Negato l’affidamento al servizio sociale ad un ultra settantenne

Il caso

Un ultra settantenne “recentemente tratto in arresto in esecuzione di un mandato di arresto Europeo per gravi fatti di riciclaggio” presentava una richiesta di affidamento al servizio sociale ex art. 47. 

Tale richiesta che veniva rigettata dal Tribunale di Sorveglianza di Roma che lo avviava alla detenzione domiciliare “alla luce della pena da espiare superiore a tre anni e mancando un’attività lavorativa nonché indicazioni positive di impegno lavorativo e sociale che consentano un giudizio prognostico favorevole”. 

Il difensore dell’uomo propone ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Il legale denuncia in particolare una “violazione di legge e il vizio della motivazione perché il Tribunale ha valorizzato unicamente il comportamento precedente alla commissione dei reati senza valutare la successiva condotta di vita e perché l’attività lavorativa non è un presupposto per la concessione delle misure alternative, mancando comunque indicatori di attuale pericolosità”.

I Giudici affermano che “ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere, dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva”.

La Suprema Corte ha anche precisato che “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato”.

Nella vicenda di specie il ricorso risulta infondato in quanto “il provvedimento impugnato ha evidenziato, in modo non illogico e aderente ai principi giurisprudenziali dianzi richiamati, l’assenza di qualunque impegno sociale da cui possa desumersi una prognosi positiva di futuri comportamenti”.

Con la sentenza n. 11191/21 del 23 marzo la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.