Il test AIDS può essere effettuato solo con il consenso del paziente

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Cassazione civile sez. II sentenza 02/09/2015 n.17440

Costituisce illecito amministrativo ex art. 161 del d.lg. n. 196 del 2003 la mancata affissione dell’apposito cartello che avverte della presenza, all’interno del un negozio, di una telecamera collegata ad un monitor ubicato sul soppalco dell’esercizio commerciale utilizzata dal titolare dell’attività con lo scopo di sorvegliare l’accesso degli avventori nel proprio negozio quando si recava al piano superiore.

Corte di Cassazione, sentenza n. 1608 del 27.01.2014

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere risarcito il danno morale ed esistenziale per la violazione del diritto alla riservatezza anche se i protagonisti del servizio giornalistico pur non citati esplicitamente sono comunque riconoscibili.

Corte di Cassazione, sentenza n. 5525 del 05.04.2012

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che gli archivi web devono essere aggiornati all’evoluzione dei fatti, specie quando si tratta di vicende giudiziarie. Lo rileva la Cassazione riconoscendo non solo il diritto della persona “notiziata” a essere rappresentata con dati “esatti e aggiornati” ma anche quello speculare del cittadino «a ricevere una completa e corretta informazione, non essendo sufficiente la mera generica possibilità di rinvenire all’interno del mare di internet ulteriori notizie» sul caso in questione.

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Tribunale di Varese, sentenza n. 1273 del 16.06.2011

Il Tribunale di Varese con la sentenza in esame ha precisato che il condomino non può installare delle telecamere di controllo riprendendo gli ambienti condominiali comuni. Anche se l’installazione è a tutela della propria sicurezza ed è stata fatta a seguito di diversi furti ed effrazioni. L’impianto va dunque rimosso immediatamente a spese del condomino che lo ha installato e sotto la sua responsabilità. Lo ha stabilito il tribunale di Varese con l’ordinanza n. 1273/2011.
Secondo il giudice, infatti, “nel silenzio della Legge”, il condomino non ha “alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale, idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi degli altri condomini”. Non solo ma secondo il tribunale “nemmeno il Condominio ha la potestà normativa per farlo, eccezion fatta per il caso in cui la decisione sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti”.
Ci troviamo di fronte ad “un vero e proprio vacuum legis in questa materia, al cospetto di diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione, come quello alla riservatezza e alla vita privata (difeso dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo all’art. 8)”. Infatti, “il condominio è un luogo di incontri e di vite in cui i singoli condomini non possono giammai sopportare, senza il loro consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti inviolabili della persona”.
In assenza di una norma specifica, sono troppi e rilevanti i problemi posti dalle videoriprese (motivo per cui il Garante sollecitava l’intervento del Legislatore): “1) che utilizzo può essere fatto delle videoriprese che vengono acquisite dal singolo proprietario? 2) che garanzie spettano a chi viene ripreso anche occasionalmente dalle telecamere? 3) che limiti incontra la videoripresa rispetto ai soggetti più vulnerabili come minori e incapaci?”
Per tutte queste ragioni, secondo il tribunale, “Il periculum in mora […] è in re ipsa, trattandosi di diritti fondamentali e della personalità che ad ogni lesione si consumano senza possibilità di ripristino dello status quo ante”. “Peraltro, nel caso di specie, – conclude il giudice – l’utilizzo delle telecamere ha causato un impoverimento delle attività quotidiane della parte ricorrente e anche stati soggettivi che militano verso la patologia. Una situazione che richiede urgente e immediata tutela”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 37077 del 30.09.2008.

La Suprema Corte con la sentenza in esame ha statuito che l’attività medico – chirurgica, per essere legittima, presuppone il “consenso” del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento: infatti, il medico, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il “consenso”, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere “informato”, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell’intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 2468 del 30.01.2009

La Suprema Corte, ha accolto il ricorso – per violazione della riservatezza – di un paziente omosessuale sieropositivo che aveva chiesto, 500 mila euro di risarcimento all’ospedale umbro dove era stato ricoverato per febbre alta e calo di globuli bianchi. All’uomo era stato fatto il prelievo per il test anti-Hiv senza il preventivo consenso. L’esito positivo del test era stato annotato nella cartella clinica era stata custodita senza alcuna riservatezza cosi’ che le notizie relative alla salute del paziente e alla sua omosessualita’ si erano diffuse all’interno e all’esterno dell’ospedale Per il Giudice di secondo grado i medici e il personale ospedaliero avevano agito nell’esclusivo interesse del paziente e non avevano violato in alcun modo la sua privacy. Per la Suprema Corte invece la somministrazione del test anti HIV presuppone, anche nei casi di necessità clinica, che il paziente deve essere informato del trattamento a cui lo si vuole sottoporre ed ha diritto di prestare o negare il proprio consenso da cui si può prescindere solo in caso di obbiettiva ed indifferibile urgenza del trattamento sanitario ovvero per specifiche esigenze di interesse pubblico – in tutti i casi in cui sia in grado di decidere liberamente e consapevolmente, restando onere del personale sanitario adottare tutte le misure necessarie a garantire il rispetto del diritto del paziente alla riservatezza e ad evitare la diffusione a terzi dei dati relativi all’esito del test e alle condizioni di salute del paziente medesimo.