Facebook: il ”Safe harbor” si può disapplicare

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Per le banche il divieto di anatocismo , o meglio la possibilità di calcolare gli interessi non solo sulla quota capitale, ma sul capitale maggiorato degli interessi già maturati nelle mensilità precedenti, opera immediatamente. La recente modifica del Testo Unico Bancario – ad opera della legge di stabilità 2014 che dispone definitivamente il divieto di anatocismo – deve pertanto riconoscersi nell’art. 120 TUB così come modificato. In questi termini si esprime il Collegio di Coordinamento ABF, confermando il divieto di anatocismo anche in assenza della delibera attuativa del CICR. Secondo il Collegio ciò non rappresenta un limite al divieto di anatocismo, essendo l’art. 120 esplicito sul punto dichiarando che: “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che:
a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori;
b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.
Nel caso di specie, un correntista titolare di un contratto in conto corrente bancario ricorreva all’ABF di Milano contestando alla propria banca la capitalizzazione degli interessi a debito con conseguente anatocismo. L’ABF di Milano, rilevata la particolare novità della questione, deliberava di rimettere l’esame della controversia al Collegio di Coordinamento, il quale, seppur rigettando il ricorso del correntista, ammetteva l’applicazione dell’art. 120 TUB anche in assenza della delibera attuativa del CICR.
Sul punto gli arbitri affermano, nella decisione 08/10/2015 n° 7854, che seppur infondate e non provate le pretese del ricorrente “il nuovo art. 120 TUB trova immediata esecuzione anche a prescindere dall’emanazione della pur prevista delibera”. Il Collegio muove la sua interpretazione dalla relazione di presentazione della proposta di legge alla Camera, la quale afferma “la presente proposta di legge intende stabilire l’illegittimità della prassi bancaria in forza della quale vengono applicati sul saldo debitore i cosiddetti interessi composti, o interessi sugli interessi … la proposta di legge, che per la prima volta tipizza l’improduttività degli interessi composti, intende mettere la parola fine a un comportamento riconosciuto illegittimo dalla giurisprudenza, ma costantemente tollerato dal legislatore”.
Si attribuisce quindi alla delibera del CICR una mera funzione indicativa circa le modalità di calcolo degli interessi semplici e questa non potrà in ogni caso determinare la produzione di ulteriori interessi sugli interessi. Sul punto, il Collegio prosegue “ipotizzare … che senza la nuova delibera del CICR, l’anatocismo bancario possa sopravvivere in base alla vecchia delibera … significa postulare un sovvertimento dei fondamentali rapporti gerarchici tra fonti del diritto e fors’anche una inammissibile alterazione costituzionale del rapporto tra poteri dello Stato … la stessa Banca d’Italia dà per scontata l’avvenuta entrare in vigore del divieto di anatocismo e riconosce che la delega al CICR riguarda solo la periodicità di contabilizzazione degli interessi e il termine per la loro esigibilità”.
Infine, il Collegio di Coordinamento dell’ABF ribadisce il divieto di anatocismo tout court nei rapporti bancari, vigente a partire dalla Legge di stabilità 2014.

09/11/2015

Il Tribunale di Bari affronta uno degli argomenti più dibattuti in ambito bancario: l’usurarietà del tasso di mutuo. Sulla base dell’art. 644 c.p. e della sentenza della Cassazione n. 350 del 9 gennaio 2013, ribadisce la necessità di computare anche la penale di estinzione anticipata oltre al tasso di mora.
Ebbene l’ordinanza del 19/10/2015 statuisce che “ai fini della verifica della usurarietà del tasso convenuto nel contratto di mutuo deve tenersi conto non solo del tasso di interessi convenuto ma anche di tutti gli altri costi previsti in contratto, sia quelli certi (come le spese di istruttoria e quelle per l’assicurazione dell’immobile o degli immobili concessi in garanzia) che quelli eventuali quali possono essere gli interessi moratori (dovuti in caso di inadempimento nel pagamento delle rate di mutuo) e la commissione per estinzione anticipata». Bisogna pertanto «cumulare gli interessi moratori con la commissione anticipata».
Tale ordinanza precisa inoltre che il calcolo deve essere effettuato con riferimento al capitale concesso quando vengono pattuite le condizioni contrattuali del mutuo, così come prescrive la legge.
Pertanto, nel caso specifico, il Tribunale di Bari ha accolto la domanda di sospensione della procedura esecutiva nei confronti del mutuatario. L’usurarietà del tasso convenuto “dato dalla sommatoria del tasso convenzionale, di quello di mora, delle spese di istruttoria e di assicurazione, nonché dell’1,50% per estinzione anticipata”, infatti, determina la gratuità del mutuo ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c.. e pertanto, “alla data in cui è stato intimato il precetto l’opponente aveva pagato una somma superiore a quella dovuta per le rate scadute della sola sorte capitale sicché il credito azionato in via esecutiva è privo del requisito dell’esigibilità atteso che la Banca opposta non poteva avvalersi della clausola risolutiva espressa non essendosi verificato alcun inadempimento dell’opposta al pagamento di quanto dovuto fino a quel momento per sorte capitale”.

06/11/2015

La Circolare emanata dal Ministero della Giustizia il 23/10/2015 propone un freno ad atteggiamenti non univoci ravvisati dall’inizio della fase operativa del processo telematico in materia civile, e si prefigge di essere un utile espediente per l’adozione di deter­minazioni unitarie, con­cretamente perseguite mediante la costituzione di corpus unico e periodicamente aggiornato.
È bene richiamare gli effetti pratici discendenti dalle disposizioni del D.L. 83/2015 poi convertito nella L. 132/2015 e, soprattutto, a quella parte che rende possibile “….il deposito telematico di ogni atto diverso da quelli previsti dal comma 1 e dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica am­ministrazione per stare in giudizio personalmente”.
Ad essi si riferisce il rapido e schematico riassunto delle modalità di deposito alla data odierna.
Ufficio
Tipo atto
Regime del deposito
Tribunale
Atto introduttivo / primo atto difensivo
Telematico o cartaceo a scelta della parte (in caso di depo­sito telematico, questo è l’unico a perfezionarsi)
Corte d’appello
Atto introduttivo / primo atto difensivo
Telematico o cartaceo a scelta della parte (in caso di depo­sito telematico, questo è l’unico a perfezionarsi)
Tribunale
Atto endoprocessuale
Esclusivamente telematico
Corte d’appello
Atto endoprocessuale
Esclusivamente telematico
Al punto 2 si delineano poi le disposizioni per la “tenuta del fascicolo su supporto carta­ceo” individuando il perentorio principio che pare destinato ad accompagnare la vita del processo ci­vile (cartaceo o telematico esso sia). Gli obblighi di conservazione dei documenti originali unici su supporto cartaceo previsti dal C.A.D. e la disciplina processuale vigente mantengono la loro validità a prescindere dal pas­saggio al siste­ma di processo telematico. Illustrando ipotesi non esaustive di produzione cartacea, la circolare precisa come quella seguente l’ordine del giudice ai sensi dell’art. 16 bis comma 9 D.L. 179/2012 “…sarà oggetto di formale atte­stazione di deposito da parte della cancelleria e sarà inserito nel fascicolo cartaceo del proces­so…” esclu­dendo tale adempimento nel caso in cui il deposito cartaceo sia informalmente allegato da una delle parti (cfr. capo 4 della stessa circolare).
Quid juris per l’ipotesi in cui il deposito della copia di cortesia più che alla cortesia si riconduca al provvedimento giudiziale contenente invito od ordine alla produzione cartacea?
Sembrerebbe doversi pensare che anche quella copia (proprio perchè “ordinata”) debba essere desti­nata ad attestazione del deposito ed all’inserimento nel fascicolo cartaceo.

Al punto 3 viene ribadito un concetto complessivamente scontato e già formulato in prece­denza: la disposizione dell’art. 111 disp. att. c.p.c. (rifiuto del cancelliere di inserimento di compar­se non comunicate alle altre parti e di cui non vengano consegnate le copie in carta libera …”) non si applica al caso in cui il deposito si perfezioni telematicamente (perché obbligatorio o facoltativo).
Le cancellerie, dunque, saranno tenute ad accettare il deposito degli atti endoprocessuali inviati in forma telematica, senza doverne rifiutare il deposito per il fatto che non sia stata allegata co­pia cartacea.
Alle “Copie informali” si riferisce il capo sub 4 del documento in esame dichiaratamente differenziato dalle copie depositate per ordine del giudice ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9, D.L. 179/2012, e quindi riferite alla copia cartacea informale dell’atto o documento depositati te­lematicamente.
La soluzione finisce per riproporre gli obblighi discendenti, per la cancelleria, dal di­sposto di cui al­l’art. 36 disp. att. c.p.c. ipotizzando la formazione di un fascicolo cartaceo che rischia peraltro di co­stituire pericoloso vulnus al proclamato processo di digitalizzazione, lasciando aperte le porte ad un fascicolo prevalente­mente cartaceo (quantomeno alla stregua delle criticità sul PCT segnalate da una parte delle rappre­sentanze della magistratura) ed assicurando ulteriore quanto inutile conviven­za tra le due tipologie di materiale (l’uno ufficiale e l’altro eventuale e non necessitante finanche di alcuna annotazione).
“Dall’esclusività, o anche dalla mera facoltà del deposito telematico deriva l’esigenza, as­solutamente prioritaria, di garantire la tempestiva accettazione degli atti e documenti depositati dalle parti.”
E’ così che il Ministero introduce la disposizione di cui al punto 5 destinata a regolamentare i tempi di lavorazione degli atti da parte delle cancellerieescludendo, in maniera perentoria, che “…possa­no trascorrere diversi giorni tra la data della ricezione di atti o documenti e quella di accettazione degli stessi da parte della cancelleria.”
Meno perentorio l’invito sul punto formulato e che viene rimesso ad amichevole consiglio preordin­ato a fare in modo che quella procedura “…sia eseguita entro il giorno successivo a quello di ricez­ione da parte dei sistemi del dominio giustizia.”.
Di nuova introduzione il paragrafo al punto 7.1, teso a risolvere una problema­tica riconducibile all’iscrizione della causa in un registro diverso da quello di perti­nenza ai fini del versamento del contributo unificato.
Non essendo, al momento, previsto il trasferimento interno tra i diversi registri del fascicolo telema­tico, il Ministero delinea una norma di comportamento ragionevolmente non pregiudizievole per l’avvocato che dovesse avere involontariamente errato, prevedendo che in questo caso “…la cancel­leria non potrà richiedere il versamento di un nuovo contributo unificato per tale seconda iscrizio­ne al ruolo (in quanto, come si è visto, nell’ipotesi sopra descritta è solo avvenuto un passaggio del medesimo atto introduttivo da un ruolo ad un altro dello stesso ufficio), ma soltanto l’eventuale in­tegrazione dello stesso in conseguenza della diversità del rito.”
Sul punto 8, la domanda di ingiunzione di pagamento europea individua una procedura in ordine alle diverse modali­tà di proposizione del ricorso quali delineate dall’art. 7, § 5, del regolamento (CE) n. 1896/2006 che affida la modalità di presentazione della domanda al supporto cartaceo o tramite qualsiasi altro mezzo di comunicazione, anche elettronico, accettato dallo Stato membro d’origi­ne e di cui dispone il giudice d’origine.
Avendo l’Italia a suo tempo privilegiato il supporto cartaceo, ne discende che sia questa la modalità in grado di assicurare la possibilità di presentare la domanda di ingiunzione anche a soggetti stranie­ri che siano privi di difensore. Le cancellerie accetteranno, dunque, il deposito su supporto cartaceo della modulistica relativa alle domande di ingiunzione europea di pagamento.

Le ultime disposizioni “nuove” re­golamentate dalla circolare ministeriale riguardano la possibilità di inserire nei registri di cancelleria, l’intero collegio giudicante (punto sub 18). La problematica continua ad investire una variegata ipotesi di fattispecie in cui il giudicante viene chiamato a pronunciarsi in composizione collegiale ed, in particolare, nelle cause davanti alla Corte d’Appello; giustificata, in questo caso, l’esigenza di acconsentire l’accessibilità del fascicolo al Con­sigliere relatore ma anche agli altri magistrati componenti oltre che al Presidente.
All’artigianale determinazione locale che assicurava questa esigenza mediante messa a disposizione, a tutti i magistrati coinvolti, di copie cartacee degli atti e dei documenti processuali, subentra la mo­dalità unica di accesso mediante la consolle del magistrato che, al momento, consente la consulta­zione dei singoli fascicoli soltanto ai magistrati assegnatari, e non agli altri di cui pertanto il mini­stero raccomanda l’inserimento. Le cancellerie vengono quindi invitate ad “…inserire correttamen­te i dati in questione nei registri elettronici…”
La disposizione seguente (18.1) risolve altra ed annosa problematica ravvisata nel quotidia­no rapporto tra avvocati ed uffici giudiziari. Benchè sia ormai pacifica l’intervenuta titolarità, in seno al difensore, del domicilio digitale con esonero dalla necessità di indicazione del domiciliatario locale, permane l’uso di indicare nell’atto la presenza di entrambi i professionisti, senza che il dato confluisca però nel fascicolo telematico in cui è dato rinvenire il nominativo del solo dominus od addirittura il solo domiciliatario.
Posto che tutti i difensori della parte hanno diritto alla comunicazione e non soltanto taluni di essi, viene raccomandato, al personale di cancelleria, adeguata attenzione ed inserimento nel fascicolo tanto del/dei difensore/i quanto dell’eventuale domiciliatario.
Meritevole di apprezzamento è la nota fi­nale apposta in calce alla circolare e consistente di invito a volersi astenere dalla sua stampa perchè contenente “…collegamenti ipertestuali a siti istituzionali (cfr. parti sottolineate nei para­grafi 11 e 14) che andrebbero persi consultando il documento stesso su carta…” ed escludereb­be l’utilità deri­vante dalla predisposizione dei collegamenti ipertestuali contenuti nell’indice e preor­dinati ad age­volare la consultazione a monitor.

05/11/2015

Mentre il disegno di legge di Stabilità 2016 prosegue l’iter parlamentare, si delinea con maggiore chiarezza la cosiddetta misura “opzione donna”: alle lavoratrici che sceglieranno di andare in pensione in anticipo, a 58 anni, la pensione, che dovrebbe essere calcolata con un sistema misto retributivo-contributivo, viene invece interamente misurata con il contributivo. Si tratta di una norma che comporterà per circa 36.000 donne di avere una pensione piuttosto ridotta. L’Anief ipotizza, infatti, che una lavoratrice con 35 anni di contributi che avrebbe potuto godere di un assegno mensile di 1.400 euro netti, scenderà sotto i 1.000 con la pensione anticipata. Considerata un’aspettativa di vita media di 30 anni per chi va in pensione adesso, la perdita può essere calcolata in oltre 140.000 euro.

La pensione anticipata è ambita dalle lavoratrici che non intendono continuare a lavorare fino alle soglie dei 68 anni, come prevede la legge Fornero.
Dichiara l’Istat: il 51,4% dei nati al di sotto dei due anni è accudito dai nonni, mentre solo il 37,8% frequenta un asilo nido; la baby sitter viene scelta come modalità di affido prevalente solo nel 4,2% dei casi, evidentemente è un lusso che pochi possono permettersi. Secondo un’indagine Censis sono 9 milioni in Italia i nonni che si occupano dei nipoti. Ma la carenza di assistenza e servizi adeguati si ripropone anche quando gli anziani sono in età troppo avanzata per prendersi cura dei nipoti. Il Presidente dell’Istat del 2001 Giovannini avvisava: “Le donne vivono una inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro. Per di più, il carico di lavoro familiare e di cura gravante su di loro rende più vulnerabile un sistema di ‘welfare familiare’ già debole”. L’unico rimedio che sembra pervenire da un legislatore apparentemente comprensivo è la sola riduzione della durata dei tempi lavorativi, purché siano le stesse donne a farsi carico di una parte consistente dei costi.

02/11/2015

Si configura il danno biologico se la vittima, nella frazione di tempo intercorrente tra l’evento ed il decesso, ha coscienza del sopraggiungere della fine.

Così ha disposto la Corte di Cassazione, che è tornata a pronunciarsi sul tema, (Cass. n. 7126 del 2013, Cass. n. 23183 del 2014, Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 12722 del 19/06/2015) con l’ordinanza n. 20767/15, depositata il 14/10. Nel caso di specie, la madre e il fratello di una vittima di incidente stradale hanno impugnato con ricorso in Cassazione la decisione della Corte d’Appello di Milano: questa aveva ridotto l’ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale.
In particolare, col terzo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentavano il mancato riconoscimento del danno biologico patito dalla vittima nell’arco di tempo intercorrente tra le lesioni subìte e l’evento infausto. Sostenevano infatti che la vittima fosse rimasta cosciente e che tale circostanza fosse stata provata in giudizio.

In ossequio al consolidato principio secondo cui la paura di morire, provata da chi abbia subìto lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, configura un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima fosse stata in grado di comprendere la gravità della propria condizione e l’imminenza della propria fine, la Suprema Corte ha ritenuto tale motivo manifestamente infondato. Pertanto, in assenza di tale consapevolezza, non si delinea l’esistenza del danno in questione. Se la Corte d’Appello ha ritenuto che la vittima fosse rimasta in stato di incoscienza nell’intervallo tra vulnus ed exitus, per cui tale danno biologico, ed il relativo diritto al risarcimento non è entrato nel patrimonio della stessa né è stato trasmesso agli eredi; gli Ermellini hanno precisato che non spetta alla Cassazione accertare se la vittima fosse stata cosciente o meno, trattandosi di una questione di merito, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità.

Per le sopraposte argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

30/10/2015

Il problema della rigidità della Riforma Previdenziale Fornero, e della necessità di un suo cambiamento, è stato oggetto di ampie discussioni: si auspica una nuova pensione anticipata flessibile che possa essere attuata con La Legge di Stabilità 2016.
Complice una sempre maggiore precarietà del mercato del lavoro, molte soggetti si ritrovano contributi sparsi tra diverse gestioni Inps, non tutti sufficienti per maturare un trattamento autonomo: questi versamenti, però, messi insieme, possono essere recuperati, e costituire anni di contribuzione in più, utili a raggiungere prima e ad aumentare la pensione. Bisogna dunque considerarli come una risorsa, non rassegnarsi e lasciarli all’Inps come contributi silenti: se le somme non confluiscono in una pensione, infatti, vengono incamerate dall’Istituto, che non ne prevede la restituzione.
Di seguito, si elencano i modi per recuperare quanto versato e raggiungere la pensione in anticipo: alcuni di essi comportano dei costi per il lavoratore, altri sono gratuiti.
– La ricongiunzione
Il primo modo per recuperare gli anni di contributi consiste nel ricongiungerli alla gestione nella quale matura la pensione: la ricongiunzione, tuttavia, non è gratuita, e comporta degli esborsi piuttosto onerosi.
I costi dell’operazione aumentano notevolmente con l’avanzare dell’età, e variano in base al sesso del richiedente, al numero di anni da ricongiungere ed alla collocazione temporale dei periodi da recuperare. L’onere è legato al beneficio pensionistico che il lavoratore consegue: maggiori sono i vantaggi, maggiore è il costo.
La ricongiunzione non è ammessa per i contributi versati nella Gestione Separata.
– La totalizzazione
Per recuperare la contribuzione e collocarsi prima a riposo senza costi, si può utilizzare, al posto della ricongiunzione, la totalizzazione: grazie a questo istituto, che è applicabile sia alla pensione di vecchiaia, che a quella d’anzianità, si possono infatti cumulare gratuitamente i contributi.
I requisiti per il trattamento di vecchiaia e d’anzianità sono differenti da quelli previsti dalla Legge Fornero, ed il calcolo viene effettuato col contributivo, gestione per gestione, a meno che non si raggiunga il diritto ad autonoma pensione in una di esse (purchè si tratti di una gestione Inps o Inpdap).
– Il cumulo, o totalizzazione retributiva
Si tratta di un nuovo istituto simile alla totalizzazione, previsto dalla Legge di Stabilità 2013: oltre a consentire l’unione dei periodi lavorativi, permette di calcolare la quota di trattamento maturato presso ciascuna cassa secondo le regole del fondo, non per forza col contributivo. Il contributivo si applica agli anni posteriori al 1996 per chi ha meno di 18 anni di contributi al 31.12.1995, nonché, per tutti, da gennaio 2012 in poi.
Ci sono tuttavia dei casi in cui il cumulo retributivo non può essere utilizzato: se, infatti, si matura la pensione di vecchiaia autonomamente, presso una delle gestioni in cui risultano versati i contributi, non è consentito; parimenti, non si può utilizzare per la contribuzione accantonata presso le casse professionali e per la Gestione Separata.
– Il cumulo per artigiani e commercianti
Grazie ad una nota legge del 1990, i contributi versati alla Gestione Inps Artigiani e Commercianti possono essere uniti con la contribuzione da lavoro dipendente (cioè quella versata presso il fondo dei lavoratori dipendenti Inps- FPLD). L’assegno si otterrà sommando le due quote di pensione, calcolate separatamente sui contributi da lavoro dipendente e su quelli da artigiano/commerciante. Ovviamente, i periodi da lavoro dipendente e autonomo, sommandosi, consentono di raggiungere prima la pensione.
Per raggiungere in anticipo il pensionamento, può essere utile recuperare anche vecchi rapporti di lavoro privi di contribuzione, perché non versata dal datore. È , però, necessario provare che il rapporto di lavoro sia realmente esistito, presentandosi all’Inps con documenti di data certa riferibili ai periodi lavorati: inoltre, se il vecchio datore si rifiutasse di versare i contributi mancanti, spetta al lavoratore riscattarli, pagando il relativo onere, salvo la possibilità di far causa all’azienda per il danno subito.
Può essere senz’altro utile anche riscattare gli anni di laurea o di un altro ciclo di studi: in particolare, oltre agli anni del corso di laurea, è possibile riscattare, dal 12.07.1997, per gli iscritti all’Inps, anche i seguenti corsi di studi universitari:
Diploma di laurea conseguito dopo un corso almeno pari a 4 anni;
Diploma di specializzazione ottenuto dopo la laurea ed al termine di un corso di almeno 2 anni;
Diploma universitario ottenuto dopo un corso di durata tra 2 e 3 anni;
Dottorato di ricerca :anche in questo caso, l’Inps offre la possibilità di aggiungere gli anni scoperti, in cambio del pagamento di un onere, che varia in base all’età, alla collocazione temporale dei periodi, ed alla retribuzione o reddito del contribuente.
Ogni strategia per raggiungere in anticipo la pensione va valutata e pianificata il prima possibile, eventualmente con l’aiuto di un professionista esperto del settore previdenziale ed imparziale, come un consulente del lavoro: più gli anni corrono e più aumentano i costi di riscatti e ricongiunzioni.

27/10/2015

La Suprema Corte, sez. V Penale, con sentenza del 8 giugno – 6 agosto 2015, n. 34406 affronta uno degli innumerevoli casi di diffamazione realizzati a mezzo Internet, dimostrando una particolare fiducia moderni mezzi di accertamento del reato, tale da consentire di superare le rigidità dei tradizionali strumenti probatori.
Il caso di specie riguarda l’ex marito di una donna che posta su un sito web – in data 22/1/2008 e 27/7/2008 – due annunci apparentemente provenienti dalla stessa, nei quali quest’ultima offriva prestazioni di natura sessuale, diffondendo, inoltre i numeri di telefono di riferimento. A seguito del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Chieti e del successivo giudizio confermativo di Appello, l’imputato viene accusato e condannato per reati di diffamazione (artt. 81, 110, 595 cod. pen. e 13 della legge sulla stampa) e trattamento illecito di dati personali (artt. 81 cod. pen. e 167 D.lvo 30/06/2003, n. 196).

La Corte di Cassazione, a seguito di ricorso, viene chiamata in causa dalla difesa dell’imputato al fine di esaminare l’attendibilità dei mezzi probatori fatti valere in giudizio. La difesa, addentrandosi in questioni di carattere squisitamente tecnico, sostiene che nessun accertamento sia stato svolto sul computer dell’imputato e sul disco fisso dello stesso, nessuna verifica circa le connessioni e l’attività svolta dall’utilizzatore. La difesa sostiene altresì che l’indirizzo IP identifica un dispositivo che può disporre di più di un’ interfaccia, per cui nulla esclude che il router dell’imputato – non protetto da password – sia stato utilizzato da terzi (classico caso di wardriving).

La Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo estremamente affidabili gli accertamenti tecnici esperiti dagli organi giudiziari che consentono, in particolare, di ritenere che l’annuncio diffamatorio sia stato creato e disposto in rete da un dispositivo – collegato alla rete informatica – identificato dall’ IP (Internet Protocol Address) associato, al router dell’imputato. Questo si trovava infatti allocato presso l’abitazione della madre, presso cui l’imputato abitava, ed il collegamento risultava avvenuto attraverso l’utenza della madre. Tali elementi sono incontestabili non solo per l’indubbia rilevanza di carattere tecnico, ma anche per un chiaro percorso di carattere logico-deduttivo dal momento che l’imputato era in dissidio con la moglie in ordine all’attribuzione della casa familiare e all’affidamento dei figli.
Risultano quindi superate e infondate tutte le critiche mosse dalla difesa sia sulla stampa del messaggio che sulle ulteriori “lacune probatorie” imputate agli inquirenti.

Completamente irrilevante, poi, è l’affermazione secondo la quale i “router” possano presentare più di un’interfaccia in quanto, per la tipologia di impianti utilizzati presso le utenze domestiche, le diverse interfacce adottano indirizzi IP privati diversi, ma ne condividono uno unico verso la rete pubblica che consente l’identificazione del dispositivo cui è assegnato (in una determinata finestra temporale). Quanto all’eventualità del wardriving, si tratta di mera ipotesi, del tutto congetturale, che è stata logicamente scartata in base alla considerazione che nessun altro avesse interesse a diffamare l’ex moglie dell’imputato.

La sentenza dimostra, quindi, un mutato atteggiamento della giurisprudenza della Suprema Corte che prende coscienza delle indubbie caratteristiche dell’attuale tecnologia di rete e si allontana definitivamente dalle prime pronunce ancora diffidenti verso lo strumento tecnologico. La decisione dimostra che sul fronte tecnico-normativo c’è ancora un lungo percorso da affrontare, poiché di fronte alle contestazioni della difesa, la Corte è stata costretta a ricorrere a presunzioni di carattere generale per superare eccezioni sia giuridiche che tecniche.

23/10/2015

Nell’ambito della cessione di azienda, i contratti non ancora eseguiti e privi carattere personale, comportano il subingresso del cessionario e l’esclusione della responsabilità del cedente.

Così è stato precisato nella sentenza 09/06/2015 n° 2391 del Tribunale di Taranto, sez. II civile in cui la parte creditrice aveva agito in monitorio nei confronti della cedente dell’azienda: nella fase di opposizione da parte dell’azienda quest’ultima incentrava la propria difesa sul difetto di legittimazione passiva. Nella prima parte della decisione si precisa che trattandosi di una forma di cessione del contratto trova applicazione l’articolo 1408 c.c.: al II comma si precisa che il contraente ceduto (nel caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice la società che aveva venduto la merce alla cedente il ramo di azienda/opponente) deve dichiarare per tempo di non liberare il cedente, altrimenti non potrà agire contro di lui in caso d’inadempimento del cessionario. Nella sentenza in esame si comprende la distinzione operata dalla Suprema Corte in materia tra “debiti puri e debiti relativi a contratti non ancora eseguiti, allo scopo di ammettere la solidarietà del cedente come effetto naturale seguito alla cessione d’azienda solo quando si tratti di debiti puri, cioè per controprestazioni già eseguite e passate ormai nel patrimonio della cedente.

Negli altri casi invece, e cioè quando al momento della cessione dell’azienda – o di un suo ramo – il contratto, pur se già perfezionatosi ai sensi dell’art. 1406 c.c. ma non sia ancora eseguito, vale l’opposta regola dell’effetto naturale della esclusione della responsabilità del cedente, se il contraente ceduto non abbia espressamente dichiarato di liberarlo”. Si precisa che la consegna della merce da parte del creditore in favore del cessionario si configura quale implicita volontà di subingresso nel contratto di vendita che non sia ancora eseguito. Con riguardo alla fattura di maggiore importo è risultato pacificamente che non solo il contratto non aveva avuto esecuzione – a differenza della prima fattura, la cui merce era stata già regolarmente consegnata dalla cedente – ma la consegna della merce avveniva in favore della cessionaria del ramo d’azienda. Comportamento concludente questo nel senso dell’avvenuta accettazione della cessione del contratto, posto che la consegna diretta della merce alla cessionaria la implica necessariamente.
Da ciò ne può derivare, stante anche la pacifica assenza di dichiarazione di non liberazione del cedente, l’esclusione di responsabilità solidale di quest’ultimo ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 1408 c.c. II comma in combinato disposto con l’articolo 2558 c.c.
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, nella decisione in commento il Tribunale in composizione monocratica ha provveduto al rigetto di ogni domanda ed eccezione provvedendo all’accoglimento parziale dell’opposizione con revoca del decreto ingiuntivo opposto e condannando l’opposta alla restituzione in favore dell’opponente di una parte della somma oltre interessi.

20/10/2015

Una recente ed innovativa statuizione della giurisdizione civile ha ad oggetto i “coupon”, quei pacchetti promozionali, quelle note offerte online, che costituiscono un’ affascinante attrattiva di tanti consumatori virtuali. Dopo la sentenza del Giudice di Pace di Taranto del 11.05.2015, con la quale si sancisce la vessatorietà della clausola del coupon che stabilisce, nell’ipotesi di reclamo sulla fruizione dell’offerta acquistata, l’obbligo per il consumatore di rivolgersi esclusivamente al commerciante, anche il Giudice di Pace di Napoli sposa la teoria del risarcimento del danno da “vacanza rovinata”.

Il predetto Giudicante con sentenza 28288/15 del 27.7.2015 ha condannato una nota Società emittente di coupon non solo al mero rimborso del “coupon” non goduto (causa overbooking della struttura convenzionata), ma anche al risarcimento del danno per il mancato godimento del soggiorno.

Con atto di citazione ritualmente notificato, la Sig.ra Chiara, conveniva in giudizio dinanzi il Giudice di Pace di Napoli, la Società G. srl – in persona del legale rappresentante p.t. -, affinchè venisse condannata al risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in seguito all’acquisto di due coupon aventi ad oggetto un pernottamento per due persone presso la struttura A. Resort (Capaccio), con colazione e pranzo inclusi, al prezzo complessivo di €98,00. Il soggiorno doveva essere previamente prenotato presso la struttura alberghiera, la quale tuttavia replicava di non avere disponibilità, accettando prima e disdicendo poi la prenotazione. Tale circostanza si protrae sino al 12.04.2013 quando il Resort A. comunica di avere disponibilità nel settembre 2013, pertanto venne scelta e concordata una data tra quelle possibili. Pochi giorni prima della partenza, l’albergo contatta la Sig.ra Chiara per comunicarle l’impossibilità di usufruire del servizio oggetto del pacchetto promozionale. L’istante è quindi costretta a rinunciare ai coupon acquistati e chiede contestuale rimborso alla Società G. srl, la quale rifiuta di rimborsare il coupon poiché scaduto.

La Sig.ra Chiara adisce all’autorità giudiziaria chiedendo di dichiarare l’inadempimento delle obbligazioni scaturenti dai due coupon e per l’effetto condannare la Società G. srl al rimborso della somma di €98,00 nonché al risarcimento del danno da vacanza rovinata nei limiti di €1.000 vinte le spese di lite.

La Società G. srl non si costituisce, pertanto, se ne dichiara la contumacia.

Il caso è stato deciso con sentenza del 27.07.2015 dal Giudice di pace di Napoli – nella persona della Dott.ssa Rosetta Miele -, che ha condannato la Società G. srl al il rimborso della somma pagata per l’acquisto di due “coupon” a titolo di risarcimento danni patrimoniali, oltre al risarcimento danni non patrimoniali, e al pagamento delle spese processuali.

Alla base della predetta statuizione, vi è la prova testimoniale offerta dal Sig. Luca – fidanzato della Sig.ra Chiara – , il quale confermava di aver avuto diversi contatti telefonici con la struttura alberghiera de quo, e che, peraltro, pur disponendo di e-mail di conferma di prenotazione, all’avvicinarsi della partenza, contattava l’albergo e scopriva che all’indirizzo indicato vi era ben altra struttura, venendo altresì a conoscenza che A. Resort non esisteva più e che la seconda struttura aveva messo a disposizione delle proprie camere al fine di ultimare i suddetti coupon; inoltre gli veniva proposto di soggiornare in quest’ultima struttura ma a tariffa intera ordinaria.

A questo punto, il Sig. Luca chiedeva rimborso del coupon, senza mai ottenere esito positivo. A parere dell’on.le Giudicante appareva quindi evidente la responsabilità della Società G. srl, la quale avrebbe dovuto controllare la veridicità delle informazioni presenti sulle brouchure prima di consigliare tali pacchetti ai consumatori. Pertanto, riteneva sussistente la responsabilità del prestatore del servizio che assume un’obbligazione di risultato e che nel caso di specie aveva fornito un alloggio non conforme alle richieste e a quanto ragionevolmente poteva attendere un turista di media aspettativa come la Sig.ra Chiara. Il convenuto G. srl si era quindi reso inadempiente agli obblighi contrattualmente assunti, non dimostrando l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Inoltre, l’On.le Giudicante riteneva che l’istante abbia dimostrato di aver subito un pregiudizio sostanziatosi nel disagio e nell’afflizione di non aver potuto godere delle vacanze come occasione di piacere, svago o riposo, oltre ai sofferti disagi psicologici; per di più, il gradevole svolgimento della vacanza, si qualifica come un valore degno di tutela e pertanto, il danno conseguente al suo mancato godimento, assume una specificità tale da giustificarne l’indennizzo. Tale danno viene qualificato quale danno morale, sulla base della giusta interpretazione dell’art.5 della Direttiva n.90/3I4/CEE, data dalla Corte di Giustizia con sentenza n.168 del 12.3.2002: il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione del viaggio “tutto compreso”.

Per tali motivi, l’Ill.mo Giudice di Pace di Napoli ha condannato la Società G. srl – in persona del legale rappresentante p.t. -, al pagamento in favore della Sig.ra Chiara della somma di €598,00 ci cui €98,00 per il rimborso della somma pagata per l’acquisto di due “coupon” a titolo di risarcimento danni patrimoniali, ed €500,00 a titolo di risarcimento danni non patrimoniali.

16/10/2015

La Corte di Giustizia Europea nella sentenza 06/10/2015 n° C‑362/14 formula due importanti conclusioni, una di carattere procedurale e l’altra di carattere sostanziale che potranno incidere sul regime giuridico dei social network.

Il caso di specie è quello di un cittadino austriaco il sig. Maximilian Schrems, utente di Facebook dal 2008, che presenta una denuncia presso l’autorità irlandese di controllo ritenendo che, alla luce delle rivelazioni manifestate nel 2013 dal sig. Edward Snowden, in merito alle attività dei servizi di intelligence negli Stati Uniti (in particolare della National Security Agency, o «NSA»), il diritto e le prassi statunitensi non offrono una tutela adeguata contro la sorveglianza svolta dalle autorità pubbliche sui dati trasferiti verso tale paese. L’autorità irlandese respinge la denuncia, con la motivazione che, in una decisione del 26 luglio 2000, la Commissione Europea aveva ritenuto che, nel contesto del cosiddetto regime di “approdo sicuro” (Safe Harbor), gli Stati Uniti garantiscano un livello adeguato di protezione dei dati personali trasferiti.

A seguito di tale decisione l’Alta Corte di giustizia irlandese, investita della causa, si rivolge alla Corte di Giustizia al fine di sapere se questa decisione della Commissione produca effettivamente la conseguenza di impedire ad un’autorità nazionale di controllo di indagare su una denuncia con cui si lamenta che un paese terzo non assicuri un livello di protezione adeguato e, se necessario, di sospendere il trasferimento di dati contestato.

La Corte di Giustizia innanzitutto chiarisce un’importante questione di carattere procedurale, statuendo che l’esistenza di una decisione della Commissione che dichiara che un paese terzo garantisce un livello di protezione adeguato dei dati personali trasferiti, non può sopprimere e neppure ridurre i poteri di cui dispongono le autorità nazionali di controllo in forza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della direttiva. Tuttavia, la Corte ricorda che solo essa è competente a dichiarare invalida una decisione della Commissione, così come qualsiasi atto dell’Unione. Di conseguenza, qualora un’autorità nazionale o una persona ritenga che una decisione della Commissione sia invalida, tale autorità o cittadino deve potersi rivolgere ai giudici nazionali affinché, nel caso in cui anche questi nutrano dubbi sulla validità della decisione della Commissione, possano rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia. Pertanto, in ultima analisi è alla Corte che spetta il compito di valutare se una decisione della Commissione sia valida o meno. Entrando nel merito della questione sollevata dal sig. Schrems, secondo la Corte il regime americano dell’approdo sicuro rende così possibili ingerenze da parte delle autorità pubbliche americane nei diritti fondamentali delle persone, e la decisione della Commissione non menziona l’esistenza, negli Stati Uniti, di norme intese a limitare queste eventuali ingerenze, né l’esistenza di una tutela giuridica efficace contro tali ingerenze.

Anche da un punto di vista sostanziale la Corte riconosce che nel diritto dell’Unione non può essere considerata accettabile una normativa che autorizzi in maniera generalizzata la conservazione dei dati personali di tutte le persone i cui dati sono trasferiti dall’Unione verso gli Stati Uniti senza che sia operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione. D’altro canto una normativa che consenta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata al contenuto di comunicazioni elettroniche deve essere considerata lesiva del contenuto essenziale del diritto fondamentale al rispetto della vita privata.

Tutte queste argomentazioni giustificano, quindi, la decisione della Corte di Giustizia circa l’invalidità della decisione della Commissione del 26 luglio 2000.

Tale sentenza comporta, quindi, la conseguenza che l’autorità irlandese di controllo dovrà esaminare la denuncia del sig. Schrems con tutta la diligenza necessaria e decidere se, in forza della direttiva, occorre sospendere il trasferimento dei dati degli iscritti europei a Facebook verso gli Stati Uniti perché tale paese non offre un livello di protezione dei dati personali adeguato.

Con tale sentenza si apre, quindi, una breccia nel solido sistema di conservazione e diffusione dei dati personali, per finalità commerciali, proprio di Facebook come di altre reti sociali, senza alcun rispetto dei diritti fondamentali delle persone. La strada, a parere di che scrive è ancora molto lunga e le insidie sono tantissime, ma almeno la Corte di Giustizia ha fissato alcuni punti fermi.

Tutelare i propri dati personali nel Web 2.0 appare un’impresa sempre più ardua, al punto che in molti si chiedono se sia opportuno parlare ancora di privacy. Non molto tempo fa Mark Zuckerberg intervistato da TechCrunch ha illustrato il proprio punto di vista, definendola un concetto superato, svuotato del suo significato nell’era del Web 2.0, in cui la volontà di custodire le proprie informazioni cederebbe il passo a quella di condivisione. Tale affermazione è basata su un concetto non comprensibile: la libera gestione della propria privacy si fonda su di un elemento essenziale, ossia la consapevolezza, mentre è evidente che un’altissima percentuale degli utenti Facebook abbia, al contrario, una scarsa coscienza delle conseguenze derivanti dalla condivisione delle proprie azioni, esponendosi in questo modo a rischi non previsti.

In tal senso devono essere anche inquadrati gli emergenti concetti della Privacy by Design e della Privacy by Default che ormai sono annoverati tra i principi ispiratori dell’emanando Regolamento Europeo. Tali principi rappresentano la nuova dimensione della privacy che trae le sue origini dall’innovazione tecnologica e dal progresso delle comunicazioni elettroniche. L’evoluzione, quindi, tocca anche il settore della privacy rispetto alla tradizionale e primaria configurazione con il riferimento alle PET (acronimo di Privacy Enhancing Technologies) che costituiscono le tecnologie utilizzate per migliorare il diritto alla privacy. Ovviamente tali tecnologie vengono considerate in maniera neutra, ovvero senza alcuna connessione con specifiche fattispecie.

Tale nuova concezione trova il suo fondamento nel principio di necessità consacrato dall’art. 3 del Codice per la protezione dei dati personali, principio che deve essere inteso in duplice senso: non solo necessità di ricorrere all’utilizzo del dato personale solo in casi estremi, ma necessità anche di strutturare i servizi che utilizzano nuove tecnologie in modo tale da garantire il rispetto della riservatezza degli utenti. Insomma, finalmente si fa strada la necessità di concepire una “coscienza della privacy” da parte di tutti che possa prevenire successivi interventi sanzionatori delle Autorità preposte.

14/10/2015