La Corte d’Appello di Lecce confermando la sentenza dei giudici di primo grado condannava un venditore che si era reso responsabile per i reati di estorsione e minacce.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso presso la Suprema Corte l’uomo, lamentando tra gli altri motivi la scarsa attendibilità della persona offesa e deducendo l’assenza di correlazione tra le minacce “dubbie” e le richieste di denaro.
Il ricorso risulta integralmente inammissibile.
La Suprema Corte ritiene che la Corte d’Appello abbia già motivatamente ritenuto l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, confermata dalle ulteriori testimonianze raccolte nonché “dall’invincibile dato documentale costituito dal contenuto dei messaggi vocali e di testo presenti nel telefono della vittima”.
Nella vicenda di specie “le minacce formulate dall’imputato all’indirizzo della persona offesa e le richieste di corresponsione di somme di denaro avevano avuto luogo nel medesimo contesto spazio-temporale”.
Indiscutibile secondo i Giudici la sussistenza del reato di cui all’art. 612 c.p. giacché ai fini dell’integrazione di tale delitto “la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima”.
Come correttamente osservato dalla Corte d’Appello, “la lettura del contenuto della comunicazione intercorsa tra l’imputato e la p.o., al di là delle giustificazioni addotte, è assolutamente dirimente nel senso accusatorio”.
Il ricorrente, infatti, aveva ingiunto alla vittima “di contattare l’acquirente al fine di comunicargli il proprio volere” e minacciato di “spaccare la testa ad entrambi, ove non avessero congiuntamente accondisceso al proprio volere”.
Con la sentenza n.19/22 del 4 gennaio la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.