai quali dalla legge è attribuita una funzione di previdenza nei confronti di determinate categorie di soggetti (ritenuti meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 38 della Costituzione) (così ancora, Cass. Sez. Un., n. 14617/2002, cit).
5.7. Il secondo dato è costituito dalla natura della prestazione. Il riferimento, quanto alla decorrenza degli interessi, alla “data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda”, induce ad interpretare la norma nel senso che le prestazioni debbono essere individuate in quelle erogate previa domanda proposta dall’interessato, proprietà questa che accede (soltanto) alle obbligazioni pecuniarie aventi natura previdenziale e non anche a quelle aventi natura retributiva: solo i crediti previdenziali, in effetti, possono essere fatti valere dagli interessati – di norma – solo dopo che sia stata proposta un’apposita domanda all’ente di competenza e dopo che sia decorso un certo lasso di tempo dalla medesima, mentre i crediti cd. di lavoro soggiacciono ad una regola diversa, la relativa obbligazione essendo esigibile nel momento stesso in cui matura il diritto. Ne consegue che le prestazioni cui deve applicarsi il disposto dell’art. 16 L. cit., “non possano che essere quelle riferentesi a crediti previdenziali vantati dagli assicurati nei confronti degli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria” (Cass. Sez. Un. n. 14617/2002, cit., cui adde Cass., 21 ottobre 1997, n. 10355).
6. Alla luce di queste considerazioni, posto che non vi è dubbio che il Fondo della Sicilcassa s.p.a. ha natura privatistica e che le relative prestazioni non rientrano tra le prestazioni previdenziali a carattere obbligatorio, deve ritenersi che si è fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 16, comma 6, L. cit. In tal senso, peraltro, si è già espressa questa Corte che, con la sentenza 28 ottobre 2008, n. 25889 (in una fattispecie relativa a trattamento pensionistico integrativo corrisposto dal Fondo costituito dalla Banca di Roma s.p.a.), ha escluso l’applicabilità della disposizione citata, ribadendo che, al di là della natura previdenziale del trattamento pensionistico integrativo del Fondo, il divieto di cumulo d’interessi e rivalutazione monetaria “si riferisce esclusivamente ai crediti previdenziali vantati verso gli enti suddetti (enti gestori di previdenza obbligatoria: n.d.e.) e non è pertanto applicabile alle prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro”.
6.1. Il suddetto principio di diritto, oltre ad essere in linea con le Sezioni Unite su richiamate, non si pone in contrasto con successive pronunce di questa Corte (e specificamente con Cass., 28 agosto 2013, n. 19824; Cass., 4 maggio 2012, n. 6752; Cass., 7 marzo 2012, n. 3553), le quali sono state emesse in controversie promosse nei confronti del Fondo di previdenza per gli impiegati delle esattorie e ricevitorie delle imposte dirette, previsto dalla L. 2 aprile 1958, n. 377, come modificata dalla L. 29 luglio 1971, n. 587.
Si tratta, infatti (come le stesse sentenze hanno precisato), di un ente che costituisce una gestione autonoma dell’INPS, con lo scopo principale di integrare le pensioni dovute agli iscritti o ai loro superstiti dall’assicurazione generale obbligatoria. In tali pronunce si è rimarcata, da un lato, la natura obbligatoria della previdenza, “nel senso che gli iscritti sono inseriti contemporaneamente nell’assicurazione generale obbligatoria tanto che nel fondo confluiscono anche i contributi a.g.o. e la pensione che viene liquidata è una pensione “complessiva”, “nell’ambito di un unico rapporto di assicurazione obbligatoria”, e, dall’altro, la fonte legale della disciplina, che non è influenzata da istituti e criteri propri dei fondi integrativi di fonte contrattuale. In altri termini, diversamente dalla presente fattispecie, concorrono entrambi i presupposti – natura previdenziale della prestazione e qualità dell’ente gestore (di forme di previdenza obbligatoria) – previsti nell’art. 16, comma 6, cit., nell’esegesi offerta dalle Sezioni Unite del 2002.
7. L’obbiettiva controvertibilità della questione, attestata dai contrasti giurisprudenziali anche di questa Corte, solo di recente composti dall’intervento delle Sezioni Unite, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1. Ed invero, in tema di impugnazioni, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n
. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass., ord.13 maggio 2014 n. 10306).
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 11 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2015

Cassazione civile sez. lav. sentenza 11/09/2015 n.17980

Per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Cassazione civile sez. lav. sentenza 02/09/2015 n.17435

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 12 dicembre 2012 la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma dell’8 giugno 2010 con la quale era stata rigettata la domanda di D.N.R. intesa ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento irrogatogli dalla FARMACAP Azienda Farmasociosanitaria Capitolina in data 2 marzo 2006. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando che i fatti addebitati al ricorrente con contestazione del 9 gennaio 2006 ed avvenuti fra il 19 dicembre 2005 ed il 4 gennaio 2006, e che richiama anche i fatti addebitati con una precedente lettera di contestazione del 19 dicembre 2005, non sono mai stati contestati dal lavoratore che ha invece lamentato un atteggiamento complessivamente persecutorio nei suoi confronti che ha causato un clima di tensione che non giustificherebbe comunque l’impugnato licenziamento. La Corte capitolina ha considerato che l’espletata istruttoria non ha confermato l’atteggiamento persecutorio lamentato dal lavoratore, mentre ha confermato l’esistenza di un clima di tensione nell’azienda che giustifica il disposto licenziamento.
Il D.N. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su sette motivi.
Resiste la FARMAC con controricorso.
Il ricorrente ha presentato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; omesso esame di un fatto decisivo della causa; art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 44 CCNL Aziende Farmaceutiche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che il licenziamento sarebbe stato intimato oltre il termine perentorio stabilito dalla contrattazione collettiva, termine comunque da considerarsi integrante l’elemento essenziale della norma sostanziale art. 2119 c.c..
Con il secondo motivo si deduce violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; omesso esame di un fatto decisivo della causa; L. n. 604 del 1966, art. 2, L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 44, comma 9, CCNL Aziende Farmaceutiche ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si lamenta che il licenziamento sarebbe inefficace poichè l’azienda avrebbe omesso di fornire specifici motivi benchè ritualmente richiesti L. n. 604 del 1966, ex art. 2.
Con il terzo motivo si assume violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 111 Cost., artt. 99, 112 e 113 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che l’azienda avrebbe licenziato il lavoratore per episodi contestati con lettera del 19 dicembre 2005;
il lavoratore avrebbe impugnato il licenziamento poichè infondato; i giudici di merito lo avrebbero invece ritenuto fondato sulla base di una diversa lettera di contestazione del 9 gennaio 2006 i cui episodi sono stati ritenuti dall’azienda implicitamente giustificati dal lavoratore e, per questo, mai sanzionati.
Con il quarto motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c., art. 111 Cost., artt. 99, 112, 113, 115 e 116 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3, 4 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello avrebbe ritenuto fondati i fatti posti a base del licenziamento poichè il lavoratore, non provando la scriminante delle provocazioni, implicitamente non li avrebbe contestati, senza considerare che tale prova era stata ammessa per la diversa domanda di risarcimento danni da persecuzione, che sui fatti che hanno portato al licenziamento non era stata ammessa alcuna prova, e che per legge, in ogni caso, l’onere della prova dei fatti integranti la giusta causa di licenziamento è a carico del datore.
Con il quinto motivo si assume violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c., art. 111 Cost., artt. 115 e 116 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello avrebbe ritenuto fondati i fatti posti a base del licenziamento sulla base di dichiarazioni rese prima e fuori dal processo e benchè contestate dal lavoratore, così violando le regole del processo.
Con il sesto motivo si lamenta violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici; vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, L. n. 604 del 1966, art. 1 e segg., artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., art. 111 Cost., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si deduce che la Corte d’appello non avrebbe considerato quanto stabilito dall’art. 2119 cod. civ. che dispone la ricorrenza di elementi oggettivi e soggettivi per integrare una grave lesione del vincolo fiduciario, e non avrebbe considerato che il licenziamento risultava totalmente privo di prova, quindi carente degli elementi costitutivi stabiliti per legge, ed avrebbe ritenuto integrante la giusta causa fatti estranei alla contestazione ed alla motivazione formulata dalla stessa azienda, non provati in giudizio e ritenuti giustificati dall’azienda.
Con il settimo motivo si deduce violazione di norme di legge, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di principi giuridici;vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio;
art. 2119 c.c., art. 27 Cost., artt. 1175 e 1206 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1 e segg., ex art. 360 c.p.c., punti 3 e 5. In particolare si afferma che i giudici dell’appello non avrebbero considerato l’elemento essenziale e costitutivo della giusta causa di licenziamento costituito dalla proporzione fra i fatti contestati e la sanzione, tenendo conto dell’elemento soggettivo della condotta e l’atteggiarsi complessivo del lavoratore.
Il primo motivo è inammissibile. La censura è infatti relativa a circostanza non trattata nella sentenza impugnata per cui, in mancanza di precisa indicazione del modo con cui era stata proposta la doglianza nei precedenti gradi di merito, deve ritenersi che il motivo in questione sia nuovo e quindi inammissibile non essendo consentito sollevare in sede di legittimità questioni non precedentemente proposte nei gradi di merito.
Anche il secondo motivo si riferisce a doglianza non trattata nella sentenza impugnata, per cui valgono le medesime argomentazioni di cui al primo motivo, con la conseguente inammissibilità del motivo in assenza di precise indicazioni sulle modal
ità con cui è stata proposta la doglianza nei gradi di merito.
Il terzo motivo è infondato. Con esso sostanzialmente il ricorrente deduce che la sentenza impugnata avrebbe fondato la propria motivazione sugli addebiti contenuti nell’atto di contestazione del 9 gennaio 2006 per i quali il lavoratore non era mai stato sanzionato, mentre il licenziamento era stato in realtà comminato sulla base della diversa precedente contestazione del 20 dicembre 2005. In realtà il ricorrente confonde le due contestazioni che invece la sentenza impugnata, nella sua chiara motivazione, considera nella loro esatta portata, nel senso che il licenziamento per cui è processo si riferisce a tutti i fatti contenuti nelle due contestazioni del 20 dicembre 2005 e del 9 gennaio 2006, per cui, da un lato non appare esatta l’affermazione del ricorrente secondo cui i fatti addebitati con la seconda delle due contestazioni non sarebbero stati sanzionati, e dall’altro appare invece esatta e conseguente l’affermazione contenuta nella stessa sentenza secondo cui il lavoratore appellante nulla ha dedotto in merito ai fatti contenuti nella prima contestazione soffermandosi solo sui fatti di cui alla seconda contestazione deducendo, erroneamente come detto, che per i medesimi non era stato sanzionato.
Anche in ordine al quarto motivo il ricorrente opera una confusione, in particolare fra i fatti addebitati, il cui onere è a carico del datore di lavoro, con quella dell’atteggiamento persecutorio tenuto dallo stesso datore e che è carico del lavoratore. Nel caso in esame la sentenza impugnata/ha ritenuto non contestati i fatti addebitati al lavoratore, e non provato, da parte di questi, l’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti. La sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio di diritto secondo cui, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti un onere di allegazione, l’altra ha l’onere di constare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio (Cass. 12636/2005). La stessa Corte d’appello ha ritenuto, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede, che il lavoratore non ha contestato i fatti addebitatigli, anzi ammettendoli ritenendoli solo giustificati quale reazione all’atteggiamento datoriale nei suoi confronti, e concentrando la sua difesa sulla sussistenza di un comportamento persecutorio che è stato ritenuto non provato, parimente con giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità.
Il quinto ed il sesto motivo sono inammissibili in quanto si riferiscono alla valutazione del materiale probatorio che, a detta del ricorrente, non giustificherebbe le conclusioni a cui è pervenuto il giudice dell’appello secondo cui i fatti addebitati, da un lato non sono stati contestati, e dall’altro hanno trovato conferma nella prova documentale acquisita, affermazioni, come detto, non censurabili in sede di legittimità se non per incompletezza o illogicità che, nel caso concreto, non sussistono.
Il settimo motivo non è fondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte il giudizio di proporzionalità della sanzione costituisce giudizio di fatto come tale riservato al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se, congniamente e logicamente motivato. Nel caso in esame, fra l’altro, la Corte d’appello ha anche verificato la legittimità del licenziamento sulla base del CCNL di categoria applicabile alla fattispecie e che espressamente prevede il licenziamento senza preavviso per i comportamenti contestati al lavoratore nel caso in esame (comportamento ingiurioso o minaccioso durante il servizio, violazione di ogni norma di legge riguardante il deposito, la vendita o il trasporto di medicinali).
Il ricorso deve dunque essere rigettato.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in complessive Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge:
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2015