Il caso
Un uomo si era finto poliziotto con lo scopo di perquisire un cittadino e potergli sottrarre del denaro.
Il Tribunale e la Corte d’Appello di Trieste concordavano nel condannare l’uomo per concorso in rapina giacché era evidente che l’imputato avesse “compresso la libertà psichica” della persona offesa.
Il difensore dell’uomo proponeva ricorso per cassazione deducendo una violazione di legge in ordine alla qualificazione del fatto come rapina anziché come semplice furto.
La Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e ricorda che “la minaccia che integra il delitto di rapina può essere esercitata mediante qualsiasi comportamento che, prospettando un male alla persona offesa, ne limiti la libertà di determinazione”.
I Giudici affermano che il reato di rapina sussiste qualora “l’agente, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione personale, in tal modo comprimendo la libertà psichica della vittima, per impossessarsi dei beni altrui”.
Avendo il “falso poliziotto” operato “una vera coartazione della psiche sul soggetto passivo” senza essersi limitato “ad ostentare in modo mendace qualità inesistenti” risulta logico il configurarsi del reato di rapina.
La persona offesa illegittimamente perquisita ”è stata condizionata nelle sue determinazioni volitive dalla minaccia implicita dell’esecuzione della perquisizione personale e del sequestro del denaro”.
Il cittadino è infatti disposto “ad accettare la violazione ad accettare la violazione dei propri spazi di libertà personale costituzionalmente garantiti (art. 13 Cost. e segg.) solo nei casi previsti dalla legge. La rinuncia a reagire all’espletamento di tali gravi lesioni degli spazi di libertà è collegata alla minaccia implicita del loro compimento da parte degli organi statuali anche con la forza, perché a ciò essi sono legittimati. Ma tale minaccia implicita, se viene esplicata da chi tale funzione non riveste, recupera le caratteristiche di illiceità alla cui repressione la norma penale è preposta”.
Concordando con i giudici di merito la Suprema Corte ritiene sussistente il reato di rapina consumata poiché il denaro, recuperato poi dalle vere forze dell’ordine, “era passato nell’esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità” del ricorrente “con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio e vigilanza”.
Con la sentenza n. 12486/21 del il 1° aprile la Corte di Cassazione dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità.