Separazione: nessuna violazione se il provvedimento del giudice è troppo vago

La pronuncia della Cassazione Penale n. 1748 del 2018 investe il tema delle modalità con cui, in sede di separazione, sono stabilite le condizioni per frequentare la prole. Nel caso di specie, il giudice attribuiva al genitore non affidatario –  il padre –  la più amplia libertà di incontrare la figlia. Questa previsione, se nelle intenzioni del Tribunale doveva mirare al consolidamento del rapporto padre-figlia, aveva ingenerato in realtà grande confusione, acuendo il tasso di conflittualità con l’altro genitore.

L’uomo infatti, aveva convenuto in giudizio la donna, contestandole di non avergli permesso di frequentare la bambina, in particolare durante le vacanze estive e pasquali, e aveva chiesto la condanna ed il risarcimento del danno ex art 388, co 2, c.p. La donna però, condannata nei primi due gradi di giudizio per il reato di violazione dolosa di provvedimento del giudice, riusciva a dimostrare di non aver mai volontariamente impedito la loro frequentazione, ma che il provvedimento del giudice di prime cure la costringeva ad una condotta realisticamente impossibile da mantenere. La vaghezza e la genericità di questo avevano inasprito ancora di più i rapporti fra i due genitori.

La Cassazione, accogliendo le difese della donna, ha ritenuto non sussistente il reato in questione, chiarendo che lo stesso si configura «solo quando da parte del coniuge affidatario ci sia una precisa volontà di non far vedere il figlio all’altra parte». Per il reato ex art. 388 c.p. deve sussistere, quindi, un vero e proprio intento di eludere l’obbligo imposto dal giudice. La Corte ha evidenziato come, invece, fosse da censurare il provvedimento stesso del tribunale, e non la condotta della donna, indicando espressamente che il ragionamento probatorio compiuto dalla Corte di merito fosse viziato nella sostanza e che la sentenza dovesse essere annullata con rinvio per un nuovo esame. Il provvedimento del Presidente del Tribunale nel caso di specie, definito apoditticamente dalla Suprema Corte come «vuoto e generico» aveva avuto come conseguenza diretta che «l’imputata, per non rischiare di commettere suo malgrado il reato ascrittole, avrebbe dovuto essere a disposizione dell’arbitrio dell’ex marito, ogni momento ed ogni giorno, senza potersi mai allontanare da casa, neppure per esigenze contingenti della figlia, come un ricovero in ospedale».

La Corte di merito, pertanto, dovrà  chiarire i punti indicati e verificare se e in che limiti il comportamento della donna sia ascrivibile nell’ambito della fattispecie di reato contestata.