La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 32077 del 2019 ha ribadito che il termine per la notifica delle cartelle di pagamento di crediti contributivi si prescrive in cinque anni.
Il caso traeva origine dall’intimazione al pagamento avente di crediti previdenziali dovuti da un lavoratore autonomo, notificata da parte dell’agenzia delle Entrate-Riscossione dopo lo spirare del termine prescrizionale. Sia il Giudice di primo grado che la Corte territoriale avevano accolto l’opposizione alla predetta intimazione, rilevando l’utilizzazione del termine beve a tali crediti.
Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle entrate-riscossione, proponeva ricorso per cassazione, deducendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2946 c.c. Secondo il ricorrente infatti la Corte territoriale ha erroneamente considerato applicabile il termine breve quinquennale, senza valutare l’effetto novativo conseguente alla notifica delle cartelle di pagamento, il quale, invece, comporterebbe l’applicabilità del termine lungo decennale.
La Corte ha rigettato tale censura ritenendola inammissibile: a tal riguardo, ha posto l’accento sul principio di diritto, già richiamato dalla Corte territoriale ed enunciato a Sezioni Unite nella sentenza n. 23397 del 17/11/2016, in virtù del quale la scadenza del termine per impugnare la cartella di pagamento di cui al D. Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, determina l’irretrattabilità del credito contributivo senza che il termine prescrizionale breve, quinquennale, venga convertito in quello ordinario, decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.
A ciò deve aggiungersi che la circostanza che l’Agenzia delle Entrate sia subentrata come nuovo concessionario non comporta il cambiamento della natura del credito (il quale resta assoggettato alle norme dettate per il regime prescrizionale). Infatti in mancanza di un titolo giudiziale definitivo, si applica nei confronti del creditore, la disciplina relativa alla prescrizione breve, prevista dalla L. n. 335 del 1995, art. 3.
Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento in favore del contro-ricorrente delle spese del giudizio.