Il permesso di soggiorno per la gravidanza non evita la condanna per immigrazione clandestina se la donna è presente da tempo sul territorio in modo irregolare

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Corte di Cassazione, sentenza n. 15394 del 13.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che gli organizzatori di un torneo di calcio rispondono penalmente e civilmente dei danni alla salute dei partecipanti se prima della partecipazione non li hanno sottoposti alle necessarie visite mediche per una attività agonistica.
Con questa motivazione,la Corte ha condannato l’Acsi (Associazione centri sportivi italiani) a risarcire la moglie di un calciatore dilettante di trenta anni, morto negli spogliatoi per infarto dopo aver accusato un malore durante un girone di un torneo di calcio.
Il responsabile locale dell’Acsi e il presidente della squadra erano già stati condannati in sede penale per omicidio colposo per aver ammesso la partecipazione al torneo del calciatore senza la preventiva visita medica (con elettrocardiogramma sotto sforzo), che avrebbe rivelato la grave patologia di cui soffriva la vittima, così precludendogli la partecipazione al torneo e dunque il decesso. In sede civile, però, la direzione nazionale dell’associazione riteneva di non dover pagare in quanto la sede territoriale godeva di una propria autonomia e dunque le eventuali mancanze dovevano esserle direttamente imputate.
Di diverso avviso la Cassazione, secondo cui in assenza di un patrimonio di riferimento l’indipendenza amministrativa e finanziaria deve essere interpretata restrittivamente. Del resto, proseguono i giudici, l’ambiguità dello statuto non può ricadere sui terzi, il cui legittimo affidamento va tutelato.
Dunque la responsabilità dell’Acsi risiede nel non aver predisposto un regolamento del torneo che prevedeva l’obbligo della visita medica e comunque nel non aver sottoposto ai relativi controlli la vittima, senza neppure aver chiesto la produzione di una adeguata certificazione medica.
Secondo la Corte, infatti, <>.
E con riguardo al carattere agonistico specificano che <>.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27015 del 11.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che ai fini della non imputabilità del reo va provato un vizio nella capacità di intendere e di volere. Mentre non è sufficiente un semplice stato di “inquietudine” anche se attestato da certificati medici. Secondo i giudici della Corte, infatti, “la sindrome ansioso depressiva non è causa di esclusione dell’imputabilità, dovendo escludersi si tratti di una infermità in grado di incidere sulla capacità di intendere e di volere”. Del resto, le allegazioni presentate dalla difesa “non dimostrano affatto che il ricorrente non fosse capace di intendere e di volere, ma solo che lo stesso fosse nervoso ed inquieto, il che è bel altra cosa”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25611 del 27.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato chedue docenti avevano litigato e uno di loro aveva utilizzato espressioni ingiuriose nei confronti dell’altro; in più, la lite si era concretizzata in diversi episodi, anche a distanza l’uno dall’altro, e nell’ultimo la docente aggredita aveva trovato riparo in presidenza e più colleghi erano dovuti intervenire per evitare che la lite diventasse violenta. In seguito al suddetto episodio la docente era stata vittima di uno sbalzo pressorio che le aveva indotto un’emorragia cerebrale a sinistra protrattasi per oltre 40 giorni.
Il GUP da un lato non aveva ravvisato contenuti di ingiuria nelle espressioni utilizzate durante la lite, dall’altro, con riferimento alle lesioni riportate, aveva affermato che si era trattato di un esito del litigio del tutto imprevedibile, non ascrivibile all’imputato neppure a titolo di colpa.
La Cassazione invece ha affermato che le invettive rivolte dall’imputato avevano evidente portata ingiuriosa, «risultante anche dal contesto e dalla pluralità delle espressioni offensive, indubbiamente e chiaramente lesive del prestigio professionale, della dignità e del decoro della parte offesa».
Inoltre con riferimento alle lesioni è da richiamare l’art. 586 c.p. che prevede e punisce il delitto preterintenzionale

Corte di Cassazione, sentenza n. 26368 del 06.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito ai sensi dell’art. 544 ter cp. Il ricorrente sosteneva che locuzione “senza necessità” lo giustificasse, dal momento che – all’epoca dei fatti contestati – si trovava in una difficoltà oggettiva fisica, in conseguenza di alcune fratture suvbite. Ma il tribunale di Mondovì – correttamente, secondo la Cassazione – ha fatto buon uso della giurisprudenza di legittimità, in base alla quale lo stato di necessità richiamato dalla norma in questione è quello di cui all’articolo 54 Cp, “nonché ogni altra situazione che induca al maltrattamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona o ai beni”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 26058 del 04.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che nulla impedisce una successiva richiesta di pena patteggiata prima dell’apertura del nuovo dibattimento. L’economia processuale prevale sui rigidi formalismi del patteggiamento. Con un orientamento finalizzato a “salvare” soluzioni processuali condivise da entrambe le parti in causa, la Corte di cassazione ha “recuperato” un’istanza dichiarata inammissibile dal Tribunale di Massa nel corso di un procedimento a carico di un imputato riconosciuto colpevole di spaccio di cocaina. La Corte, salva la successiva proposta dell’imputato davanti a un giudice diverso, all’apertura della nuova udienza. Per i giudici è possibile “che dopo il rigetto di una prima richiesta di applicazione della pena da parte del giudice del dibattimento, a una successiva udienza cui il dibattimento sia stato rinviato le parti si accordino per una diversa richiesta davanti a un diverso decisore, sempre che ciò avvenga prima dell’apertura del dibattimento”.
La soluzione individuata dalla Cassazione è stata possibile dando continuità all’originario consenso alla proposta riformulata prestato dal Pm titolare del procedimento. Secondo i giudici di piazza Cavour, “nulla ostava che il nuovo giudice del dibattimento la prendesse in considerazione, essendo d’altro canto irrilevante che il pubblico ministero di udienza avesse espresso dissenso, dato che una volta che consenso sia prestato da qualunque delle parti sulla proposta formulata dall’altra, esso è irretrattabile”.

Corte Cassazione, sentenza n. 26153 del 05.07.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la convinzione del marito che la moglia sia “un oggetto di sua esclusiva proprietà” non è una scusante per il reato di maltrattamento. Così la corte di Cassazione con la sentenza in oggetto ha respinto il ricorso di un coniuge che già due giorni dopo il matrimonio e per trenta anni ha maltrattato la consorte. “Atteggiamenti derivanti da subculture – spiegano i giudici – in cui sopravvivono autorappresentazioni di supeirorità di genere e pretese da padre/marito-padrone non possiono rilevare né ai fini dell’indagine sull’elemento soggettivo del reato né a quella concernente l’imputabilità dell’imputato”.

Corte di Cassazione, sentenza
n. 25344 del 24.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la ratio sottesa all’art. 646 c.p. deve individuarsi nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res,
conferisca alla medesima una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso.
Non sussiste il reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. qualora la parte vincitrice di una causa civile, a cui favore il Giudice abbia liquidato una data somma a titolo di spese legali, si rifiuti di consegnarla al proprio legale che reclami tale somma.
Ed infatti, in tale ipotesi, manca il principale presupposto giuridico necessario per la configurabilità della fattispecie penale in parola, ovvero che la somma sia di proprietà dell’avvocato e che la parte vincitrice, possedendola per un legittimo titolo, abbia effettuato l’interversione del possesso, rifiutandosi di consegnarla all’avvocato.
Ai fini della configurabilità del reato ex art. 646 c.p., occorre l’appartenenza dei beni oggetto di appropriazione ad un terzo in base ad un titolo giuridico; il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; la volontà di interversione del possesso, ovvero è richiesto che il possessore renda palese al proprietario del bene la sua volontà di non restituire più il bene da lui posseduto. Altresì, è necessario l’ingiusto profitto

Corte di Cassazione, sentenza n. 25802 del 30.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è legittimo utilizzo delle intercettazioni telefoniche anche se la originaria imputazione per cui la procedura era stata prevista sia stata derubricata in una ipotesi criminosa senza obbligo di cattura. La corte di Cassazione con la sentenza 30 giugno 2011 n. 25802 ha precisato che “ai fini della legittimità dell’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche, prevista dal primo comma dell’articolo 270 c.p.p., delle notizie acquisite in altro procedimento salvo che risulti indispensabile per l’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in fragranza è rrilevante che la originaria imputazione sia stata successivamente derubricata in una ipotesi criminosa senza obbligo di cattura, poiché si tratta di condizione processuale. la cui sussistenza va accertata nel momento dell’acquisizione nel procedimento ad quem degli atti assunti in diverso procedimento”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25674 del 28.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che coltivare una piantina di cannabis in un vasetto si può. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto, smentendo alcune su precedenti decisioni, “assolve” un piccolo “coltivatore” di canapa indiana perché, in considerazione della piccola quantità di erba piantata, 16 mg in tutto, il suo comportamento non può arrecare danno alla salute pubblica. Gli ermellini imboccano così la strada dell’irrilevanza penale delle condotte non idonee a mettere a repentaglio il bene giuridico tutelato. Un criterio dell’offensività – sottolinea la Corte – già adottato dal legislatore nella sua discrezionalità e indicato dalla Consulta, “destinato in futuro a innovare tutto il sistema penale”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24573 del 20.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che all’interno degli ospedali gli infermieri hanno una funzione di «garanzia», e «svolgono un compito cautelare essenziale nella salvaguardia del paziente». Il caso era quello di due infermieri dell’ospedale civile di Canosa di Puglia incolpati, dalla famiglia di un paziente, di aver sottovalutato le condizioni del familiare, operato a seguito di un incidente stradale e morto nel decorso post operatorio per emorragia cerebrale. Gli infermieri, in particolare, erano stati accusati per non aver chiamato subito il medico al peggiorare delle condizioni del malato, nonostante le richieste dei parenti.
Il gip di Trani aveva dichiarato «non luogo a procedere» e aveva anche sottolineato che gli infermieri non avevano profili di colpa in quanto svolgono una «funzione ausiliaria» e non hanno «l’obbligo di avvertire il medico di reparto di qualsiasi lamentela dei parenti del paziente».
Decisione bocciata dai giudici della Quarta Sezione Penale, che hanno annullato la sentenza con rinvio. Scrive, infatti, la Cassazione nella sentenza «rientra nel proprium non solo del sanitario ma anche dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, così da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico». Non solo, la considerazione fatta dal gip «finisce con il mortificare le competenze professionali di tale soggetto, che invece, svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente, essendo, l’infermiere onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio ai fini di consentire, nel caso, l’intervento del medico».

Corte di Cassazione, sentenza n. 13184 del 16.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la madre divorziata e affidataria del figlio può continuare a chiedere l’assegno di mantenimento per il figlio anche quando questo è diventato maggiorenne e convive di fatto con il padre. Lo ha affermato la terza sezione civile della Cassazione con la sentenza 13184/2011 che ha accolto il ricorso di un signora che aveva agito in esecuzione contro l’ex marito per il versamento dell’assegno di mantenimento del figlio. Secondo i giudici di merito la donna aveva perso la legittimazione ad agire perché il ragazzo era diventato maggiorenne e conviveva con il padre. La Cassazione non è stata però dello stesso avviso. In particolare i giudici di legittimità hanno stabilito che la legittimazione del figlio diventato maggiorenne non esclude quella della madre affidataria e titolare dell’assegno di mantenimento in base alla sentenza di divorzio. Il padre, pertanto, per ottenere la soppressione dell’assegno visto che il figlio convive con lui, deve chidere la modifica della sentenza di divorzio e non opporsi semplicemente all’esecuzione

Corte di Cassazione, sentenza n. 24109 del 16.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha condannato il titolare di un disco pub della riviera ligure nel cui locale i clienti erano soliti ballare sui tavoli per l’infortunio occorso ad un avventore.
I giudici in primo e in secondo grado hanno riconosciuto la responsabilità per colpa in vigilando ed in eligendo del proprietario per <>. In tal modo, secondo i tribunali di merito, <>.
Una tesi condivisa dalla Cassazione secondo cui, come testimoniato da altri avventori e dallo stesso personale del locale, numerosi clienti <> e <>. Ragion per cui, è chiara la responsabilità del gestore <> dovuto al <>.
Insomma, secondo la Suprema corte, siccome <> che risultavano <> a questo destinati, il gestore doveva sincerarsi anche della tenuta delle travi del soffitto visto che nella <> era anche prevedibile che vi si appendessero.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22334 del 07.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la condanna per omicidio colposo a carico del legale rappresentante e del direttore dell’hotel che non predispongono o rispettano un piano di emergenza in caso di incendio. La vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 22334 riguarda la morte di tre turisti ospiti, di un albergo romano del quartiere Parioli, causata da un incendio provocato da due cittadine americane. Le donne, rientrate all’alba del 1 maggio 2004, avevano svuotato il posacenere nel cestino portarifiuti e, alla vista delle prime fiamme, erano fuggite, senza dare l’allarme. Un comportamento, per cui sono state giudicate, che non cambia la posizione dei responsabili dell’albergo, entrambi condannati, per non aver predisposto un adeguato piano antincendio e per aver omesso di vigilare sul rispetto delle misure di sicurezza. Prima tra tutte quella che prevede la presenza sul posto del personale addestrato per affrontare l’emergenza. Un compito che spettava senz’altro alla direttrice dell’hotel che, nella sua duplice veste di dirigente e responsabile del coordinamento della squadra anti incendio aveva il dovere di predisporre, nelle 24 ore, dei turni per la rotazione del personale qualificato. Omissioni di cui è stato ritenuto responsabile anche il legale rappresentante della società proprietaria della struttura che, in virtù della sua posizione di garanzia quale datore di lavoro, doveva vigilare sul rispetto delle regole. La Suprema corte respinge con decisione il tentativo dei ricorrenti di addossare la responsabilità dei tre morti all’inadeguato comportamento dei dipendenti in servizio e agli errori compiuti dalle vittime, una delle quali era morta nel tentativo di fuggire dal balcone mentre le altre due erano rimaste imprigionate nel bagno in cui avevano cercato rifugio.
I giudici di via Cavour escludono il nesso causa-evento tra le scelte – dovute all’inevitabile panico del momento – e una morte che avrebbe potuto essere evitata con le accortezze necessarie.
Gli ermellini “salvano” solo l’amministratore di fatto, chiedendo alla Corte d’Appello di Roma di riconsiderare la sua condanna. Secondo il collegio la sua colpevolezza non poteva, infatti, essere desunta dalle condotte messe in atto dopo l’incidente in mancanza della prova di una sua ingerenza nella gestione dell’hotel prima dell’incendio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22816 del 08.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il rifiuto di firmare un foglio di dimissioni in bianco, seguito dall’espressione «Ti farò schiattare», pronunciata dal proprio datore di lavoro, configura il reato di minacce e ingiurie.
Il datore, secondo la ricostruzione dell’accusa, fatta propria dalla sentenza impugnata, «aveva ingiuriato e minacciato» la dipendente «prospettandole un trattamento vessatorio» a causa del fatto che ella si era rifiutata di sottoscrivere una richiesta di dimissioni. Nel ricorso il datore aveva sostenuto che non si era trattato di minacce perché il significato dell’espressione «ti farò schiattare, sarebbe incerto, non risultando su alcun dizionario della lingua italiana» né tantomeno aveva valenza offensiva l’invettiva «Sei una vergognosa».
Una ricostruzione bocciata dalla quinta sezione penale della Cassazione, secondo cui la parola schiattare configurava eccome una minaccia. Per la Suprema corte, infatti, «l’espressione “ti farò schiattare” non solo è di uso comune, ma è riportata su tutti i dizionari della lingua italiana con l’inequivoco significato “ti farò crepare”». E «l’espressione “vergognosa” è stata correttamente valutata nel contesto, ed aveva il chiaro ed univoco significato ingiurioso che la sentenza impugnata ha ritenuto». Per queste ragioni la Cassazione ha confermato la condanna.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22502 del 07.06.2001

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che nel caso di peculato non è consentiita la confisca per equivalente di beni per un valore corrispondente al “maltolto”. Il caso esaminato dai giudici era quello di una sequestro preventivo di due computer a fronte della sottrazione da parte dell’imputata, addetta alla biglietteria di una società, della sottrazione di 60.000 euro. Il difensore ha lamentato che “il sequestro preventivo in funzione di confisca per equivalente non era consentito per il “profitto” del reato di peculato; né poteva parlarsi di “prezzo” di tale illecito, considerato che per “prezzo” del reato deve intendersi il compenso dato o promesso a una determinata persona per indurla o istigarla al reato”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22334 del 06.06.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è corretta la condanna per omicidio colposo a carico del legale rappresentante e del direttore dell’hotel che non predispongono o rispettano un piano di emergenza in caso di incendio. La vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 22334 riguarda la morte di tre turisti ospiti, di un albergo romano del quartiere Parioli, causata da un incendio provocato da due cittadine americane. Le donne, rientrate all’alba del 1 maggio 2004, avevano svuotato il posacenere nel cestino portarifiuti e, alla vista delle prime fiamme, erano fuggite, senza dare l’allarme. Un comportamento, per cui sono state giudicate, che non cambia la posizione dei responsabili dell’albergo, entrambi condannati, per non aver predisposto un adeguato piano antincendio e per aver omesso di vigilare sul rispetto delle misure di sicurezza. Prima tra tutte quella che prevede la presenza sul posto del personale addestrato per affrontare l’emergenza. Un compito che spettava senz’altro alla direttrice dell’hotel che, nella sua duplice veste di dirigente e responsabile del coordinamento della squadra anti incendio aveva il dovere di predisporre, nelle 24 ore, dei turni per la rotazione del personale qualificato. Omissioni di cui è stato ritenuto responsabile anche il legale rappresentante della società proprietaria della struttura che, in virtù della sua posizione di garanzia quale datore di lavoro, doveva vigilare sul rispetto delle regole. La Suprema corte respinge con decisione il tentativo dei ricorrenti di addossare la responsabilità dei tre morti all’inadeguato comportamento dei dipendenti in servizio e agli errori compiuti dalle vittime, una delle quali era morta nel tentativo di fuggire dal balcone mentre le altre due erano rimaste imprigionate nel bagno in cui avevano cercato rifugio.
La Corte esclude il nesso causa-evento tra le scelte – dovute all’inevitabile panico del momento – e una morte che avrebbe potuto essere evitata con le accortezze necessarie.
La Corte “salva” solo l’amministratore di fatto, chiedendo alla Corte d’Appello di Roma di riconsiderare la sua condanna. Secondo il collegio la sua colpevolezza non poteva, infatti, essere desunta dalle condotte messe in atto dopo l’incidente in mancanza della prova di una sua ingerenza nella gestione dell’hotel prima dell’incendio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22100 del 02.06.2011

La Corte di cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che, esclude che lo “scudo” del matrimonio con un cittadino italiano possa essere invocato se non viene dimostrato che gli sposi hanno lo stesso domicilio. Gli ermellini respingono così il ricorso con il quale un extracomunitario voleva evitare un rimpatrio disposto, dopo una condanna per lesioni personali, in considerazione dei numerosi precedenti penali. Contro lo straniero deponeva anche la condizione di disoccupato e il suo frequente ricorso a false identità. Quadro che aveva spinto il tribunale di sorveglianza di Catania a definire l’uomo socia
lmente pericoloso e quindi passibile di espulsione, in base a quanto disposto dal testo unico sull’immigrazione. Contro il provvedimento si era opposto il diretto interessato che riteneva violato l’articolo 19 del Dlgs 286/1998 con cui viene esclusa – salvo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato – l’espulsione “degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge che siano di nazionalità italiana”. Il “trattamento di favore”, previsto dalla norma interna, è riconosciuto anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dalla direttiva europea 2003/86/Ce (recepita con il Dlgs 5/2007). Una protezione a tutto campo che non è – ad avviso del Supremo collegio – comunque applicabile al ricorrente, il quale benché sposato, non ha fornito gli elementi utili a dimostrare la coabitazione con la moglie. La mancata prova della convivenza unita alla dimostrata pericolosità sociale del soggetto portano la Cassazione a escludere la possibilità di godere del ricongiungimento familiare.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 21039 del 26.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la bancarotta fraudolenta, quella fraudolenta documentale, quella preferenziale, le plurime e diverse ipotesi di bancarotta semplice, la bancarotta pre fallimentare e quella post fallimentare si concretizzano attraverso condotte diverse, determinano eventi diversi, hanno gradi di offensività non omologhi, sono sanzionate in modo differenziato e non tutte coincidono nel tempo e luogo di consumazione. Non è dunque applicabile a tutte queste ipotesi la nozione del “medesimo fatto”, unico caso che porta al divieto di bis in idem.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20895 del 25.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che va punito per stalking chi molesta ripetutamente i condomini di un edificio in modo da produrre in essi uno stato d’ansia. La Cassazione nel respingere il ricorso di un soggetto affetto da una sindrome maniacale, hanno riconosciuto che non è necessario per integrare la fattispecie del reato di stalking che il comportamento persecutorio sia tenuto verso la medesima persona. “Difatti, – osserva la Corte – la minaccia rivolta ad una persona può coinvolgerne altre o comunque costituirne molestia”. Come nel caso di colui che “minacci d’abitudine qualsiasi persona attenda ogni mattino nel luogo solito un mezzo di trasporto per recarsi al lavoro”. Per la Suprema Corte è “ineludibile” l’implicazione che “l’offesa arrecata ad una persona per la sua appartenenza ad un genere turbi di per sé ogni altra che faccia parte dello stesso genere”. E, dunque, “se la condotta è reiterata indiscriminatamente contro talaltra, perché vive nello stesso luogo privato, sì da esserne per questa ragione occasionalmente destinataria come la precedente persona minacciata o molestata, il fatto genere all’evidenza turbamento in entrambe”. Per la Cassazione è corretta la lettura della norma fatta dalla Corte d’appello di Torino per cui “le singole condotte, in quanto ripetute nei confronti di donne di qualsiasi età conviventi nell’edificio le coinvolgesse tutte”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 20798 del 24.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la recidiva, che può determinare un aumento di pena superiore ad un terzo, è una circostanza aggravante ad effetto speciale e, pertanto, soggiace, ove ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, alla regola dell’applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento. I giudici di Pazza Cavour hanno poi anche stabilito che: “In caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale (art. 63, comma quarto, cod. pen.), l’individuazione della circostanza più grave sulla base del massimo della pena astrattamente prevista non può comportare, in presenza di un’altra aggravante il cui limite minimo sia più elevato, l’irrogazione di una pena ad esso inferiore”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20105 del 20.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che consegnare files al giornalista, consapevoli, che contengano elementi oggetto di indagine investigativa non configura il reato di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale. Un computer e una pen drive erano stati sequestrati nel corso di una perquisizione e poi restituiti alla proprietaria. Proprietaria che ha consegnato a un giornalista alcuni files precedentemente sequestrati. I magistrati di legittimità hanno precisato che “non vi è stata alcuna prescrizione o segretazione da parte del pubblico ministero al momento della restituzione dei beni in sequestro” e quindi la consegna dei files non può configuare il reato previsto dall’articolo 379-bis del codice penale. Infine i gidici precisano che “di nessun rilievo sono le considerazionei della parte ricorrente che i files, prima della restituzione, erano stati duplicati su supporti informatici dalla polizia giudiziaria e che su essi erano in corso verifiche investigative”.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19315 del 17.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che per salvarsi dal reato di abuso edilizio non basta invocare la mancata costituzione dello Sportello unico da parte del comune. Una signora condannata per aver eseguito dei lavori di ampliamento del garage in totale diffiromiità al permesso a costruire ha sostenuto “la mancata istituzione dello Sportello Unico presso l’amministrazione comunale di Riposto e la conseguente impossibilità di presentare le dovute comunicazioni”. Una giustificazione che non ha convinto i giudici di legittimità che hanno affermato il seguente principio di diritto: “Lo Sportello Unico per l’edilizia previsto dell’articolo 5 del Dpr 380/O1 (Testo unico per l’edilizia) ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, con la conseguenza che la mancata istituzione da parte dell’amministrazione comunale non ha alcuna incidenza sul regime autorizzativo dell’attività edilizia e non esonera, pertanto, dal conseguimento dei necessari titoli abilitativi”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18353 del 12.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna la misura coercitiva non custodiale cessa di diritto. I magistrati hanno precisato che “il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata a condannato”. Inoltre la sentenza ha fissato altri due principi di diritto. Nel primo si sottolinea che “la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari”. E infine viene chiarito che “ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio delle fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderla spetta al giudice dell’esecuzione”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18353 del 11.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna la misura coercitiva non custodiale cessa di diritto. I magistrati hanno precisato che “il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata a condannato”. Inoltre la sentenza ha fissato altri due principi di diritto. Nel primo si sottolinea che “la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari”. E infine viene chiarito che “ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio delle fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderla spetta al giudice dell’esecuzione”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18600 del 11.05.2011

Sì alla riabilitazione del fallito anche se non è riuscito a ripagare tutti i debiti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 18600/2011 accogliendo il ricorso di un ingegnere, amministratore di una società, contro il rigetto della domanda di riabilitazione da parte del tribunale di sorveglianza di Roma. Per la Suprema corte, infatti, “l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato non va intesa in senso restrittivo, e cioè come sinonimo di impossidenza economica, ma ricomprende tutte le situazioni non imputabili al condannato che gli impediscono, comunque, l’adempimento delle obbligazioni civili” alle quali è tenuto al fine di conseguire il beneficio richiesto. In modo da evitare “un ingiustificato impedimento al reinserimento sociale” di un soggetto che “abbia, per altro verso, dato prova attraverso la buona condotta tenuta, di essere meritevole di riabilitazione”. A patto però che riesca a dimostrare di essersi “emendato” e “ravveduto” dopo la condanna, gravando su di lui l’onere della prova.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18353 del 12.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna la misura coercitiva non custodiale cessa di diritto.
In particolare la Corte ha precisato che “il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata a condannato”. Inoltre la sentenza ha fissato altri due principi di diritto. Nel primo si sottolinea che “la cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari”. E infine viene chiarito che “ove insorgano questioni in o
rdine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio delle fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderla spetta al giudice dell’esecuzione”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18273 del 10.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non sono punibili le minacce alla madre da parte del figlio affinché gli dia del denaro. A prevederlo è il codice penale con una clausola di non punibilità che scatta quando il reato è commesso ai danni del marito o della moglie, della madre o del padre ed anche di fratelli e sorelle purché però conviventi. Con tale principio la Corte ha assolto perché “non punibile”, ai sensi dell’articolo 649 del Cp, un signore di 54 anni della provincia di Brescia. Secondo i giudici di Piazza Cavour, infatti, se non vi è “violenza alle persone” si rientra nelle ipotesi di esclusione della punibilità. Infatti, il codice penale prevede come punibile “esclusivamente la violenza fisica in senso tecnico e specifico” che “non può essere confusa con la semplice minaccia o violenza psichica”. Non basta dunque “l’annuncio, anche con gesti, di un male ingiusto futuro con scopo intimidatorio diretto a restringere la libertà psichica o a turbare la tranquillità altrui” ma è sempre necessaria “l’energia fisica sopraffattrice verso una persona o una cosa” per integrare il reato verso i propri congiunti.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18268 del 11.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi ha svolto il ruolo di traduttore, anche solo in ausilio di un altro perito nominato dal Gip, non può essere l’interprete nel processo. I giudici hanno sciolto un contrasto giurisprudenziale sul ruolo del traduttore. La giurisprudenza prevalente riteneva che il compito di trascrittore non fosse assimilabire a quello di un peirto “dato che tale soggetto si limita a porre in essere, pur con lì’impiego di risorse tecnologiche, una mera operazione materiale, che non richiede conoscenze tecnico scientifiche che sfocino in un parere e cioè giudizio che su quelle conoscenze si fondi, esaurendosi la sua attività in una mera trasposizione di dati di tipo ricognitivo”.
In senso contrario si sostenva che il richiamo operato dall’articolo 269, comma 7 del codice di procedura penale alle garanzie previste per l’espletamento delle perizie “estende chiaramente alle attività di trascrizione integrale delle registrazioni le norme di garanzia previste per le perizie, ivi comprese quelle contenute nell’art. 144 dello stesso codice”. Le sezioni unite hanno sposato questa tesi minoritaria ed enunciato due principi di diritto. I magistrati di legittimità hanno precisato che “sussiste incompatibilità a svolgere successivamente nello stestto procedimento la funzione di interprete per il soggetto che abbia svolto il compito di trascrizione delle registrazoni delle comunicazioni intercettate a norma dell’art.268, comma 7, cod. proc, pen.”.
Nella disamina del caso oggetto delle pronuncia i magistrati hanno ulteriormente enunciato il seguente principio di diritto “sussiste incompatibilità a svolgere successsivamente nello stesso procedimento la funzione di interprete per il soggetto che, nell’ambito del conferimento ad altri del compito delle trascrizione delle registrazioni delle conversazioni in lingua straniera intercettate, sia stato incaricato di effettuare, contestualmente e unitamente a trascrittore, le traduzioni in lingua italiana di dette conversazioni”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18028 del 10.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che i soggetti a sequestro anche i brevetti realizzati da un dirigente accusato di bancarotta.
In particolare la Corte ha precisato che “i diritti derivanti dall’invenzione del lavoratore spettano al datore di lavoro ed il primo ha diritto ad un equo premio se l’attività inventiva non costituisce oggetto del contratto o del rapporto di lavoro e non è dunque a tale scopo già retribuita”. Il caso riguardava un dirigente che ha realizzato le invenzioni durante la sua permanenza nella società, brevetti che sono stati sequestrati perché costituivano oggetto della distrazione per la quale il dirigente era indagato per bancarotta fraudolenta.

Corte di Cassazione, sentenza n. 17784 del 06.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi clona il bancomat è un haker informatico.
La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui due soggetti, dopo aver clonato alcuni bancomat, avevano provveduto a effettuare diversi acquisti.
La difesa degli imputati era mirata a dimostrare come il capo d’imputazione fosse errato e che quindi non potesse esserci un’equiparazione tra chi clona e gli hakers, perchè chi fa shopping con denaro altrui si limita a introdursi nel sistema, rimanendo ai margini di esso. Tesi che non ha assolutamente convinto i giudici di Cassazione che hanno fornito una risposta in senso assolutamente contrario. Nella specie, infatti, attraverso l’utilizzo di carte falsificate e grazie all’intercettazione dei codici segreti di accesso (i cosiddetti pin) gli imputati sono penetrati abusivamente all’interno dei vari sistemi bancari, alterando i dati contabili mediante ordini abusi di operazioni bancarie di trasferimento fondi. Oltre a ciò gli imputati si erano resi protagonisti di prelievo di contanti presso i servizi di cassa continua.
I giudici hanno chiarito che si debba applicare la più severa sanzione prevista per le frodi informatiche. Si tratta, infatti, di una condotta per molti versi simile a quella di chi entrato senza diritto in possesso delle cifre chiave e delle password di altre persone utilizzi contrariamente alle norme tali elementi per accedere ai sistemi informatici bancari per operare sui relativi dati contabili e disporre bonifici, accrediti o altri ordini, procurandosi così un ingiusto profitto.
Alterazione del sistema telematico. La sentenza puntualizza, inoltre, che il concetto di alterazione di un sistema informatico o telematico va interpretato in modo assolutamente generico e quindi: «bisogna intendere ogni intervento modificativo o manipolativo sul funzionamento del sistema che viene distratto dai suoi schemi predefiniti in vista del raggiungimento dell’obiettivo – punito dalla norma – di conseguire per sè o per altri un ingiusto profitto con altrui danno»

Corte di Cassazione, sentenza n. 17238 del 04.05.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che scatta il sequestro per guida in stato di ebbrezza anche se l’automobile è posteggiata nel caso in cui il motore sia acceso e sia evidente la volontà di partire. Per la Corte, il fatto che l’auto non si fosse ancora mossa “non è significativo”, in quanto il “concetto di circolazione di un veicolo non può esaurirsi alla fase dinamica del mezzo” ma al contrario “deve intendersi riferibile anche alle fasi di sosta, che ugualmente ineriscono alla circolazione”. Inoltre per comminare una misura cautelare non è necessario esaminare la fondatezza dell’accusa ma è sufficiente che il comportamento tenuto integri “astrattamente” una fattispecie di reato. E sedersi al posto di guida, “in evidenti condizioni di alterazione dovuta all’assunzione di sostanze alcoliche”, “nell’atto di muovere il veicolo”, con le cinture allacciate e gli anabbaglianti accessi rappresenta già una condotta idonea a integrare il reato.

Corte di Cassazione, sentenza n. 16591 del 28.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici non può essere rilasciato “in sanatoria”, cioè dopo l’esecuzione delle opere. Si tratta, infatti, di un istituto di carattere eccezionale giustificato dalla nece
ssità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti dall’articolo 14 del Dpr 380/2001. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso del procuratore della Repubblica di Cosenza in relazione a un’opera pubblica realizzata in violazione della disciplina urbanistica e per la quale era stato disposto il sequestro preventivo. La misura era però annullata dai giudici del riesame con la motivazione che era stato rilasciato un permesso in sanatoria. La Cassazione, annullando la decisione di merito, ha però chiarito che il procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del permesso in deroga prevede la previa deliberazione del consiglio comunale. Ne consegue che la delibera consiliare deve precedere il rilascio del titolo e soprattutto l’esecuzione dell’intervento con l’ulteriore conseguenza che non può essere rilasciato un permesso di costruire in deroga con una sanatoria.

Corte di Cassazione, sentenza n. 16307 del 26.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che nella diffamazione via Web il luogo in cui viene commesso il reato va individuato nel punto in cui le offese e le denigrazioni siano percepite dal maggior numero di persone. I giudici di legittimità affrontando un caso di diffamazione in cui i server erano dislocati ad Arezzo e l’amministratore del sito era di Sassari hanno precisato che “il locus commissi delicti della diffamazione telematica è da individuare in quello in cui le offese e le denigrazioni sono percepite da più fruitori della rete e, dunque nel luogo in cui il collegamento viene attivato e ciò anche nel caso in cui il sito web sia stato regitrato all’estero, perché l’offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovano in Italia”. E i giudici hanno ulteriormente precisato che “rispetto all’offesa della reputazione altrui realizzata via internet, ai fini dell’individuazione della competenza, sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima se non impossibile individuazione, i criteri oggettivi unici, quali, ad esempio, quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia in rete, di accesso del primo visitatore”. Non solo. “Per entrambe le ragioni esposte – concludono i giudici – non è neppure utilizzabile quello del luogo in cui è situato il server (che può trovarsi in qualsiasi parte del mondo), in cui il provider alloca la notizia”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 15450 del 15.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che commette il reato di molestie il condomino che spia il vicino.
I vicini erano costretti a chiudere serrande e finestre, anche di giorni, per evitare gli occhi indiscreti dei suoi vicini. Il vicino però non si limitava a “guardare” ma offendeva le vittime con gesti beffardi con le mani e la bocca. In seguito al ricorso delle vittime con cui il condomino era stato condannato a 600 euro di multa, l’imputato aveva proposto ricorso per la cassazione della sentenza di merito, per dimostrare che il terrazzo condominiale in questione fosse, in realtà, una dimora privata. La Cassazione, rigettando la tesi difensiva e confermando la condanna ai danni dell’uomo ha in proposito spiegato che “la sentenza impugnata, con motivazione incensurabile, ha specificato che la terrazza in questione si trovasse al piano ammezzato fra il primo piano, dove era ubicato l’appartamento delle odierne parti offese ed il secondo piano, dove era ubicato l’appartamento del ricorrente e che ad essa si accedeva attraverso un’apertura del comune vano scale condominiale, sicché la terrazza in questione ben poteva qualificarsi come luogo aperto alla generalità dei condomini

Corte di Cassazione, sentenza n. 15542 del 18.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia una condanna per diffamazione chi con una e-mail inviata ad una coppia di condomini accusi l’amministratore di condominio di portare avanti “una gestione nell’esclusivo proprio interesse”. Dopo essere stato condannato in primo grado da parte del giudice di pace di Milano, l’estensore della missiva elettronica era stato assolto in appello dal tribunale meneghino che aveva riformato la sentenza perché “il fatto non sussiste”.
Ora però la Cassazione, pronunciandosi sul ricorso dell’amministratore ha capovolto di nuovo il verdetto sulla base del fatto che risulta provata sia la natura diffamatoria delle espressioni utilizzate, “portare avanti una gestione nell’esclusivo proprio interesse” e essere “in combutta con imprese appaltatrici di lavori condominiali”; sia il fatto che tale e-mail fosse stata inviata a due persone, nella specie marito e moglie, come si ricava dalla intestazione: “Carissimi Laura e Luciano…”. Insomma, secondo i giudici, un simile comportamento è sufficiente per realizzare “il connotato tipico della diffamazione, ossia la diffusività della notizia denigratoria”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 15061 del 13.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’essere un semplice amministratore di fatto, privo dunque dei galloni propri dell’investitura formale da parte della società, non mette al riparo il manager occulto dal rischio di prendersi una condanna penale per bancarotta. E ancora, l’azione penale per bancarotta può essere esercita anche prima che si arrivi ad una sentenza definitiva di fallimento. In ultimo,anche Suprema corte riconosce “un’autonomia” tra bancarotta societaria e fraudolenta al punto che i due reati possono anche convivere fra di loro.

Corte di Cassazione, sentenza n. 14575 del 12.04.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la conversione della misura cautelare degli arresti domiciliari in custodia cautelare in carcere per un pubblico ufficiale accusato di concussione deve essere adeguatamente motivata.
Con tale principio la Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale di Roma che aveva accolto l’appello del Pm contro l’ordinanza di custodia domiciliare emessa dal Gip.
In particolare, secondo la Suprema Corte il pubblico ministero ha “omesso ogni valida giustificazione e spiegazione sul punto specifico della necessità di aggravare la misura degli arresti domiciliari, non potendosi in particolare valorizzare al riguardo in modo significativo la indicata possibilità di comunicare tramite telefoni cellulari, per l’evidente rischio, problematicità e limitatezza di una tale modalità operativa al fine di portare utilmente avanti la specifica attività criminosa contestata”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 13276 del 30.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se la costituzione del trust è un “mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust”, i beni dell’indagato non sono al riparo dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza del 30 marzo 2011 n. 13276. Secondo i Supremi giudici “presupposto per la confisca di cui all’art. 11 della L. n. 146 del 2006 è che la detta misura – e, dunque, anche il sequestro preventivo ad essa direttamente funzionale – riguardi, nella speciale ipotesi della confisca per equivalente, beni od altre utilità di cui il reo (in questo caso l’indagato) ha la disponibilità anche per interposta persona fisica o giuridica per un valore corrispondente al prodotto, profitto o prezzo del reato”. Nel caso affrontato dalla Cassazione invece, il ricorrente avrebbe mantenuto la disponibilità dei beni conferiti “in quanto egli stesso era truste”. Cosa vietata dall’istituto giuridico di origine inglese che prevede come condizione “ineludibile” che “il disponente perda la disponibilità di quanto conferito al trust”.

< p>Tribunale dei Minori di Milano, sentenza del 25.03.2011

Il Tribunale dei minori con la sentenza in esame ha precisato che è lecito l’uso della forza pubblica per tutelare il ragazzo gay.
Va allontanato da casa con la forza pubblica il padre violento che apostrofa come “finocchio” il figlio adolescente omosessuale.
Lo ha sancito il Tribunale per i minorenni di Milano che ha sottolineato l’importanza della vicinanza del padre al ragazzo in una fase dell’adolescenza così complessa come quella in cui si accetta l’omosessualità. C’è di più. L’uomo era venuto alle mani con la moglie in molte occasioni e, in una, aveva anche ferito il ragazzo. Aveva sempre dichiarato, fra l’altro, di non voler lasciare per nessun motivo l’abitazione. Ma i giudici hanno deciso che, in caso di ostinata opposizione, l’uomo sarà allontanato con la forza. Insomma sono state accolte le istanze della Procura meneghina che chiedeva una maggiore tutela per l’adolescente.
La misura dell’allontanamento, si legge in questo interessante provvedimento, “anche se gravemente afflittiva è l’unica efficace e dovrà essere attuata con la forza pubblica se necessaria, gicchè il padre non ha mostrato alcuna collaborazione”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 13099 del 30.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precistao che scatta l’aggravante mafiosa a carico del commercialista che ricicla denaro all’estero per conto di un cliente che a sua volta agiva su mandato di un clan della ‘ndrangheta. Secondo la Corte, per contestare l’aggravante di mafia (ex articolo 7 della legge 203/1991) va provato in concreto che l’imputato era consapevole di favorire con la sua condotta, non solo gli affari illeciti del cliente, ma anche quelli della cosca. Ed è proprio la prova di questa consapevolezza ad essere mancata nella ricostruzione dei giudice di merito.

Corte di Cassazione, sentenza n. 11251 del 22.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che imporre con violenza il taglio di capelli alla propria figlia minorenne recalcitrante integra il reato di abuso di mezzi di correzione. Anche se l’episodio è avvenuto una unica volta. Né può valere come attenuante il particolare contesto culturale di provenienza della madre di origine nigeriana. La ricorrente aveva sostenuto che il taglio dei capelli, peraltro avvenuto con delle forbici da cucina che avevano anche prodotto ferite sul cuoio capelluto, era stato «un fatto occasionale che andava rapportato nella giusta dimensione di un incidente di percorso tra madre e figlia e che aveva visto la sua genesi nell’esigenza della madre di tagliare personalmente i capelli alla bambina usando la maniera forte per fronteggiare un isterico e ingiustificato rifiuto della piccola». I magistrati della cassazione, però, gli hanno risposto che l’abuso dei mezzi di correzione «ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, come anche da una serie di comportamenti lesivi dell’integrità fisica e della serenità psichica del minore, indipendentemente dall’intenzione correttiva o disciplinare» tenuta dal genitore. Inoltre, prosegue la Cassazione l’atto della madre «non può essere scriminato dall’esigenza di tosare la figlia recalcitrante, essendo risultato che, all’isterica opposizione della bambina aveva fatto riscontro altrettanta isterica reazione della madre, che, indipendentemente dal luogo di provenienza e dall’ambito culturale della genitrice, aveva inteso proseguire, nelle sue operazioni particolarmente pericolose, al fine di affermare la propria autorità sulla piccola, abusando dei mezzi di correzione e disciplina». Ragion per cui, la Cassazione ha convalidato sia la pronuncia di condanna emessa in primo grado dal Gip di Macerata il 21 febbraio 2007, sia quella di secondo grado emessa dalla Corte di Appello di Ancona il 10 giugno 2010. Il ricorso della mamma nigeriana è stato dichiarato inammissibile con condanna al versamento di mille euro alla cassa delle ammenda.

Corte di Cassazione, sentenza n. 9926 del 11.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi comanda le operazioni in piazza è responsabile per la situazione di pericolo creata fra la folla Quando la festa si tramuta in tragedia è il maestro di cerimonie a farne le spese. Durante la processione una persona muore dopo essere stata travolta dalla folla in preda al panico: la calca si forma per il movimento scomposto dell’enorme “carro” che trasporta le reliquie sacre in spazi angusti. Dunque, chi comandava le operazioni in piazza va condannato per omicidio colposo. La festa funestata è quella di Sant’Agata, che ogni anno in febbraio richiama a Catania migliaia di fedeli per tre giorni di celebrazioni dedicata alla patrona del capoluogo etneo. Le reliquie sono portate a spalla dai volontari su di un sostegno che pesa fino a 21 tonnellate. Disastrosa la scelta del “maestro del fercolo” che decide rispettare la tradizione: la batteria percorre a passo di corsa la salita di San Giuliano senza aspettare che la strada sia libera; risultato: morirà l’indomani all’ospedale l’uomo calpestato dalla massa di persone in fuga. La condotta del “capo pattuglia” rientra nella causalità commissiva: in una situazione già a rischio per l’ordine pubblico, infatti, egli introduce un fattore di pericolo, con la decisione di mettersi in moto con il campo d’azione ancora ingombro. E il rischio, purtroppo, si concretizza con l’incidente mortale. Non si può escludere la colpa: il cerimoniere doveva prevedere che far trainare a passo di carica un mezzo così pesante avrebbe determinato reazioni inconsulte fra le migliaia di presenti.

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Consiglio di Stato, sentenza n. 3648 del 09.06.2010

Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ha precisato che non può essere negato il rinnovo del permesso di soggiorno all’immigrato condannato per la vendita di merce contraffatta. Tanto più che l’istanza viene presentata quando ha ormai un lavoro stabile e una famiglia in Italia. Con tale principio il Consiglio di Stato, ha accolto il ricorso presentato da un immigrato contro il decreto con cui il Questore di Venezia aveva respinto la sua richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno. Il giudice ha infatti affermato che, data anche la situazione presente dell’uomo, caratterizzata da un lavoro stabile ed una famiglia nel territorio italiano, e considerata la lieve intensità dei reati commessi, lontani nel tempo e legati alla vendita abusiva di merci con marchio contraffatto, e per i quali, su tre imputazioni si annovera una condanna lieve e un’assoluzione, non potesse essere negato il rinnovo dell’atto richiesto

Corte di Cassazione, sentenza n. 22212 del 11.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che ha diritto alle attenuanti generiche e quindi a uno sconto di pena lo straniero che commette dei reati, vivendo in condizioni socio-economiche disagiate. Lo ha stabilito la Suprema Corte che con tale principio ha respinto il ricorso della Procura di Torino presentato contro la decisione del Tribunale che aveva concesso le attenuanti generiche a un algerino accusato in Italia di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. In particolare secondo il pm “le disagiate condizioni di vita non sono idonee ad attenuare la portata dei reati contestati e quindi non possono essere poste a sostegno della concessione della attenuanti generiche”. Una tesi, questa, che non ha convinto la sesta sezione penale che, con una motivazione destinata alla massimazione ufficiale, ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura piemontese chiarendo che “il Tribunale non ha concesso le attenuanti generiche per incensuratezza ma per le disagiate condizioni di vita. Si tratta di un parametro sicuramente rientrante nella previsione dell’articolo 62 del codice penale”. Non solo. La Cassazione ha inoltre sottolineato come la decisione non sia in contrasto con le norme sulla sicurezza approvate due anni fa (l.125 del 2008). Anche la Procura generale della Suprema corte aveva sollecitato l’inammissibilità del ricorso dell’accusa

Corte di Cassazione, sentenza n. 20119 del 09.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame cambia i parametri per l’applicabilità dell’aggravante dell’ingente quantità di sostanze stupefacenti. Infatti, dopo aver abbandonato il paramentro della saturazione del mercato, ha stabilito che per le droghe pesanti come l’eroina o la cocaina la pena non viene aumentata se la quantità detenuta non supera i due chilogrammi. Mentre in caso di hashish e marijuana la soglia da superare sono i cinquanta chili. Secondo il principio affermato dalla Corte, “in tema di stupefacenti, ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma secondo, d. P.R. n. 309/1990, non possono di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” (ad es., eroina e cocaina) o “leggere” (ad es., hashish e marijuana) che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di due chilogrammi e cinquanta chilogrammi”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 21918 del 09.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che risponde di associazione per delinquere chi compie azioni intimidatorie finalizzate a falsare i risultati delle partite di calcio. Con tale principio la Corte ha confermato la custodia cautelare in carcere emessa dal Gip di Potenza nei confronti di due uomini, accusati di violenza privata ai danni di alcune persone. I due avevano minacciato il responsabile del settore giovanile di una squadra di calcio della zona, e inferto una “lezione” a un signore per aver offeso il presidente della loro squadra. Il Tribunale del riesame, confermando l’ordinanza del Gip, ravvisava gli estremi di un disegno criminoso associativo volto ad alterare i risultati di singole competizioni calcistiche. Ricostruzione confermata dalla Suprema Corte, che ha respinto il ricorso dei due

Corte di Cassazione, sentenza n. 21413 del 07.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è legittimo il sequestro preventivo dei ponteggi stagionali costruiti per ancorare le barche senza permesso. La Cassazione, con la sentenza in oggetto, si esprime sulla situazione che riguarda l’isola di Ponza ma ribadisce la regola generale che impone il rilascio del permesso di costruzione per i pontili galleggianti realizzati mediante l’ancoraggio dei “corpi morti”. Gli ermellini s
ottolineano che la natura stagionale di un’opera non comporta la sua “precarietà I ponteggi devono dunque essere considerati stabili e in grado di avere un impatto sull’ambiente e vanno quindi realizzati solo se esiste una regolare concessione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20647 del 01.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che scatta la condanna per appropriazione indebita a carico del direttore generale che sottrae disegni dalla sua ex azienda e li utilizza per creare due nuove società. Questa la decisione della Corte di cassazione che, in linea con i giudici di prima e eseconda istanza, conferma la condanna a carico del top manager di un’azienda che si era indebitamente appropriato di una serie di disegni tecnici, progetti e numerosi altri documenti coperti da segreto e aveva sfruttato quel “patrimonio di conoscenze” per dare vita a due nuove società. Gli ermellini escludono invece che il direttore abbia commesso anche i reati di turbativa del mercato e di concorrenza illecita, ipotizzati dalle controparti. La sottrazione di progetti, che lui stesso aveva contribuito a realizzare, spiega la Corte, non era tale da provacare il blocco o di turbare l’attività produttiva e commerciale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20514 del 28.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame vieta l’espulsione, per qualunque tipo di reato, terrorismo compreso, verso paesi a rischio. Con tale principio la Corte ha messo il veto contro il rimpatrio degli immigrati tunisini che hanno commesso dei reati in Italia. L’esplusione verso paesi a rischio tortura, in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione, è costata all’Italia ben 11 condanne, negli ultimi due anni, da parte della Corte dei diritti dell’Uomo, che considera alcuni paesi, come la Tunisia, stati a rischio per l’incolumità di chi è costretto a rientrarci. Il collegio di piazza Cavour ha ricordato l’ordine di non rimpatriare gli immigrati verso la Tunisia una inibizione obbligatoria diretta al governo italiano ed emanata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che l’ha comunicata alla rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa, con una nota trasmessa lo scorso 15 aprile. In linea con l’indicazione di Strasburgo il Supremo collegio ha negato l’espulsione in Tunisia di quattro immigrati condannati dalla Corte d’assise d’appello di Milano il 10 novembre 2008, per terrorismo e appartenenza a una cellula del gruppo salafita.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20494 del 28.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non rischia necessariamente una condanna per maltrattamenti in famiglia il coniuge irrascibile e, sporadicamente violento. Può sempre essere condannato, tuttavia, per lesioni. , ha accolto il primo motivo di ricorso di un uomo condannato dalla Sezione staccata di Pozzuoli a scontare la pena di due anni ed otto mesi di reclusione, per aver commesso vari reati tra cui quello di maltrattamenti in famiglia. L’uomo aveva presentato ricorso denunciando l’erronea applicazione dell’art. 572 c.p., poiché gli episodi di violenza nei confronti della moglie e dei figli non avendo il carattere dell’abitualità si riferivano a situazioni critiche e sporadiche. I giudici di legittimità in accoglimento del ricorso, hanno specificato che, costituendo l’abitualità della condotta un requisto fondamentale per la configurabilità del reato, la sporadicità degli episodi in oggetto determina il venir meno dell’applicabilità dell’articolo citato, non potendo rilevare a tal fine né il clima di tensione tra i coniugi, né il carattere violento ed aggressivo del marito

Corte di Cassazione, sentenza n. 20054 del 26.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il padrone del cane che morde un passante dall’interno del recinto in cui è rinchiuso, approfittando di un apertura nella barriera di recinzione, risponde di lesioni personali colpose, anche se l’animale non era libero, essendo suo preciso dovere controllare che non sia in condizioni di danneggiare gli estranei. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso della procura di Catania contro l’assoluzione dei proprietari di un cantiere in cui era rinchiuso un cane. L’animale aveva azzannato una donna mentre passava accanto all’area, riuscendo a intrufolarsi attraverso un’apertura della recinzione. I padroni del cane, accusati di lesioni personali colpose, erano stati assolti in appello. I giudici di merito sottolineavano infatti che il cane non solo non rientrava tra le categorie di cani pericolosi indicati dalla legge, ma era anche chiuso in un apposito recinto. La Suprema Corte ha però pentito la tesi della Corte d’Appello, dando ragione al procuratore, affermando la necessità di una verifica della condotta degli imputati sotto il profilo dell’adeguatezza della custodia del cane, e l’irrilevanza del fatto che il cane non fosse indicato come “razza pericolosa”. La Cassazione ha quindi concluso che l’onere di custodia dell’animale grava “sui soggetti che, disponendo del cane e del terreno in cui il cane risiede, devono provvedere affinchè li animali in esso rinchiusi con funzione di custodia o altra tollerata funzione, non producano lesioni personali agli altri”.

Corte di Casszione, sentenza n. 20300 del 27.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è nulla l’ordinanza di cistodia cautelare disposta sulla base di intercettazioni la cui copia audio, malgrado la richiesta, non sia stata consegnata al difensore. La Corte di Cassazione in composizione collegiale, con la sentenza 20300, dirime il contrasto giurisprudenziale in merito all’inutilizzabilità o meno delle intercettazioni quando il legale della difesa non è esso nelle condizioni di fare un confronto tra i “brogliacci” e i supporti magnetici. La possibilità di verificare la rispondenza tra quanto trascritto dalla polizia giudiziaria e quanto impresso nei nastri viola il diritto “incondizionato” di difesa. Malgrado questa lettura i giudici di piazza Cavour sottolineneano comunque la possibilità per il difensore di rinnovare la richiesta dei supporti magnetici alla procura.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19615 del 24.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che in caso di incidente mortale dovuto alla cattiva manutenzione della strada il capo cantiere dell’ANAS risponde di omicidio colposo. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso del procuratore generale di Potenza contro la sentenza d’assoluzione per due capocantieri dell’ANAS, accusati dell’omicidio colposo di un automobilista avvenuto su una strada statale, della cui manutenzione i due erano responsabili. L’accusa era quella di aver provocato l’incidente, per colpa costituita da negligenza, in quanto non avrebbero provveduto alla manutenzione del tratto stradale loro assegnato. Il tragico incidente era avvenuto all’altezza di un incrocio, in cui la visibilità era resa precaria a causa di una vegetazione molto alta, che riduceva notevolmente la visuale. La segnaletica era poi carente, con il cartello di “stop” seminascosto tra gli alberi, e in assenza del segnale orizzontale. I due dipendenti dell’ente autostradale avevano invocato l’ipotesi di forza maggiore, dal momento che erano numerosi gli incroci stradali che presentavano rischi per la circolazione, e che loro stavano facendo il possibile per eliminare i pericoli segnalati. La Suprema Corte, dando ragione alla procura, ha smentito la versione della Corte d’Appello, dichiarando che “In tema di reati colposi infatti, la forza maggiore si pone quale causa di esclusione della punibilità allorchè l’evento si ponga quale ineluttabile conseguenza di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, del tutto estraneo alla condotta dell’agente, nei cui confronti non sia rilevabile neanche il più lieve profilo di colpa.”. Ineluttabilità imprevedibilità non ravvisabili nel caso dei due capocantieri, poiché su loro ste
ssa ammissione, erano ben consapevoli dei rischi presenti sul tratto stradale di loro competenza, tanto che, a loro dire, si stavano adoperando per eliminarli. I giudici di legittimità hanno dunque stabilito la colpevolezza dei due imputati, pur essendo costretti a dichiarare l’estinzione del reato per avvenuta prescrizione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19637 del 25.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che il chirurgo che provoca dei danni all’apparato bronchiale di una paziente per averla mal posizionata durante l’intervento, risponde di lesioni personali. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione respingendo il ricorso di due medici, a capo dell’equipe chirurgica che aveva effettuato un intervento di chirurgia plastica al seno su una donna di Milano. I due erano accusati di lesioni personali, per aver causato alla donna una grave lesione ai bronchi. La lesione era stata provocata dalla posizione sbagliata della donna sul lettino operatorio. Questo aveva fatto che la paziente subisse delle lesioni gravi, dovute alla postura errata, mantenuta per tutta la durata dell’intervento. I medici si erano difesi, tentando di addebitare la responsabilità dell’accaduto all’anestesista, secondo loro l’unico responsabile della posizione della paziente durante l’intervento. La Suprema Corte ha però respinto le argomentazioni della difesa, ribadendo che “ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare (nei limiti e termini in cui sia da lui conoscibile e valutabile) l’attività precedente e contestuale di altro collega e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio.”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19545 del 21.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde di bancarotta fraudolenta il commercialista, membro del collegio sindacale, “regista” delle operazioni illecite finalizzate alla distrazione dei beni. Con tale principio la Corte, ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta nei confronti di un professionista di Bari che, insieme ai soci di un’azienda e in qualità di membro del Collegio sindacale aveva, in qualità di “guida tecnica”, organizzato i trasferimenti dei beni ad un’altra impresa. Quanto alla posizione del commercialista, la quinta sezione penale ha precisato che “egli ha ammesso il suo ruolo di guida tecnica in tutte le attività di trasferimenti spoliativi dei beni della società con dichiarazioni rese al pubblico ministero e poi legittimamente acquisite, in dibattimento, a seguito dell’esercizio della facoltà di non rispondere”. Quindi, i giudici di merito hanno anche messo in risalto che egli direttamente partecipazione la distrazione degli strumenti di ufficio, acquistandoli attraverso un’altra impresa si tratta di un episodio di modesto rilievo contabile, ma di altissimo rilievo dimostrativo, ai fini del convincimento della totale abnegazione del ricorrente nella costruzione e nello sviluppo del piano finalizzato alla scomparsa giuridica dei beni di massimo valore, tanto da spingersi, dal ruolo di regia e di comando nella tecnica fraudolenta, a quello di diretto occultatore di beni residui”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19557 del 24.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il medico che lavora in una clinica privata, anche solo parzialmente convenzionata con il servizio sanitario nazionale, svolge una funzione pubblica certificativa e risponde di falsità in atto pubblico se sostituisce o altera la cartella clinica di un suo paziente. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso di due medici di una clinica de L’aquila, accusati di falsità materiale in atto pubblico, aggravato dal fine di occultare il reato di lesioni colpose ai danni di una paziente da loro operata. I due, in concorso tra loro, si erano fatti consegnare la cartella clinica dalla donna e l’avevano sostituita con un’altra, contenente una descrizione dell’intervento chirurgico in parte discordante rispetto alla prima. L’intento era quello di tutelarsi preventivamente da una possibile denuncia da parte della paziente, che lamentava disturbi probabilmente ricollegabili alla cattiva riuscita dell’intervento. I medici contestavano la sussistenza del reato di falsità in atto pubblico, dal momento che la clinica privata in cui operavano era solo in parte convenzionata con il servizio sanitario nazionale, dunque loro non potevano considerarsi pubblici ufficiali. La Suprema Corte, d’accordo con l’interpretazione fornita dai giudici di merito, ha invece smentito tale tesi difensiva, stabilendo che “non può negarsi che svolga un funzione pubblica certificativa il sanitario che, prestando la propria opera professionale in una struttura privata convenzionata col servizio sanitario nazionale, attenda alla compilazione della cartella clinica”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19449 del 22.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che dire dei “neonazisti” o dei “nazifascisti” agli esponenti di un partito di destra, che si richiama, esplicitamente, all’ideologia fascista, non può essere considerato diffamatorio. Con la sentenza in esame la Corte è stata chiamata a decidere sul ricorso di un cittadino di Trieste accusato di aver diffamato gli esponenti di un noto partito di estrema destra, che aveva svolto proprio nella città friulana il suo raduno annuale. L’uomo, scandalizzato dal fatto che le autorità cittadine avessero autorizzato lo svolgimento della manifestazione proprio a Trieste, città nelle cui vicinanze si trovava l’unico lager nazista in Italia, aveva scritto a un giornale locale una serie di lettere, poi pubblicate, dove esprimeva tutta la sua indignazione e definiva i partecipanti all’evento “nazifascisti” e “neonazisti”. Il leader del partito reagiva denunciandolo per diffamazione, sottolineando che gli epiteti in questione erano lesivi e offensivi della dignità politica del partito, e non costituivano una qualifica ideologica, bensì una squalifica morale e politica. Il segretario insisteva inoltre sulla separazione storica tra le due ideologie, non negando l’adesione del suo partito all’ideologia fascista, ma sottolineando la distanza tra quest’ultima e quella nazista e di conseguenza l’offensività dell’identificazione tra le due. La questione, giunta in Tribunale, veniva risolta dai giudici di primo grado che assolvevano l’imputato, mentre la corte d’appello lo aveva condannato. La Suprema Corte, dopo un’interessante ricostruzione storica, ha annullato la sentenza d’appello, riconoscendo che le frasi dell’accusato non si possono considerare diffamatorie e offensive, dal momento che corrispondono alla verità cui è approdata la storiografia, e cioè quella della collusione tra i due regimi totalitari. I giudici della Cassazione hanno quindi assolto l’uomo, concedendogli l’esimente del diritto di critica.

Corte di Cassazione, sentenza n. 19082 del 20.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il collaboratore di giustizia ha diritto all’attenuante anche se segnala personaggi di secondo piano. Con tale principio la Corte ha annullato la decisione della Corte d’Appello di Perugia che aveva negato il diritto del ricorrente di beneficiare dell’attenuante prevista dall’articolo 73.7 del Dpr 309/90 per i collaboratori. Il no era stato motivato con lo scarso rilievo della notizia data alle autorità che riguardava un fornitore di droga con un ruolo assolutamente marginale nell’organizzazione. La Suprema Corte respinge l’interpretazione restrittiva data dai giudici di merito per la concessione dell’attenuante speciale prevista per i “pentiti” e sottolinenano come non sia necessariamente richiesto che il risultato della collaborazione consista nella sottrazione al mercato di rilevanti risorse per la commissione dei delitti. Risultato che può non essere raggiunto malgrado una p
iena e leale collaborazione. Non solo. I giudici di piazza Cavour specificano che una diversa interpretazione finirebbe per violare il principio di ugualinza e per premiare chi è inserito in circuiti criminali più rilevanti e si macchiato di crimini più rilevanti, al contrario, conclude il collegio, va valorizzata la collaborazione fattiva di colui che, per la sua posizione di marginalità in grado di offrire un limitato contributo

Corte di Cassazione, sentenza n. 18158 del 13.05.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che risponde di circonvenzione di incapace chi si approfitta dello stato di isolamento affettivo di una persona, inducendola a sborsare ingenti somme di denaro. Poco importa se non si esercita una vera e propria pressione morale, anche la mera richiesta di “soccorso finanziario” infatti, se rivolta a una persona debole e sola, può configurare il reato di circonvenzione di incapace. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso di un uomo torinese, accusato di circonvenzione di incapace ai danni di una donna sola e fragile psicologicamente. La donna era stata ricoverata in passato non perché affetta da una vera e propria malattia mentale, ma per il suo malessere psichico, connesso a una situazione di profondo disagio emotivo dovuto alla sua situazione familiare e allo stato di solitudine in cui viveva. L’uomo, suo unico “amico”, si era quindi approfittato del rapporto affettivo e della sua fragilità per indurla a consegnargli somme prelevate dal conto corrente suo e dei genitori, strumentalizzando una sua presunta condizione di difficoltà economica. La Corte d’Appello, sorda alle proteste dell’uomo secondo il quale la donna non poteva considerarsi incapace in quanto i ricoveri erano avvenuti molto tempo prima, l’aveva condannato a due anni di carcere. La vicenda tra l’altro aveva avuto un tragico epilogo, dal momento che la donna si era suicidata poco tempo dopo (circostanza questa che i giudici d’appello non avevano mancato di evidenziare). La Suprema Corte ha quindi respinto la tesi difensiva dell’uomo, affermando che “l’attività di induzione idonea a configurare il reato di circonvenzione di incapace può consistere anche nell’attività di subdolo condizionamento attuata attraverso la prospettazione di pretese difficoltà economiche da parte di un soggetto che strumentalizzi lo stato di debolezza psichica e l’isolamento affettivo del soggetto passivo, così determinandolo a compiere gli atti pregiudizievoli, non occorrendo nemmeno che la proposta al compimento dell’atto provenga dall’imputato, ricorrendo il reato anche quando quest’ultimo si sia limitato a rafforzare, approfittando delle condizioni del soggetto passivo, una determinazione pregiudizievole dal medesimo già adottata”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18501 del 15.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la sospensione condizionale della pena non può essere concessa all’imputato sottoposto all’obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria per reati della stessa natura. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso della procura di Napoli contro una sentenza della Corte d’Appello che applicava la sospensione condizionale della pena a un pregiudicato condannato per spaccio di stupefacenti. Il giovane era già stato sottoposto all’obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria per reati di droga. Nonostante ciò la corte distrettuale aveva concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, incorrendo, agli occhi del procuratore, in una contraddizione di fondo, essendo il beneficio della condizionale in aperto contrasto con l’obbligo di presentarsi all’autorità giudiziaria, sintomo invece di una spiccata tendenza a delinquere. La Suprema Corte ha dato ragione alla procura, affermando che “il beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere concesso all’imputato sottoposto all’obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria, per fatti della stessa natura, attesa la contraddittorietà tra le due inconciliabili asserzioni attinenti, l’una, ad una prognosi di spiccata pericolosità, l’altra, ad un opposto giudizio prognostico favorevole, basato sui contrario presupposto della ragionevole previsione di futura risocializzazione e normalizzazione comportamentale del reo”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 18496 del 17.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non ha diritto all’interprete di madrelingua l’immigrato sotto processo in Italia. È infatti sufficiente un interprete che parli una lingua a lui nota, molto spesso l’inglese. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un bulgaro al quale non era stato messo a disposizione un interprete di madrelingua. Infatti le conversazioni erano state tradotte in inglese e, a quanto viene ricostruito in sentenza (già destinata all’ufficio del massimario) sembra che l’uomo fosse in grado di capire. Questa nuova interpretazione fornita dai Giudici di Piazza Cavour semplificherebbe di molto i procedimenti a carico degli stranieri, nei palazzi di giustizia italiani. Soprattutto se si pensa che il contenzioso nel quale l’immigrato solleva eccezioni sulle traduzioni degli atti e sull’interprete è ancora molto alto. In particolare, ha messo nero su bianco la sesta sezione penale, “all’imputato alloglotta, che non abbia una conoscenza della lingua italiana, l’ordinamento processuale italiano (art. 143 c.p.p.) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 6.3 lett. a L. 4.8.1955 n. 848) riconoscono non già il diritto all’assistenza di un interprete di madre lingua, bensì quello di farsi assistere gratuitamente da un interprete, per la traduzione in una lingua a lui comprensibile, al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”.

Corte di Cassazione, sentenza n.18613 del 17.05.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’astensione dalle udienze del difensore con costituisce un legittimo impedimento. Con tale principio la Corte ha ribadito che il rinvio, per i procedimenti in camera di consiglio, è previsto solo nel caso di impedimento dell’imputato. A questo proposito la Corte bolla come “un caso isolato” un precedente orientamento di senso contrario. Con l’occasione la Corte specifica che l’astensione dall’attività di difesa “proclamata dall’Unione camere penali italiane non si configura come diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell’articolo 40 della Costituzione trattandosi invece di una “libertà è riconducibile al diverso ambito del diritto di associazione (articolo 10 della Costituzione) che trova un limite nei diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giudiziaria e cioè del diritto di azione e di difesa di cui all’articolo 25 della Costituzione e nei principi di ordine generale che sono posti a tutela deklla giurisdizione inclusa la ragionevole durata del processo (si veda Corte Costituzionale sentenza n.171 del 1996). Essa trova – si legge ancora nella sentenza – ulteriore limite nell’obbligo di un congruo avviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione, nonché della necessità che siano previsti strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali (Cassazione sentenza 7 maggio 2007 n.17269).

Corte di Cassazione, sentenza n.18071 del 12.05.2010

La Corte di Cassazioen cona la sentenza in esame ha precisato che deve essere condannato per truffa il sindaco e gli assessori che fanno viaggi non istituzionali facendo pagare al comune il conto anche per mogli, compagne e fidanzate. La Cassazione conferma i reati di truffa aggravata a carico di sette persone, un sindaco e sei assessori con la passione dei viaggi. Gli amministratori spacciavano, infatti, per missioni delle vacanze trascorse con le loro accompagnatrici nelle città’arte come Roma o Firenze o nei posti di mare da Rimini a Ischia. Nelle tabelle dei rimbors
i era finita anche una “scappata” a Imola per il gran premio, ma gli amministratori locali, si erano accontentati di raggiungere la destinazione con una Alfa Romeo di proprietà del comune. Il primo cittadino e gli assessori si facevano rimborsare le spese, che affermavano di aver anticipato, come se fossero state affrontate per motivi istituzionali. La Corte sottolinea nella sentenza la gestione “disinvolta” in uso nel comune con note di missione “che indicavano giustificazioni a caso, quasi mai corrispondenti a quelle effettive”. Anche le spese sostenute per le signore venivano esposte e regolarmente liquidate

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 26171 del 10.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde di ingiuria chi fa il gestaccio del pugno con il dito medio alzato verso qualcuno, essendo questa una chiara espressione di disprezzo. Con tale principio la Corte ha confermato la condanna per il reato di ingiuria di una donna accusata di aver fatto il gestaccio del dito medio nei confronti dell’ex marito, incontrato mentre era alla guida della sua automobile. Inutili i suoi tentativi di difendersi menzionando il contesto conflittuale e i rapporti di tensione tra i due, sfociati nel gesto, accompagnato peraltro da frasi offensive. I giudici della quinta sezione penale hanno rigettato il suo ricorso, respingendo la sua tesi difensiva.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27543 del 15.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che non commette favoreggiamento della permanenza di clandestini nel territorio dello Stato chi affitta loro delle stanze, a un prezzo molto basso. Non c’è in questi casi lo sfruttamento. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso di uno straniero che aveva affittato a dei connazionali alcune stanze a 50 euro al mese. Sul punto il Collegio di legittimità ha precisato che “ai fini della configurazione del reato di favoreggiamento della permanenza nel territorio dello Stato di immigrati clandestini previsto dall’art. 12, comma quinto, d. 1gs. n. 286 del 1998 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), non è sufficiente che l’agente abbia favorito la permanenza nel territorio dello Stato di immigrati clandestini, mettendo a loro disposizione unità abitative in locazione, ma è necessario che ricorra il dolo specifico”. E questo- hanno aggiunto i giudici – “è costituito dal fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, che si realizza quando l’a
gente, approfittando di tale stato, imponga condizioni particolarmente onerose ed esorbitanti dal rapporto sinallagmatico. Di conseguenza, se da un punto di vista obiettivo la concessione in locazione a cittadini extracomunitari clandestini di locali ad uso di abitazione è idonea ad integrare la condotta tipica del reato, non necessariamente dal punto di vista soggettivo, dovendosi accertare in concreto se dalla stipula del contratto si sia inteso trarre indebito vantaggio dalla condizione di illegalità dello straniero che si trova nella posizione di contraente debole, imponendogli condizioni onerose ed esorbitanti dall’equilibrio del rapporto sinallagmatico”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27178 del 14.07.2010

La Corte di Cassazionecon la sentenza in esame ha precisato che la macchina utilizzata come mezzo per truffare i cittadini va assolutamente sequestrata. Questo perché si tratta di un bene potenzialmente finalizzato alla reiterazione del reato. Alla base del principio espresso dalla Corte una coppia di anziani che era stata raggirata da un finto cedimento dello specchietto e alla quale con tutta evidenza era stata chiesta una certa somma per chiudere bonariamente l’inesistente sinistro.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25841 del 06.07.2010

La Corte di Cassazione con l asentenz aoin esame ha precisato che scattano gli arresti domiciliari per il notaio che, una volta percepite dai clienti le somme spettanti all’erario a titolo di imposta per l’acquisto d’immobili, non provveda a versarle nei tempi dovuti. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso presentato da un notaio contro l’ordinanza del G.i.p. del tribunale di Campobasso che ne aveva disposto la misura degli arresti domiciliari in relazione all’accusa di peculato. Il professionista era stato sottoposto alla procedura cautelare per il periodo di un mese, poiché pur essendo il primo sostituto d’imposta per le somme ottenute dagli acquirenti all’atto di compravendita immobiliare, aveva per ben due anni, provveduto a detenere per sé tali importi o li aveva liquidati per un ammontare di gran lunga inferiore a quello previsto dalla legge. L’intento fraudolento era confermato dal trasferimento della sede, e da alcune condotte poste in essere con il certo tentativo di eludere i controlli e frodare i clienti. Così confermando la decisione del Tribunale, ampiamente motivata e scevra di sottoposizione a critiche, anche la Cassazione ha ritenuto necessaria l’applicazione della misura.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25073 del 02.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che il reato di cui all’art. 474 c.p. – introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi – richiede, ai fine della integrazione, una falsificazione che, se pur imperfetta o parziale, sia idonea ad ingenerare, nel consumatore medio, confusione in ordine all’origine ed alla provenienza del prodotto. Non è necessario, peraltro, che l’inganno effettivamente si realizzi: si tratta, infatti, di reato di pericolo che si integra ogniqualvolta venga accertato lo svolgimento di un commercio avente ad oggetto un prodotto con marchio contraffatto (astrattamente idoneo a trarre in inganno), nell’ottica di un sistema volto a tutelare non la libera determinazione dell’acquirente ma l’affidamento del cittadino nei marchi e nei segni distintivi e, quindi, la pubblica fede.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24668 del 30.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non è necessaria la convivenza o coabitazione, essendo sufficiente che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto passivo e quello attivo … Linea dura della cassazione sulle violenze contro il partner. Infatti, i maltrattamenti all’interno di una coppia devono essere considerati maltrattamenti in famiglia anche se i due non convivono. Con tale principio la Corte, ha accolto il ricorso di una giovane di Bologna picchiata più volte dal fidanzato. La ragazza impugnava la sentenza con cui la Corte d’Appello del capoluogo emiliano escludeva la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia non avendo ravvisato uno stabile rapporto di comunità familiare tra l’imputato e la parte offesa, nonostante i due avessero una relazione sentimentale e la donna frequentasse assiduamente la casa del compagno. La quinta sezione penale ha dato ragione alla donna, precisando che non è necessaria la convivenza della coppia affinchè possa configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia. Tra i due vi era una relazione, sia lui che lei frequentavano con regolarità le reciproche abitazioni, anche trattenendosi a dormire, e questo bastava a definire le botte subite dalla ragazza non come semplici lesioni, ma come maltrattamenti in famiglia. I giudici di legittimità hanno quindi concluso che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non è necessaria la convivenza o coabitazione, essendo sufficiente che intercorrano relazioni abituali tra il soggetto passivo e quello attivo, dal momento che oggetto di tutela dell’art. 572 c.p. sono le persone della famiglia, ove per famiglia non si intende soltanto un consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche una unione di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione e di solidarietà

Corte di Cassazione, sentenza n. 16151 del 08.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’avvocato può assumere nello stesso processo (civile e penale), anche se non contestualmente, la veste di testimone e difensore. Con tale principio la Corte, ha respinto il ricorso di una donna che contestava la testimonianza del difensore della controparte, prima che questo assumesse l’incarico, in un procedimento di sfratto per morosità. La terza sezione civile ha motivato sostenendo che la posizione del legale non può essere equiparata a quella dei magistrati sulle incompatibilità processuali. Qui si tratta prevalentemente di un problema di “deontologia professionale” o comunque di una questione da risolvere con una legge. Questo anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale che si è formata sul punto. In sentenza si legge infatti che “dipende dalle regole deontologiche se dovrà essere data la prevalenza all’ufficio di testimone o al ruolo di difensore, ovvero se la scelta dovrà essere lasciata al difensore”. Rimane comunque fermo che, a differenza del carattere assoluto dell’incapacità del giudice o del pubblico ministero ad assumere la funzione di testimone, le funzioni di testimone e di difensore si pongono in un rapporto di incompatibilità alternativa. Al riguardo, “la Corte costituzionale ha ripetutamente avuto modo di rilevare che tale compatibilità di funzioni trova un idoneo correttivo nel principio del libero convincimento del giudice e nel suo dovere di valutare “con pruderete apprezzamento e spirito critico” la deposizione di ogni testimone che non sia “immune dal sospetto di interesse all’esito della causa”. Insomma, “non sussiste un’incompatibilità tra l’esercizio delle funzioni di difensore e quelle di teste nell’ambito del medesimo giudizio, se non nei termini della contestualità per cui contemporaneamente il difensore non può che essere testimone”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25798 del 05.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che i semi di cannabis non contengono sostanze stupefacenti e quindi il loro possesso e la vendita non sono perseguibili perché non violano nessuna delle norme della così detta legge antidroga. Ma nello stesso tempo il sequestro di questi semi specie se trovati accanto a opuscoli e altro materiale che spiga come coltivare la marijuana, oggetti per fumare le foglie e altri accessori utili alla coltivazione è perfettamente legittimo in quanto il materiale serve per dimostrare
l’eventuale reato di induzione e istigazione all’uso di sostanze stupefacenti.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24734 del 02.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi procura lesioni gravi a un animale e lo sevizia senza motivo e con crudeltà risponde di maltrattamenti di animali, un preciso capo di imputazione introdotto nel codice penale da una legge del 2004.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24510 del 30.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la molestia commessa col mezzo epistolare della posta elettronica, anche se idonea a ledere la tranquillità privata della persona destinataria, non è punibile ai sensi dell’articolo 660 c.p., non potendo i messaggi inviati tramite e-mail essere assimilati a quelli telefonici, in quanto il destinatario di questi ultimi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario. Le e-mail offensive non sono molestie. La legge non prevede il fatto come reato.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25158 del 02.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’abitualità della condotta di sopraffazione, tale da ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale della persona offesa, deve essere provata. Annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste, la condanna a 8 mesi di reclusione (condizionalmente sospesa) inflitta ad un uomo dalla Corte d’appello di Milano per maltrattamenti in famiglia. La Suprema Corte nella sentenza in oggetto ha ritenuto fondato il ricorso con cui l’imputato rilevava che gli stessi giudici del merito avessero sottolineato il carattere forte della moglie, per nulla intimorita dalla sua condotta. L’uomo, quindi, lamentava il fatto che la Corte d’appello avesse scambiato per sopraffazione un mero clima di tensione tra coniugi. L’annullamento della pronuncia di secondo grado da parte degli ermellini si basa sull’assunto che ai fatti incriminati sono solo genericamente richiamati nella sentenza impugnata e appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di circa 3 anni, che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione richiesta pe l’integrazione della fattispecie in esame; tanto più si legge nella sentenza, la condizione psicologica della donna per nulla intimorita dal comportamento del marito, era solo quella di una persona scossa….esasperata…molto carica emotivamente. Dunque, conclude la Cassazione, non risulta offerta dai giudici di merito alcuna indicazione che deponga per la sussistenza, in capo all’imputato, di una volontà sopraffattrice idonea per integrare il reato contestato.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n.24476 del 30.06.2010

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha precisato che va erogata la sanzione pecuniaria la posto del carcere anche per chi usufruisce del gratuito patrocinio. Le Sezioni Unite dirimono un contrasto giurisprudenziale tra diverse scuole di pensiero. Secondo la Corte il ritenere che le condizioni economiche giustifichino una disparità di trattamento tra cittadini che si trovano in analoghe condizioni vorrebbe dire avallare una discriminazione fondata sul reddito ed entrare in contrasto con i diritti sanciti dalla costituzione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24432 del 28.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’iniziazione alla droga fa scattare il reato di cessione ed esclude l’uso di gruppo. La Corte chiarisce i confini entro i quali si può parlare di uso di gruppo nel caso di consumo di stupefacenti da parte di più persone. Nel caso analizzato l’imputato aveva somministrato alcool e cocaina a tre ragazze minorenni con lo scopo di fargli compiere e subire atti sessuali. Una situazione, in cui il reato configurato è la cessione, l’uomo era infatti – spiega il collegio di piazza Cavour – in un rapporto di “estraneità Diversità rispetto a coloro a cui forniva la droga. Non era dunque importante la mancanza dell’elemento della codetenzione dal momento che – conclude la suprema corte – si può parlare di uso di gruppo anche nel caso gli stupefacenti, pur detenuti da una sola persona, siano consumati da soggetti che li assumono abitualmente.

Corte di Cassazione, sentenza n. 23738 del 21.06.2010

La Corte di Cassazione, ha precisato che sono nulle le sentenze emesse senza sottoscrizione del giudice monocratico. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso presentato dal Procuratore generale della Corte di Appello di Torino per la dichiarazione di nullità di una sentenza emessa dal Tribunale monocratico della stessa città a causa della mancata sottoscrizione della stessa da parte del giudice che l’aveva emessa. La Corte accogliendo il ricorso ha infatti affermato che in questo caso va applicato il principio secondo cui, “qualora la sentenza sia mancante della sottoscrizione finale del giudice, la nullità prevista, per tale ipotesi, dall’art. 546 comma 3 c.p.p. non è esclusa (…) dall’esistenza del dispositivo letto in udienza (…)”, in quanto l’assenza della firma in calce alla sentenza impedisce di ritenere la provenienza della decisione dal giudice che lo ha compiuto”. Peraltro, il giudice di legittimità nel trasmettere gli atti al Tribunale di Torino, ha anche ribadito che “la nullità della sentenza derivante dalla mancata sottoscrizione del giudice, in quanto vizio che attiene soltanto alla formazione del documento nel quale è trasfusa la deliberazione, di carattere relativo e può essere sanata – non travolgendo il giudizio, della cui regolarità fanno fede il processo verbale di dibattimento e il dispositivo pubblicato in udienza – con la mera rinnovazione dell’atto viziato, vale a dire con una nuova redazione del medesimo”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24214 del 23.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la tutela contro la contraffazione scatta dalla data di presentazione della domanda di brevetto. Questa la decisione della Corte di Cassazione che rafforza un orientamento maggiormente garantista dei prodotti contro i falsi in un tema che ha dato vita a un dibattito giurisprudenziale tra chi affermava che la protezione dell’opera dell’ingengno, dell’industria o del marchio poteva considerarsi attiva solo successivamente alla concessione del brevetto e chi faceva invece decorrere la tutela penale fin dalla presentazione della domanda. A quest’ultimo orientamento, che si è rivelato anche il più consolidato, ha aderito la Suprema Corte

Corte di Cassazione, sentenza n. 23693 del 18.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’insegnante che apostrofa l’alunno chiamandolo “ignorante e presuntuoso” può essere condannato per ingiuria. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso di una professoressa accusata di ingiuria aggravata per aver apostrofato un suo studente con la frase “non sei una persona perbene, sei un presuntuoso e un ignorante”, dopo che lui aveva chiesto chiarimenti sull’esito di un’interrogazione. L’insegnante sottolineava che la sua era stata una risposta ai comportamenti apertamente ostili dell’alunno, richiedendo quindi l’esimente della provocazione. In realtà il giovane, secondo le testimonianze, si era limitato, in qualità di rappresentante di classe a “criticare – correttamente e pacatamente- la condotta dell’insegnante, contestandole una non coerente interpretazione del concetto di trasparenza nelle sue valutazioni, non comunicando a un discepolo, con la richiesta tempestività l’esito della prova orale”. La ricostruzione dei giudici di merito non è stata smentita dalla Suprema Corte, che ha confermato la condanna della donna

Corte di Cassazione, sentenza n. 23274 del 16
.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che in materia di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento dei giudice, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 388, comma 2, c.p. concernente l’elusione di un provvedimento del giudice relativo all’affidamento di minori, il concetto di elusione non può equipararsi puramente e semplicemente a quello di inadempimento, occorrendo, affinchè possa concretarsi il reato, che il genitore affidatario si sottragga con atti fraudolenti o simulati, all’ adempimento del suo obbligo di consentire le visite del genitore non affidatario, ostacolandole, appunto, attraverso comportamenti implicanti un inadempimento in mala fede e non riconducibile a una mera inosservanza dell’obbligo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 23213 del 16.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il condannato per mafia ha l’obbligo di comunicare alla polizia tributaria anche le operazioni immobiliari fatte dal notaio. La Corte di Cassazione respinge le ragioni del ricorrente condannato in via definitiva per reati di mafia, che sosteneva di non essere punibile per l’omessa comunicazione (prevista dagli articoli 30 e 31 legge 646 del 1982, per chi si trova nella sua situazione) a causa della facilità con cui la sua transazione poteva essere rintracciata. Secondo il ricorrente la possibilità di controllo, ampliata anche dalle nuove tecnologie informatiche, lo avrebbe messo al riparo dall’obbligo imposto dalla legge. Ma non basta, si era detto certo che la comunicazione alla polizia Tributaria sarebbe avvenuta in modo automatico dal momento che l’operazione era avvenuta ufficialmente in uno studio notarile. Convinziaoni a cui la Corte non crede, addossando al ricorrente anche il dolo generico. La Corte specifica che, pur in presenza delle tecnologie per farlo, il controllo dell’ammistrazione è solo eventuale mentre scopo della legge che obbliga all’informazione è quello di renderlo inevitabile. Per finire il collegio di piazza Cavour esclude l’automatismo tra l’atto pubblicocompiuto e la comunicazione, dal momento non non esiste nessuna previsione in tal senso.

Corte di Cassazione, sentenza n. 21918 del 07.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha affermato che risponde di associazione per delinquere chi compie azioni intimidatorie finalizzate a falsare i risultati delle partite di calcio. Con tale principio la Corte, ha confermato la custodia cautelare in carcere emessa dal Gip di Potenza nei confronti di due uomini, accusati di violenza privata ai danni di alcune persone. I due avevano minacciato il responsabile del settore giovanile di una squadra di calcio della zona, e inferto una “lezione” a un signore per aver offeso il presidente della loro squadra. Il Tribunale del riesame, confermando l’ordinanza del Gip, ravvisava gli estremi di un disegno criminoso associativo volto ad alterare i risultati di singole competizioni calcistiche. Ricostruzione confermata dalla Suprema Corte, che ha respinto il ricorso dei due.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22787 del 15.06.2010

La corte di Cassazione, con la sentenza in esame fa chiarezza sulla configurazione della bancarotta fraudolenta. gli ermellini della quinta sezione specificano, infatti, che per far scattare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale contabilità non è sufficiente il semplice rinvenimento della documentazione attribuita al fallito, ma è necessaria la certezza che questa sia riferita alla stessa impresa poi dichiarata fallita. Il collegio precisa che “la relativa interpretazione, in assenza di un commento organico e logico, non può trovarsi di presunzione alcuna circa la fraudolenza per il mancato rinvenimento di cespiti risultanti”. Per la responsabilità conclude il collegio – è necessaria la sicura dimostrazione della “previa disponibilità in capo al fallito dei beni mancanti”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 22694, del 14.06.2010

la Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è reato utilizzare un permesso invalidi “scannerizzato”. Per la Corte tale ipotesi configura il reato di cui agli articoli 477 e 482 c.p. la contraffazione del permesso di trasporto invalidi, creando copia mediante scannerizzazione di un permesso in bianco e apponendo altre generalità dal momento che hanno rilevanza penale, ex art 492 c.p., le condotte di falsificazione di copie che tengono luogo degli originali, quando il documento relativo abbia l’apparenza e sia utilizzato come originale, e non si presenti come mera riproduzione fotostatica

Selezione e raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 11050 del 18.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il sistema di espulsione degli stranieri senza allontanamento coattivo rischia di essere completamente azzerato. La prima sezione penale della Corte di cassazione, infatti, con l’ordinanza 11050/2011 ha chiesto alla Corte di giustizia Ue, in via pregiudiziale, di pronunciarsi su una serie di questioni. In particolare i giudici del Supremo collegio hanno chiesto, in primo luogo, di conoscere se, in base alla Direttiva 2008/115/CE, è precluso a uno Stato membro di intimare allo straniero irregolare di lasciare il territorio nazionale quando non è possibile dare corso all’allontanamento coattivo, immediato o previo trattenimento. I dubbi riguardano poi anche le eventuali conseguenze. Il collegio di legittimità, infatti, vuole saper se, in caso di mancata ingiustificata collaborazione al rimpatrio volontario, l’incriminazione dello straniero e la previsione di una sanzione detentiva superiore fino a dieci volte il trattenimento, siano legittimi e se sia altrettanto lecito emettere una serie di intimazioni al rimpatrio volontario e di restrizioni della libertà personale che dipendono dalla disobbedienza a tali intimazioni. La Cassazione, infine, chiede alla Corte Ue se è possibile affermare che in base alla Direttiva la restrizione della libertà ai fini del rimpatrio vada considerata alla stregua di extrema ratio e che nessuna misura detentiva è giustificata se collegata a una procedura espulsiva in relazione alla quale non esiste alcuna prospettiva ragionevole di rimpatrio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10411 del 15.03.2011

La Corte di Cassazione con la senyRischia la condanna per omicidio volontario il pirata della strada che provoca un incidente mortale tenendo una guida spericolata.
La Corte di Cassazione chiede un nuovo processo a carico di un giovane moldavo che una notte del 18 luglio 2008, nel tentativo di sfuggire ai poliziotti, con un furgone rubato aveva travolto una citroen con a bordo tre ragazzi, uccidendone uno e ferendo gli altri due.
Gli ermellini hanno accolto il ricorso della Procura della Corte d’Appello contro la decisione della Corte d’Assise d’Appello di condannare l’uomo, a 8 anni e 8 mesi, per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento.
Una pena che i giudici di piazza Cavour invitano a inasprire ipotizzando il reato di omicidio volontario.
La mano pesante sarebbe giustificata dalla dinamica dell’incidente. Il pregiudicato aveva, infatti, tagliato diversi incroci, malgrado il semaforo rosso, tra via Nomentana e via regina Margherita a Roma. La velocità del furgone, del peso di circa 2 tonnellate, variava dai 100 km orari ai 160 in piena estate e nel centro di Roma. In più – fanno notare i giudici – sull’asfalto nel punto in cui è avvenuto l’incidente non c’era alcun segno di frenata né tentativo di deviazione.
E’ quanto basta per far concludere al collegio che la persona alla guida, che non aveva assunto né stupefacenti né alcolici, fosse consapevole dell’altissima probabilità di provocare un incidente mortale. Un rischio considerato evidentemente accettabile per chi era alla guida di un automezzo del peso di 2 tonnellate.
Con questa sentenza la Cassazione si avvicina alle richieste più volte avanzate dai pubblici ministeri di considerare, in presenza di condotte particolarmente spericolate, l’omicidio volontario e non il meno grave omicidio colposo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 10411 del 15.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia la condanna per omicidio volontario il pirata della strada che provoca un incidente mortale tenendo una guida spericolata.
La Corte di Cassazione chiede un nuovo processo a carico di un giovane moldavo che una notte del 18 luglio 2008, nel tentativo di sfuggire ai poliziotti, con un furgone rubato aveva travolto una citroen con a bordo tre ragazzi, uccidendone uno e ferendo gli altri due.
Gli ermellini hanno accolto il ricorso della Procura della Corte d’Appello contro la decisione della Corte d’Assise d’Appello di condannare l’uomo, a 8 anni e 8 mesi, per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento.
Una pena che i giudici di piazza Cavour invitano a inasprire ipotizzando il reato di omicidio volontario.
La mano pesante sarebbe giustificata dalla dinamica dell’incidente. Il pregiudicato aveva, infatti, tagliato diversi incroci, malgrado il semaforo rosso, tra via Nomentana e via regina Margherita a Roma. La velocità del furgone, del peso di circa 2 tonnellate, variava dai 100 km orari ai 160 in piena estate e nel centro di Roma. In più – fanno notare i giudici – sull’asfalto nel punto in cui è avvenuto l’incidente non c’era alcun segno di frenata né tentativo di deviazione.
E’ quanto basta per far concludere al collegio che la persona alla guida, che non aveva assunto né stupefacenti né alcolici, fosse consapevole dell’altissima probabilità di provocare un incidente mortale. Un rischio considerato evidentemente accettabile per chi era alla guida di un automezzo del peso di 2 tonnellate.
Con questa sentenza la Cassazione si avvicina alle richieste più volte avanzate dai pubblici ministeri di considerare, in presenza di condotte particolarmente spericolate, l’omicidio volontario e non il meno grave omicidio colposo.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 5924 del 14.03.2011

La Corte di Cassa’esposizione del crocefisso nelle aule di tribunale non lede il principio della libertà di religione. Le sezioni unite della Cassazione confermano la rimozione dalla magistratura, disposta dal Consiglio superiore della del giudice di Camerino che si era rifiutato di tenere le udienze in un’aula in cui era esposto il simbolo della cristianità. Un rifiuto a svolgere il proprio lavoro che era continuato anche dopo che il presidente del
tribunale aveva messo a disposizione del giudice un’aula senza la croce. Il giudice contestatore aveva però bollato la soluzione come “ghettizzante” e aveva alzato il tiro chiedendo di far sparire, in nome della laicità dello Stato, i crocefissi da tutte le aule di tribunale della Nazione. Pretesa che – spiega il Collegio – andava oltre l’interesse soggettivo di chi la avanzava e sconfinava nel campo dei diritti altrui e degli interessi diffusi che non possono essere rivendicati da un singolo cittadino.
Un altro no il magistrato lo aveva incassato sulla richiesta di esporre accanto al crocefisso la menorah ebraica. Correttamente i giudici di merito avevano rilevato che negli uffici pubblici italiani è possibile esporre soltanto il crocefisso. Per l’esposizione di qualunque altro simbolo serve, infatti, un intervento del legislatore che, al momento non c’è stato.
I giudici di piazza Cavour non mancano comunque di sottolineare come la presenza del simbolo cristiano, nelle scuole come nei tribunali, non intacchi il principio della laicità dello Stato che non può assolutamente essere messo in dubbio. Gli ermellini ricordano in proposito che la Corte costituzionale ha “riconosciuto nella laicità un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale”.
Con la sentenza di oggi i giudici di piazza Cavour confermano dunque il “licenziamento” del giudice perché ha “saltato” senza ragione 15 udienze. Il lavoratore può – conclude la Corte – rifiutarsi di prestare la sua attività se vengono violati i suoi diritti fondamentali. Ma non era questo il caso.

Giudice di Pace di Milano, sentenza n. 41 del 07.01.2011

Il Giudice di Pace di Milano con la sentenza in esame ha precisato che se il cliente consente ad altri, in qualsiasi modo, di venire a conoscenza dei propri codici identificativi non può poi rivalersi contro la banca per i furti subiti. Lo ha stabilito il giudice di Pace di Milano, con la sentenza in oggetto, in quanto l’istituto di credito non aveva modo di impedire le operazioni sul conto.
Il caso è quello di una correntista che ha subito un ammanco di 2.100 euro dal proprio conto corrente ad opera di soggetti operanti in Romania. Siccome i ladri sono andati a colpo sicuro, non risultando “tentativi di inserimento di credenziali errate”, secondo il giudice le possibilità, entrambe riconducibili ad una responsabilità del cliente, sono soltanto due. E cioè: la conoscenza diretta delle password da parte di terzi, configurandosi così la violazione dell’obbligo contrattuale del segreto; oppure l’assenza di adeguate protezioni sul computer del cliente che ha permesso ad altri l’indebito accesso sul terminale.
Proprio per prevenire una propria responsabilità rispetto a tali evenienze, il contratto di home banking prevede una informativa ai clienti sui rischi che corrono per lo smarrimento dei codici o per il trafugamento dal pc. In conclusione, per il giudice: “la prova dell’utilizzo di Codice e Password corretti, ricavabile dai tracciati prodotti esclude qualsiasi responsabilità della banca” e dunque al cliente non spetta alcun risarcimento.

Corte di Cassazione, sentenza n. 9874 del 10.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il giudice non può dichiarare il non luogo a procedere, previsto in caso di espulsione, nel caso l’imputato di un reato lasci spontaneamente il territorio nazionale. I giudici di piazza Cavour, con la sentenza 9874, escludono la possibilità di estendere alla partenza volontaria dello straniero la stessa disciplina prevista in caso di espulsione o di respingimento alla frontiera. La Cassazione ha così censurato l’analogia messa in atto dal Tribunale dei minorenni di Torino che aveva chiuso con il non luogo a procedere il caso di un immigrato accusato di ricettazione e di porto abusivo di un’ascia, perché l’estracomunitario aveva lasciato di sua volontà il territorio nazionale. Gli ermellini sottolineano come sia l’espulsione sia il respingimento alla frontiera siano atti adottati da una autorità amministrativa mentre l’allontanamento spontaneo avviene al di fuori di un iter procediementale e del nulla osta dell’autorità giudiziaria. Differenza che consentirebbe allo straniero, ottenuta la sentenza di non luogo a procedere, di rientare in Italia senza essere neppure sanzionato, come avverrebbe nel caso dell’espulsione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 9276 del 09.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’indicazione non corretta della data di scadenza dei prodotti alimentari fa scattare il tentativo di frode. La Corte di Cassazione, con la sentenza n.9276, specifica che il reato si consuma a prescindere dalla messa in vendita del prodotto e dunque da una concreta contrattazione tra il cliente e l’esercente. Per il tentativo di frode in commercio è sufficiente – spiegano gli ermellini – che la merce, comunque destinata alla vendita, riporti nelle etichette indicazioni non veritiere sull’origine, la provenienza, la qualità, la quantità e la data di scadenza.

Corte di Cassazione, sentenza n. 8832 del 07.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che anche il danneggiamento degli oggetti dell’ex può far scattare lo stalking. La Cassazione, con la sentenza 8832, ha sanzionato la violenza crescente contro le cose compiuta dall’ex compagno anche anche se gli atti non sono direttamente rivolti a mettere a rischio l’incolumità fisica della donna e a procurarle uno stato patologico di ansia. Secondo gli ermellini le manifestazioni di aggressività sono tali da mettere ugualmente a repentaglio «l’equilibrio emotivo». Una conclusione che ha portato i giudici di piazza Cavour all’accusa di stalking e alla conferma delle misure cautelari che disponevano il divieto di avvicinamento ai luoghi in cui viveva o lavorava l’ex fidanzata.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7017 del 23.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che commette il reato di diffamazione chi affigge un cartello con scritto vendesi l’immobile per la fastidiosa presenza di un vicino «testimone di Geova», laddove il riferimento a un credo religioso diverso da quello storicamente radicato in Italia, rende ancora più offensiva l’immagine di inciviltà che l’autore intendeva restituire ai lettori attraverso lo scritto pubblico. Lo precisa la sentenza n. 7017 del 23 febbraio 2011, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione. Il diffamatore cerca di evitare la condanna osservando che «testimone di Geova» non è affatto un’offesa. E in questo, ovviamente, ha ragione da vendere. Né si può verosimilmente sostenere che il giudice abbia condannato per questo motivo il meccanico che annuncia la vendita dell’immobile e dell’attività artigianale adducendo l’intollerabile vicinanza del confinante. Il punto è che il richiamo alle convinzioni religiose del vicino aggrava l’offesa contenuta nel messaggio che punta a screditarne la reputazione nel circondario: il confinante è presentato come molesto al punto da indurre il proprietario dell’immobile a cambiare in un sol colpo le sue scelte esistenziali e lavorative. È vero: il fatto della diffamazione «deve essere valutato nella sua singolarità storica». Ma è evidente che, nella specie, il meccanico pronto a trasferirsi ha voluto comunicare a tutto il circondario di aver vissuto quotidianamente con una persona non meritevole, a suo dire, di sereni rapporti di vicinato. E il riferimento alla presunta «anomalia» del confinante risulta appesantito dal richiamo all’adesione a un culto religioso minoritario, almeno sul piano statistico, nel nostro Paese.

Corte di Cassazione, sentenza n. 8366 del 02.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’acquisto di droga per uso di gruppo non è reato. Le condizioni per la non punibilità è che risulti in modo palese che il consumo è esclusivamente
personale, il “mandato” all’acquisto deve essere dato da tutti i componenti del gruppo, il compratore sia uno degli assuntori, che siano certi sia l’identità dei componenti del gruppo come chiara la volontà di procurarsi la sostanza. E ancora, è necessario che sia raggiunta un’intesa sui luoghi e sui tempi del consumo e che gli “effetti dell’acquisizione traslino direttamente in capo agli interessati senza passaggi mediati”. Rispettate queste condizioni si configura, l’uso di gruppo non penalmente rilevante, anche alla luce della riforma Fini Giovanardi del 2006.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7929 del 01.03.2011

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che si applica la custodia cautelare in carcere per il reato di maltrattamenti in famiglia per chi picchia l’amante. La caratteristica di relazione stabile, tipica di alcuni rapporti extraconiugali, ha indotto la Corte di Cassazione a estendere il reato di maltrattamento in famiglia, e la conseguente pena, anche a una relazione adulterina.
Gli ermellini hanno confermato la custodia in carcere, applicata dal tribunale di Messina, nei confronti di un uomo che aveva malmenato la sua amante procurandogli volontariamente delle lesioni. Secondo la difesa del fedigrafo manesco non esistevano i presupposti del reato di maltrattamenti in famiglia. Il suo assistito, infatti, conviveva con la moglie e i figli nell’abitazione coniugale e la sua relazione non sarebbe mai sfociata in “uno stabile rapporto di comunità familiare”, tale da determinare quei reciproci rapporti e obblighi di solidarietà e assistenza che sono elementi costitutivi del delitto contestato. Di parere diverso i giudici di piazza Cavour, secondo i quali il carattere di stabilità del rapporto extraconiugale è rilevante nell’attribuzione del reato.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 7931 del 01.03.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su di una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio o porli a base di una nuova richiesta di misura cautelare personale, ma la scelta così operata gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare”. E’ questo il principio di diritto sancito dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione con la sentenza del 1° marzo 2001 n. 7931. Il Pm, dunque, resta libero di scegliere il “veicolo” in cui utilizzare i nova ai fini del perseguimento del suo obiettivo, ma una volta operata una scelta, non può più, per lo stesso utilizzo, fare ricorso al veicolo alternativo. Scongiurandosi così anche il rischio del conseguimento di un duplice titolo per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi.

E’ reato bloccare un’auto con la propria vettura

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere condannato per violenza privata la ricorrente che aveva lasciato la sua auto all’interno del cortile dello stabile in cui abitava, messa in modo tale da bloccare l’uscita della macchina di un’altra condomina. La vittima del sopruso aveva suonato clacson e citofono della proprietaria della vettura parcheggiata male, fino ad accusare un malore che i giudici hanno collegato allo stress provocato dalla frustrazione di non potersi allontanare come avrebbe voluto.
La Cassazione bolla come inutile “l’encomiabile sforzo profuso dalla difesa” per dimostrare la buona fede della sua assistita che non era riuscita a spostare l’automezzo che era d’intralcio “malgrado le affannose ricerche per reperire le chiavi”. Non piace agli ermellini neppure la giustificazione della mancata risposta della signora nel rispondere alle sollecitazioni della vicina. L'”inerzia” era dovuta – a suo dire – solo alla convinzione che il marito o il padre avessero provveduto a informare la diretta interessata dello smarrimento delle chiavi. Gli ermellini, anche loro particolarmente sensibili al tema, decidono per i 30 giorni di carcere più il risarcimento dei danni.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7155 del 24.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è corretto il sequestro preventivo dell’articolo diffamatorio pubblicato su internet.
La Corte di cassazione conferma il provvedimento con il quale il tribunale di Milano aveva disposto la rimozione di un pezzo pubblicato sul sito http://www.società/ civile.it/blog dal titolo “Basso impero” a firma del giornalista Gian Battista Barbacetto. Nel mirino del blogger era finita la parlamentare europea Licia Ronzulli, accusata di aver ottenuto la carica non grazie a qualità politiche, inesistenti, ma in virtù del suo ruolo di “maitresse” nell’organizzazione di festini a villa Certosa. La Ronzulli era stata definita un’efficientissima “ape regina” responsabile della logistica con il compito di smistare ragazze e ospiti.
Affermazioni che andavano, secondo i giudici di Milano e di Piazza Cavour, oltre la critica pur aspra, ma lecita, sull’asserita mancanza di capacità politiche perché attribuivano all’europarlamentare la responsabilità di un fatto specifico: quello di aver gestito un giro di prostitute da destinare alla villa sarda di proprietà del premier Silvio Berlusconi.
Pronta era scattata la querela e la rimozione dal sito del pezzo incriminato, prima che ne venisse, come pretendeva l’autore, “definitivamente accertata la diffamatorietà”.
Una richiesta che non poteva essere soddisfatta – spiega la Cassazione – senza snaturare il senso stesso del sequestro preventivo, che sta proprio nell’impedire l’aggravamento o il protrarsi delle conseguenze nel caso si ipotizzi una condotta criminosa.
Il Supremo collegio ribadisce, Costituzione e Convenzione dei diritti dell’Uomo alla mano, la libertà di informazione, di cronaca, di critica e di denuncia civile diffuse con qualsiasi mezzo idoneo a manifestare il proprio pensiero. Nessun dubbio dunque che la diffusione di un pezzo giornalistico su Internet sia una manifestazione del pensiero che trova l’unica limitazione nella tutela dei diritti di pari dignità costituzionale e nel rispetto della legge ordinaria. Il sequestro preventivo – concludono i giudici – non incide solo sulla proprietà del mezzo di comunicazione ma anche sulla libertà individuale, può quindi essere disposto solo in presenza di un atto “penalmente rilevante”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 7155 del 24.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è corretto il sequestro preventivo dell’articolo diffamatorio pubblicato su internet.
La Corte di cassazione conferma il provvedimento con il quale il tribunale di Milano aveva disposto la rimozione di un pezzo pubblicato sul sito http://www.società/ civile.it/blog dal titolo “Basso impero” a firma del giornalista Gian Battista Barbacetto. Nel mirino del blogger era finita la parlamentare europea Licia Ronzulli, accusata di aver ottenuto la carica non grazie a qualità politiche, inesistenti, ma in virtù del suo ruolo di “maitresse” nell’organizzazione di festini a villa Certosa. La Ronzulli era stata definita un’efficientissima “ape regina” responsabile della logistica con il compito di smistare ragazze e ospiti.
Affermazioni che andavano, secondo i giudici di Milano e di Piazza Cavour, oltre la critica pur aspra, ma lecita, sull’asserita mancanza di capacità politiche perché attribuivano all’europarlamentare la responsabilità di un fatto specifico: quello di aver gestito un giro di prostitute da destinare alla villa sarda di proprietà del premier Silvio Berlusconi.
Pronta era scattata la querela e la rimozione dal sito del pezzo incriminato, prima che ne venisse, come pretendeva l’autore, “definitivamente accertata la diffamatorietà”.
Una richiesta che non poteva essere soddisfatta – spiega la Cassazione – se
nza snaturare il senso stesso del sequestro preventivo, che sta proprio nell’impedire l’aggravamento o il protrarsi delle conseguenze nel caso si ipotizzi una condotta criminosa.
Il Supremo collegio ribadisce, Costituzione e Convenzione dei diritti dell’Uomo alla mano, la libertà di informazione, di cronaca, di critica e di denuncia civile diffuse con qualsiasi mezzo idoneo a manifestare il proprio pensiero. Nessun dubbio dunque che la diffusione di un pezzo giornalistico su Internet sia una manifestazione del pensiero che trova l’unica limitazione nella tutela dei diritti di pari dignità costituzionale e nel rispetto della legge ordinaria. Il sequestro preventivo – concludono i giudici – non incide solo sulla proprietà del mezzo di comunicazione ma anche sulla libertà individuale, può quindi essere disposto solo in presenza di un atto “penalmente rilevante”.

Corte di Cassazione, sentenza n.6937 del 23.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che scatta il reato di furto e non la semplice appropriazione indebita a carico di chi sottrae il cellulare che il prorietario ha prestato per una telefonata da fare in sua presenza. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, coglie l’occasione per chiarire la differenza tra i reati di furto e appropriazione indebita. La seconda – sottolineano gli ermellini – è configurabile quando l’oggetto è stato affidato a un detentore e rientra nella sua autonoma disponibilità. Nel caso esaminato non c’era alcuna disponibilità del bene, essendo il cellulare “passato di mano” il tempo necessario per consentire a chi lo chiedeva di fare una telefonata.

Corte di Cassazione, sentenza n. 6462 del 21.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il semplice “consiglio”, non accompagnato da atti di violenza, di rivolgersi a una determinata ditta dato da imprenditori in “odore di mafia” lede la libertà di impresa. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della Procura del tribunale di Napoli contro la decisione dei giudici del riesame che avevano rimesso immediatamente in libertà due imprenditori campani, che avevano imposto una ditta di trasporti, gestita a metà tra il clan dei casalesi e esponenti di cosa nostra vicini alle famiglie Provenzano e Riina. L'”indicazione” serviva a mantenere il monopolio nel trasporto dei prodotti destinati ai mercati ortofrutticoli della Campania e della Sicilia. Il tribunale del riesame, pur ammettendo che il sodalizio mafia-camorra aveva consentito alle consorterie criminali di incrementare e mantenere il loro giro di affari riteneva provato il solo reato di associazione per delinquere. Secondo i giudici, infatti, per parlare di violazione delle norme sulla libertà di impresa é necessario che l’imposizione di una determinata ditta sia accompagnata da atti di violenza o minaccia finalizzati all’eliminazione degli altri concorrenti.
Un’interpretazione da cui si discostano nettamente gli ermellini che rinviano la questione al tribunale del riesame, invitando i giudici a correggere la rotta, tenendo presente che il metodo mafioso solo in casi estremi ha bisogno di ricorrere alla violenza fisica o alla minaccia aperta. Per raggiungere lo scopo spesso è sufficiente dare un consiglio “che non si può rifiutare”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 6438 del 21.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il rifiuto di restituire al coniuge la biancheria del corredo può costare il carcere per appropriazione indebita. Solo il ritiro della querela da parte della ex moglie ha salvato da tre mesi di reclusione e 300 euro di multa il marito che, accettato il fallimento del matrimonio, non si era rassegnato all’idea di separarsi da: due piumoni, cinque coperte (tre estive e due invernali, come specifica la Cassazione), quattro tovaglie, due paia di lenzuola e vari asciugamani. La sottrazione della “dote” aveva fatto scattare la condanna, sia in primo grado sia in secondo, per appropriazione indebita. Reato a cui i giudici di Tribunale e Corte d’Appello avevano aggiunto l’aggravante del “possesso di cose a titolo di relazioni domestiche e di coabitazione”, una contestazione supplementare che, secondo i giudici di seconda istanza, rendeva il crimine perseguibile d’ufficio. Più generosa la Cassazione che, pur confermando il reato, ricorda che tutti i delitti contro il patrimonio commessi a danno di un coniuge separato sono punibili solo se c’è una querela della persona offesa, anche quelli in cui è presente un’aggravante.

Tar Lombardia, sentenza n. 457 del 11.02.2011

Il Tar Lombardia con la sentenza in esame ha precisato che la sospensione della licenza commerciale per il locale pubblico viene disposta in caso di spaccio di droga oppure in caso di rissa.
La misura serve a proteggere la collettività. E ciò indipendentemente dalla responsabilità dell’esercente. La misura prevista dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza è puramente preventiva e discrezionale: l’adozione risulta dunque legittima laddove nell’esercizio si crei una situazione di allarme sociale a causa dei frequentatori abituali.
Dovrà rispettare i 30 giorni di chiusura impostigli dal questore il padrone di un bar nell’hinterland milanese, un locale noto alle forze dell’ordine come abituale ritrovo di pregiudicati: una volta la polizia è stata costretta a intervenire per sedare una rissa e, in un’altra circostanza, vi ha arrestato un extracomunitario intento a spacciare dosi di sostanze stupefacenti. Ce n’è d’avanzo, insomma, per legittimare la sospensione della licenza commerciale, che è frutto dell’ampia discrezionalità riconosciuta all’amministrazione: si tratta infatti di un potere posto a garanzia dell’ordine pubblico che può ben essere esercitato di fronte a situazioni che rappresentano una fonte di pericolo «concreto e attuale» per la collettività.
La sospensione della licenza, fra l’altro, risponde a due obiettivi: primo, privare i malintenzionati di un tradizionale punto di aggregazione; secondo, evidenziare che l’esercizio pubblico è “attenzionato” dalle forze dell’ordine, al di là delle responsabilità dell’esercente

Tribunale di Pisa, sentenza n. 2980 del 28.01.2011

Il Tribunale di Pisa con la sentenza in esame ha precisato che va revocato il sequestro preventivo del veicolo, finalizzato alla confisca, per guida in grave stato di ebbrezza, comminato prima della legge 120/2010. Infatti, a seguito della riforma la confisca dell’auto è divenuta una sanzione amministrativa accessoria che viene disposta dal giudice con la sentenza di condanna e non ha più, quindi, le caratteristiche di una sanzione penale accessoria obbligatoria. Ragion per cui, in mancanza di una disciplina transitoria, e in assenza della possibilità di poter convertire il sequestro penale in quello amministrativo, “si impone la revoca della misura cautelare reale, attesa la sua strumentalità rispetto ad un provvedimento definitivo (la confisca quale sanzione penale accessoria) che non è più previsto dal codice della strada”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 4522 del 08.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che nell’accogliere la domanda per la concessione del beneficio della liberazione anticipata il giudice deve tenere conto del lavoro svolto in carcere. La Corte di cassazione ribalta il verdetto con il quale il tribunale di sorveglianza aveva negato la libertà anticipata a un detenuto, ritenendo insufficiente il solo elemento che quest’ultimo non avesse mai avuto richiami disciplinari. Secondo gli ermellini nella decisione finale del tribunale del riesame doveva pesare la considerazione del lavoro svolto in carcere dal ricorrente. Dall’attività lavorativa inframuraria – spiega il Collegio – è, infatti, possibile desumere l’inizio di un percorso partecipativo di risocializzazione che merita un riconoscimento.

Selezione e
raccolta da parte dello Studio Legale Parenti delle Massime Giurisprudenziali di maggior attualità tra le ultime pronunce dei giudici di legittimità e di merito nella categoria Diritto Penale.

Il clandestino non può essere espulso se al figlio minore ne deriva un danno

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il clandestino può rimanere in Italia per accudire il figlio piccolo se il rimpatrio del genitore può determinare gravi danni al minore. Per la Corte la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze eccezionali. E’ sufficiente, infatti, che si possa verificare per il minore un danno effettivo e concreto in considerazione dell’età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio che deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare. Si tratta di situazioni, ha precisato la Corte, di non lunga durata e che non possono assumere carattere di stabilità.

Corte di Cassazione, sentenza n. 2647 del 03.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preicsato che il clandestino può rimanere in Italia per accudire il figlio piccolo se il rimpatrio del genitore può determinare gravi danni al minore.
Per la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze eccezionali. E’ sufficiente, infatti, che si possa verificare per il minore un danno effettivo e concreto in considerazione dell’età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio che deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare. Si tratta di situazioni, ha precisato la Corte, di non lunga durata e che non possono assumere carattere di stabilità.

Corte di Cassazione, sentenza n. 3674 del 01.02.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il giornalista può riferire gli atti delle indagini ma non anticiparne le conclusioni in chiave “colpevolista”. La Corte di cassazione respinge così il ricorso del giornalista Peter Gomez che chiedeva l’assoluzione dal reato di diffamazione nei confronti del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Gomez aveva firmato un’inchiesta sui presunti finanziamenti della mafia al gruppo Fininvest, un pezzo in cui l’articolista riportava dichiarazioni di altri soggetti coinvolti nella vicenda e riferiva il contenuto di alcuni documenti, arrivando a una conclusione in grado di “orientare” il lettore. La causa per diffamazione e
ra approdata in Corte d’Appello, dove il reato era stato dichiarato estinto per prescrizione. Peter Gomez aveva invece chiesto agli ermellini un’assoluzione piena in virtù del riconoscimento del diritto di cronaca. Il collegio di piazza Cavour, nel respingere il ricorso, coglie anche l’occasione per definire i confini del legittimo esercizio della cronaca giudiziaria. I giudici ribadiscono il diritto dei cittadini a essere informati sulle vicende di chi è coinvolto in un procedimento penale o civile, soprattutto quando il protagonista riveste incarichi pubblici di particolare rilievo nella vita sociale o politica. Non solo, la Cassazione esclude anche, per personaggio “nell’occhio del ciclone”, il diritto alla tutela della reputazione, nel caso la lesione sia prodotta rispettando però determinati limiti. Via libera – secondo gli ermellini – anche ai giudizi critici purché questi siano “in correlazione” con l’andamento del procedimento. “Rientra – si legge nella sentenza – nell’esercizio di cronaca giudiziaria riferire atti di indagini e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi e valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tali attività”. Per il Supremo collegio è dunque in stridente contrasto con il diritto-dovere di narrare i fatti, l’opera del giornalista che confonda “cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire”. “In tal modo – precisa la Cassazione – egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito delle indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali né iniziate né concluse, senza essere in grado di dimostrare l’affidabilità di queste indagini private e la corrispondenza a verità storica del loro esito. Si propone ai cittadini un processo agarantista, dinanzi al quale il cittadino interessato ha, come unica garanzia di difesa, la querela per diffamazione”.
Peter Gomez – a parere del Collegio – ha integrato i dati della sua fonte con altri riscontri, assumendo un ruolo di “investigazione e valutazione” che compete esclusivamente all’autorità giudiziaria. Con l’inchiesta “incriminata” – spiegano i giudici di piazza Cavour – si tendeva in maniera inequivocabile a sostenere la veridicità delle tesi che riportate. A ciascuno il suo – conclude la Cassazione – agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici quello di verificarne la fondatezza. Al giornalista non resta che darne notizia, senza suggestionare la collettività.

Corte di Cassazione, sentenza n. 3315 del 31.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che possono essere utilizzabili le testimonianze rese nel corso del dibattimento se chi le ha rese perde successivamente la memoria a causa di un trauma. La Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto, spiega che il concetto di impossibilità della ripetizione non è ristretto alla non praticabilità materiale della reiterazione delle dichiarazioni, come avviene ad esempio, in caso di morte o di irreperibilità accertata, ma si estende a tutte le ipotesi in cui il testimone non sia più in grado di essere ascoltato. Come è accaduto nel caso esaminato in cui il dichiarante aveva perso la memoria a causa di una grave trauma cerebrale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 3014 del 27.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il visitatore o il cliente sgradito può essere cacciato da un luogo privato anche con la violenza. La Corte di cassazione sdogana “la pedata nel sedere” per chi, invitato più volte con le buone maniere a lasciare un’abitazione o uno studio, si rifiuta di varcare la soglia. Gli ermellini annullano così la condanna per esercizio arbitrario delle proprie ragioni inflitta a un professionista che aveva “buttato fuori” una signora provocandogli una lesione, causata dall’urto contro il montante della porta. Una reazione, considerata eccessiva sia dai giudici di primo grado sia di appello, che gli era costata una condanna in prima e seconda istanza per esercizio arbitrario delle proprie ragioni e lesioni. La Suprema corte non condivide però la “mano pesante” dei colleghi giudici mentre giustifica quella del ricorrente. Secondo il Collegio di piazza Cavour la cliente maltrattata aveva commesso il reato di violazione di domicilio e il professionista si era trovato costretto, per interrompere il crimine, a usare le maniere forti. La Cassazione specifica, infatti, che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni scatta quando si può ricorrere alla via giudiziale per affermare il proprio diritto, mentre, nel caso specifico, la strada del tribunale non poteva considerarsi una forma efficace di tutela. Lo studio professionale – afferma la Corte di ultima istanza – va comunque considerato un luogo non aperto indiscriminatamente al pubblico e il suo titolare ha tutto il diritto di escludere dall’ingresso dei suoi locali le persone che egli ritenga di non ammettere “per qualunque motivo non contrario alla legge”. Gli ermellini annullano dunque la condanna e invitano la Corte d’Appello a riesaminare il caso, tenendo presente che anche le lesioni provocate dal titolare dello “jus prohibendi” possono essere “scriminate” oppure considerate sotto il meno grave profilo dell’eccesso colposo

Corte di Cassazione, sentenza n. 2267 del 24.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se l’oggetto della violenza è la casa paterna e non, la persona di uno dei due genitori: scatta dunque la causa di non punibilità di cui all’articolo 649 Cp. È la stessa Corte ad applicare d’ufficio la causa di esclusione della condanna in virtù dell’articolo 129 C.p.p. L’imputato ammette la sua presenza all’esterno dell’abitazione dei genitori però nega che la sua condotta fosse tesa a danneggiare gli infissi dell’abitazione: i giudici del merito non gli credono e scatta il verdetto sfavorevole. Ma conta poco, perché l’articolo 649 Cp parla chiaro: chi ha commesso i fatti previsti puniti nel titolo del codice penale che riguarda i delitti contro il patrimonio, come appunto il danneggiamento, evita la condanna se la parte lesa è un congiunto, ad esempio un ascendente come il genitore (in certi casi, quando la parentela è meno stretta, la punibilità è prevista a querela della persona offesa)
L’unica condizione per la non punibilità è che sia mancato l’esercizio di violenza contro le persone; esattamente come nel caso di specie: a papà e mamma non resta che far riparare le finestre.

Corte di Cassazione, sentenza n. 1838 del 24.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi prende di mira una ragazza e comincia a chiamarla sul cellulare rivolgendole frasi a sfondo erotico non si salva dalla sanzione penale. E ciò pure se le telefonate furono in sostanza poche e pure concentrate nel tempo. Ciò che conta ai fini del reato di cui all’articolo 660 Cp è infatti il dolo generico dell’agente, inteso come volontà e consapevolezza di arrecare disturbo alla parte offesa. Lo precisa la sentenza n. 1838/11 della prima sezione penale della Cassazione.
Possono ben integrare la contravvenzione di molestia alle persone le chiamate effettuate con petulanza sul telefonino della ragazza: il biasimevole motivo richiesto dalla norma incriminatrice è costituito dal contenuto particolarmente odioso delle frasi oscene rivolte alla giovane destinataria. Non giova al molestatore evidenziare la circostanza che la ragazza abbia ricevuto le attenzioni morbose di altri disturbatori telefonici, la quali non lo esimono dal reato commesso (pena sospesa grazie alle attenuanti generiche). Inchiodato dai tabulati telefonici, il persecutore non riesce a dimostrare di aver davvero dimenticato il cellulare al bar, come ha dichiarato per smentire di essere l’autore delle molestie. E soprattutto non coglie nel segno deducendo di essere del tutto sconosciuto alla parte offesa: è fac
ile, specie in contesti lavorativi, procurarsi il numero del telefonino di qualcuno. Gli eventuali motivi personali non rilevano: risulta invece importante l’elemento psicologico del reato, che nella specie sussiste.

Corte di Cassazione, sentenza n. 2302 del 24.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se l’incidente stradale è causato da una condotta colposa, il reato scatta anche se la vittima ha una malattia terminale. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, sottolinea l’irrilevanza delle condizioni disperate di salute di una giovane affetta da un’epatite fulminante che l’avrebbe comunque portata alla morte, probabilemnte poche ore dopo l’incidente che le è stato fatale. La ragazza era morta, infatti, in seguito alle complicazioni di un intervento che si era reso necessario dopo la sua caduta dal motorino dovuta alla condotta colposa del ricorrente. La Corte precisa che il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento può escludersi solo quando si verifica una causa autonoma e successiva “che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile”, circostanze che, nel caso esaminato dagli ermellini, non si sono verificate. I giudici della Cassazione, perizie alla mano, affermano che non è possibile ritenere che la morte si sarebbe comunque verificata, nei tempi accertati, in assenza della caduta.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n.1235 del 19.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’esistenza di un rapporto di specilità tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato esclude la possibilità di applicare la sanzione più severe derivante dal concorso tra i due reati. Una mano pesante che scatta invece nel caso dalla frode derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, come nel caso di un ottenumento di finaziamenti pubblici. questa la conclusione raggiunta dalle Sezioni unite con la sentenza 1235, con la quale gli ermellini hanno fatto chiarezza, rispetto al precedente contrasto, scegliendo un orientamento.

Corte di Cassazione, sentenza n. 821 del 17.01.2011

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la durata della carcerazione cautelare può essere prolungata se la decisione sulla consegna della persona oggetto di mandato di arresto europeo ha bisogno di essere integrata. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto si esprime sul nuovo regime in tema di Mae. La disciplina, introducendo un’innovazione rispetto alle norme sull’estradizione, prevede che la procedura debba concudersi entro 60 giorni, un temine – dettato per velocizzare le operazioni che rientrano nell’ambito della cooperazione giudiziaria – che può però essere prolungato di altri 30 giorni, nel caso le autorità giudiziarie abbiano bisogno di un’ulteriore documentazione per raggiungere una decisione. Nel dare esecuzione allo strumento europeo il legislatore ha fatto coincidere con i 60 giorni anche ala scadenza delle misure cautelari adottate in vista dell’estradizione. Un dead-line che può però slittare, automaticamente, di ulteriori 30 giorni nel caso sia necessario raccogliere altra documentazione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 44813 del 21.12.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che il giudice che ha adottato una misura cautelare in base a una serie di intercettazioni i cui atti non sono stati trasmessi alla difesa deve provare che la sua decisione prescinde dall’utilizzo dei nastri non consegnati. La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, torna sulle conseguenze della violazione del diritto di difesa che si configura in assenza dell’invio dei brogliacci e dei nastri magnetici delle intercettazioni al legale che rappresenta la persona oggetto dei provvedimenti cautelari. Gli ermellini forniscono un’interpratazione sulla base della strada segnata dalla Corte costituzionale e dalle sezioni unite, ribadendo, in linea con la Consulta, che l’effetto della mancata trasmissione delle intercettazioni, non determina ipso facto una inefficacia della misura cautelare ma un annullamento con rinvio della decisione. Il nuovo esame del tribunale serve, infatti, a dimostrare che la misura cautelare è stata adottata a prescindere dalle intercettazioni non comunicate alla difesa, perché quest’ultime non avevano alcuna rilevanza per il caso esaminato.

Corte di Cassazione, sentenza n. 44644 del 20.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il presidente del tribunale non può essere equiparato al datore di lavoro del personale amministrativo. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, respinge il ricorso di un impiegato del Tribunale di Rovigo che, accusato di peculato, aveva presentato un’istanza di ricusazione del presidente del tribunale che doveva giudicarlo, perché a suo avviso il magistrato rivestiva anche il ruolo di suo datore di lavoro. Secondo il ricorrente il giudice, essendo vacante il posto di dirigente amministrativo, doveva essere considerato anche il datore di lavoro ed era quindi, come tale, portatore di un “interesse legato all’esito del giudizio penale”. Un’interpratazione con cui non è d’accordo il Supremo collegio che bolla come una forzatura l’assimilazione tra le due figure. Gli ermellini spiegano, infatti, che tra il magistrato e l’amministrativo esiste un “rapporto regolamentato in via pubblicistica e svolto in maniera impersonale e obiettiva, oltre che mediato da altre figure professionali”. L’assenza del dirigente amministrativo, pur comportando un “dirottamento” di alcune funzioni sul capo dell’ufficio giudiziario, non incide in alcun modo sulla titolarità di quest’ultimo del potere disciplinare nei casi più gravi. I giudici di piazza Cavour escludono dunque che il presidente potesse avere nel procedimento l’interesse lamentato dal ricorrente. Interesse che si configura soltanto quando il giudice ha la possibilità di rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l’attività giurisdizionale che è chiamato a svolgere.

Corte di Cassazione, sentenza n. 44379 del 16.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che spetta l’indennizzo alla banca per il danno patrimoniale che deriva dall’apertura di un conto corrente senza garanzie. La Corte di cassazione conferma la condanna per truffa per il ricorrente che aveva aperto un conto corrente presso un istituto di credito fornendo generalità false, ottenendo così degli ingiusti profitti. Il danno alla banca – spiega il collegio – è conseguente alla possibilità che era derivata al correntista di avere ingiusti profitti. La disponibilità del conto crea, infatti, l’opportunità di emettere assegni oltre che di usufruire di tutti gli altri servizi bancari connessi all’esistenza del rapporto. Vantaggi che si traducono in uno svantaggio per l’istituto che si trova ad aver aperto un rapporto con un soggetto che è in grado di offrire la minima garanzia di affidabilità.

Corte di Cassazione, sentenza n. 43660 del 09.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il sequestro conservativo applicato su richiesta del creditore può basarsi esclusivamente sull’inadeguatezza del patrimonio del debitore rispetto al credito fatto valere. Non serve richiamare a circostanze riferibili alla condotta processuale o extraprocessuale dell’imputato. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso della Regione Abruzzo e di alcune aziende sanitarie locali contro un loro debitore, verso cui vantavano un credito di oltre 5 milioni di euro. Gli enti impugnavano l’annullamento del sequestro conservativo dei beni del debitore deciso dal Tribunale del Riesame di Pescara. I giudici di merito avevano annullato la misura, sostenendo che non potesse fondarsi esclusivamente sull’inadeguatezza del patrimonio o delle fonti reddituali del debitore, essendo invece necessaria “la s
ussistenza di concrete circostanze di fatto riferibili alla condotta processuale o extraprocessuale dell’imputato, dalle quali sia possibile desumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’eventualità di un possibile depauperamento del suo patrimonio o la sua intenzione di sottrarsi all’adempimento del credito”. Tesi questa smentita dalla sesta sezione penale, che ha invece stabilito che “ai fini dell’adozione del sequestro conservativo, il periculum in mora può essere integrato anche solo dalla condizione di inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto all’entità delle pretese creditorie, indipendentemente da un depauperamento allo stesso ascrivibile”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 43428 del 07.12.2010

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza in esame ha precisato che l’assenza di un rapporto organico con la società esclude la punibilità per bancarotta del liquidatore di beni in fase di concordato preventivo. Le sezioni unite della Corte di cassazione prendono le distanze dall’orientamento che affermava una sorta di assimilabilità tra la figura del liquidatore di beni e quella del liquidatore di società in fase di copncordato preventivo. Gli errmellini motivano la decisione affermando la differenza tra i due. Il liquidatore delle società è, infatti, nominato dall’assemblea e resta un vero e proprio organo sociale a cui sono assegnati compiti e funzioni coerenti rispetto al rapporto societario. Rientrano nei suoi compiti, la convocazione dell’assemblea e la redazione dei bilanci in corso di liquidazione e il bilancio finale. E’ inoltre responsabile del suo operato secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori. Diverso il ruolo del liquidatore di beni che – sottolinea il collegio – si viene a trovare in una posizione terza rispetto al debitore “che esclude il determinarsi di un suo rapporto organico con la società e circoscrive la sua sostituzione agli organi di quest’ultima nei limiti funzionali all’esecuzione del mandato (realizzazione del valore dei beni ceduti – costituenti ormai una sorta di patrimonio separato -con riparto del ricavato)”. Ed è proprio la mancanza del tratto tipico, rappresentato dal rapporto organico con la società, che esclude la punibilità del liquidatore di beni nel concordato preventivo.

Corte di Cassazione, sentenza n.43251 del 06.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che rischia la condanna per favoreggiamento della prostituzione chi pubblica sul suo sito web foto di donne che si offrono per prestazioni sessuali. La Corte di Cassazione respinge il ricorso con il quale il “favoreggiatore virtuale” chiedeva agli ermellini di annullare la decisione del Tribunale del riesame che aveva confermato le misure cautelari nei suoi confronti. Secondo la difesa il ricorrente si era limitato a mettere sul suo sito Internet annunci che pubblicizzavano il tipo di attività svolta da un gruppo di ragazze ungheresi, senza però mettere in atto alcuna condotta per favorire il loro lavoro. Una forma di “marketing” con cui la Cassazione non si trova d’accordo. Il Supremo collegio specifica, infatti, che il ricorrente aveva un contatto diretto con le lucciole grazie al suo rapporto con l’esponente di un’organizzazione criminale che introduceva nel territorio le donne ungheresi e le avviava alla prostituzione. In più, gli spot messi on line erano piuttosto dettagliati perché, oltre a fornire il numero di telefono della “professionista”, erano corredati da foto scattate in pose provocanti. Pur in mancanza dunque di un collegamento organico e diretto con l’organizzazione dedita allo sfruttamento e all’induzione della prostituzione, non c’è dubbio – secondo i giudici di piazza Cavour – che la “sponsorizzazione” delle donne, fatta dal ricorrente, fosse “contigua e funzionale all’attività illecita”. Certamente un “aiutino” che agevolava il racket

Corte di Cassazione, sentenza n. 42913 del 02.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’avvocato che non compare alle udienze e non cita i testimoni a sostegno della tesi del suo assistito risponde di patrocinio infedele, e non può difendersi dichiarando che si tratterebbe di una presunta “strategia difensiva”. La sesta sezione penale ha respinto il ricorso di un avvocato abruzzese contro la sentenza con cui la Corte d’Appello de l’Aquila lo condannava per patrocinio infedele. Il legale, in qualità di difensore in una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, non aveva adempiuto ai suoi doveri professionali, omettendo di citare i testi a sostegno della tesi del suo assistito e astenendosi da ogni attività professionale, danneggiando così il suo cliente. L’avvocato aveva tentato di difendersi sostenendo che la sua non era un’omissione, ma una vera e propria strategia difensiva, una scelta processuale per cui non poteva essere punito penalmente. La Cassazione ha respinto la sua tesi ricordando che “Il delitto di cui all’art.380/l cp. (patrocinio infedele) è un reato che richiede per il suo perfezionamento, in primo luogo, una condotta del patrocinatore irrispettosa dei doveri professionali, stabiliti per fini di giustizia a tutela della parte assistita ed, in secondo luogo, un evento che implichi un nocumento agli interessi di quest’ultimo, inteso non necessariamente in senso civilistico di danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento dei beni giuridici o dei benefici di ordine anche solo morale, che alla stessa parte sarebbero potuti derivare dal corretto e leale esercizio del patrocinio legale, non assumendo rilievo sul piano soggettivo la volontà specifica di nuocere alla parte.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 42506 del 02.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento non deve essere comunicato al legale di fiducia. Basta l’avviso orale al difensore d’ufficio Il difensore di fiducia non ha diritto ad essere avvisato della nuova udienza, dopo il rinvio per legittimo impedimento, se è già stato avvisato oralmente il difensore d’ufficio. La terza sezione penale ha infatti respinto la tesi di un avvocato di Salerno. Il legale si lamentava che il Tribunale, dopo aver disposto il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento, non l’aveva avvisato della data della nuova udienza, ma si era limitato a comunicarlo oralmente al difensore d’ufficio. La Cassazione ha confermato la legittimità della condotta dei giudici di merito, ribadendo che “difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento a comparire ha diritto all’avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data già nell’ordinanza di rinvio, posto che, nel caso contrario, l’avviso è validamente recepito, nella forma orale, dal difensore previamente designato in sostituzione ai sensi dell’art.97 comma quarto cod.proc.pen., il quale esercita i diritti ed assume i doveri dei difensore sostituito e nessuna comunicazione è dovuta a quest’ultimo”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 42205 del 29.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha condannato oggi per omicidio colposo un automobilista che, per aver lasciato la macchina in doppia fila con lo sportello semi aperto, aveva provocato la morte di un giovane motociclista. Il giorno prima gli ermellini avevano bollato come violenza privata il parcheggio fatto in modo da impedire a un’altra vettura la possibilità di uscire dal garage. Due comportamenti , tanto scorretti quanto frequenti, che possono avere delle gravi conseguenze. Con la sentenza 42498 il collegio di piazza Cavour ha respinto la tesi della difesa che tendeva a dimostrare come nella morte del motociclista abbiano influito più la sua guida imprudente che la macchina in doppia fila con la portiera parzialmente aperta. Secondo il ricorrente il ragazzo in motorino procedeva a zig zag e ad alta velocità. Due comportamenti – fa notare la Suprema Corte – tutt’altro che infrequenti e i
mprevedibili e quindi non in grado di far escludere il nesso causa-effetto. Con la sentenza 42205 depositata il 30 novembre, la V sezione della Cassazione ha invece condannato per violenza il proprietario di una macchina che intralciava l’uscita di un garage privato. Dalla “manovra” scorretta era nata una lite con minacce a mano armata. Nel mezzo della zuffa, che aveva coinvolto tre persone, era, infatti, spuntata una falce, costata a chi la impugnava la condanna per lesioni aggravate dall’uso dell’arma e dai futili motivi.

Corte di Cassazione, sentenza n. 42465 del 01.12.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il lavoratore autonomo non è l’unico responsabile della sua sicurezza Il proprietario che commissiona dei lavori edili nella sua abitazione risponde di omicidio colposo in caso di infortunio mortale dell’operaio. L’obbligo di far rispettare le norme sulla sicurezza ricade su di lui anche se si tratta di un lavoratore autonomo. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso di un uomo condannato per omicidio colposo per la morte di un operaio durante alcuni lavori edili nella sua casa, svolti in assenza di qualsiasi cautela. Il lavoratore era caduto da un’impalcatura priva di parapetti. Il giudice di legittimità ha confermato la condanna, ricordando che “in tema di sicurezza sul lavoro, riveste una posizione di garanzia il proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo di non verificata professionalità e in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta a fronte di lavorazioni in quota superiore ai metri due. Infatti, in caso di prestazione autonoma il lavoratore autonomo non è l’unico responsabile della sua sicurezza, con la conseguenza che, in caso di decesso in seguito ad infortunio, risponde di omicidio colposo il committente di lavori da svolgersi nella sua abitazione che consente al lavoratore di svolgere detti lavori in assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare rischi.

Corte di Cassazione, sentenza n. 41709 del 25.11.2010 novembre 2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il dipendente pubblico che usa il cellulare di lavoro per mandare sms o fare chiamate private e naviga su internet dal pc dell’ufficio per ragioni personali non risponde di peculato, se il danno provocato all’amministrazione è di scarsa entità. Lo ha affermato la Suprema Corte respingendo il ricorso della procura di Torino contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gip nei confronti di un dipendente comunale accusato di peculato e abuso d’ufficio. L’uomo aveva usato il telefono cellulare dell’ufficio per chiamare i suoi amici e familiari, per un totale di 25 ore a un costo di 75 euro. Il dipendente inoltre aveva usato il computer dell’ufficio navigando su internet per ragioni personali. Il danno all’amministrazione era ridottissimo nel caso del telefono, e nullo per quel che riguardava la navigazione su internet, dal momento che il comune pagava un canone fisso mensile di abbonamento per la connessione. La Cassazione ha quindi confermato il proscioglimento da ogni accusa, ricordando che “non integra il reato di peculato l’utilizzo da parte del pubblico ufficiale dei telefoni di cui ha la disponibilità per ragioni di ufficio per comunicazioni di carattere privato o l’uso del pc collegato alla rete internet per ragioni personali qualora i danni al patrimonio della pubblica amministrazione siano di scarsa entità o nulli, finendo per essere irrilevanti, rilevandosi le condotte inoffensive del bene giuridico tutelato.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 32368 del 27.08.2010

Commette reato chi, durante la prova scritta di un concorso, riporta nel proprio elaborato il testo di una sentenza, anche se lo fa citando la fonte. Lo ha stabilito la Cassazione con la pronuncia in oggetto. Contro la decisione della Corte d’Appello di Lecce, con la quale era stata condannata alla pena condizionalmente sospesa di dieci mesi di reclusione, per aver presentato come proprio un elaborato in realtà interamente trascritto da una sentenza del Tar, la candidata ad un concorso per Dirigente del servizio contenzioso e ufficio di conciliazione della Provincia di Taranto, aveva presentato ricorso in cassazione. La stessa affermava che il testo della sentenza, che due giorni prima dell’esame le era stato inviato tramite fax da uno dei commissari, anch’egli poi condannato, non era stato poi copiato durante la stesura della prova, che era invece il risultato di un suo sforzo mnemonico. La Suprema Corte, nel respingere il ricorso ha invece affermato che : “commette reato il candidato di un concorso che nella prova scritta riproduce parti di sentenze, anche se lo fa citando la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di una autonoma elaborazione logica, ma il chiaro risultato di una materiale riproduzione operata mediante la utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32369 del 27.08.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che lo stato che chiede l’estradizione deve provare l’identità della persona da consegnare attraverso la prova del Dna o delle imponte digitali, nel caso in cui il diretto interessato neghi di essere il soggetto da espellere. La Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino ucraino che, lamentando un intento persecutorio nei suoi confronti, affermava di non essere la persona i cui tratti e le cui generalità risultavano nella fotocopia del documento inviato dalla polizia del suo paese. Di fronte a tale contestazione – spiega la Suprema corte – la documentazione trasmessa avrebbe dovuto essere avvalorata da “metodologie scientifiche di sicura affidabilità come impronte digitali o Dna. Secondo gli ermellini non può considerasi una prova sufficinete la corrispondenza dei tratti somatici che risultava dalle fotocopie, anche di cattiva qualità del documento trasmesse dall’autorità richiedente.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27704 del 2.7.2010

Costituisce reato anche la sola detenzione di prodotti con il marchio contraffatto presso i propri magazzini. E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la pronuncia in esame. I giudici di Piazza Cavour hanno emesso la sentenza in seguito al ricorso del proprietario di un magazzino, il quale, in seguito al sequestro dei beni contraffatti depositati nel suo magazzino, aveva rilevato in sede di legittimità che i beni non erano destinati al pubblico. Pertanto, rigettando il ricorso, la Corte di cassazione ha spiegato che anche il semplice deposito dei beni nel magazzino e quindi non la loro immissione nel commercio rappresenta un atto idoneo, diretto in modo non equivoco alla frode in commercio, poichè prodromico alla immissione nel circolo distributivo di un prodotto che presenta caratteristiche diverse da quelle indicate e normativamente previste. In particolare, tale reato si andrebbe a configurare come tentativo di frode in commercio, consistente nel detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso di prodotti privi di marcatura “CE” o con marcatura “CE” contraffatta.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32273 del 24.08.2010

Pugno di ferro della Cassazione sulla confisca obbligatoria dei proventi della criminalità organizzata. La misura può essere disposta anche in caso di prescrizione del reato, purchè il giudice accerti a monte la responsabilità penale dell’imputato. Il dietrofront rispetto alla decisione delle Sezioni unite depositata soltanto due anni fa (n. 8834/08), arriva dalla seconda sezione penale della Cassazione che, con la sentenza n. 32273, ha riaperto la possibilità di applicare la confisca obbligatoria anche se il reato si è prescritto. I giudici hanno però fissato un importante paletto: è il Tribunale a dover accertare, prima di disporre il sequestro, che la responsabilità penale dell’imputato
sia effettiva. In particolare in fondo alle lunghe motivazioni i consiglieri della Suprema Corte hanno affermato il principio secondo cui “in caso di estinzione del reato, il giudice dispone di poteri di accertamento, al fine dell’applicazione della confisca, non solo sulle cose oggettivamente criminose per loro intrinseca natura, ma anche quelle che sono considerate tali dal legislatore per il loro collegamento con uno specifico fatto reato”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27587 del 30.07.2010

Chiedere rapporti ‘particolari’ alla propria consorte mette a rischio di una condanna penale per stupro. L’avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione secondo cui si tratta di violenza sessuale anche se lei, inizialmente, ha accettato quel tipo di rapporti. E’ quanto emerge da una sentenza (n.27587/2010) con cui la Suprema Corte ha confermato una condanna per violenza sessuale inflitta ad un 48enne che costringeva la sua compagna ad avere rapporti anali. Nella ricostruzione del fatto la Corte evidenzia che lei, inizialmente, aveva accettato di avere rapporti ‘non convenzionali’ con il partner ma poi, aveva iniziato a negarli. Il marito a quel punto l’aveva costretta a subirli ancora ricorrendo anche a minacce. Anche la Corte di Appello di Salerno aveva emesso una sentenza di condanna che ora Piazza Cavour ha confermato. In Cassazione l’uomo si è difeso deducendo che quei rapporti erano stati sempre accettati da lei anche prima del matrimonio. Respingendo il ricorso la Suprema Corte ha fatto notare il semplice fatto ch lei abbia inizialmente detto si non vale a giustificare la condotta prevaricatrice quando è sopraggiunto il dissenso della moglie. Tale dissenzo implicitamente da lui confermato quando ha dichiarato che la stessa aveva abbandonato il letto coniugale andando a dormire in un’altra stanza sul divano o a terra, avvolgendosi in una coperta”. Tanto basta, secondo Piazza Cavour, per ritenere che sussistano “specifici e concreti elementi comprovanti la sua responsabilita’”.

Corte di Cassazione, sentenza n.31684 del 11.08.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che viola il codice penale chi rifiuta di dare le sue generalità ai carabinieri anche se questi sono in borghese e a bordo di un’auto civetta. La sanzione non si evita neppure se subito dopo si corre in caserma a fornire i propri dati. La Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto ha confermato la condanna di un giovane che non aveva voluto dare indicazioni sulla sua identità personale a due carabinieri che si erano presentati in abiti civili e con una macchina priva dei segni distintivi dell’Arma. I carabinieri erano intervenuti perché avevano ricevuto una telefonata anonima che segnalava un’auto bloccata nel fango. Non è andata però a buon fine l’intenzione del solerte cittadino di dare una mano all’automobilista in panne. L’uomo, uscito dal terreno melmoso grazie all’aiuto gratuito offerto dal conducente di un trattore, è stato condannato a pagare 130 euro di ammenda per essersi rifiutato di mostrare i documenti ai carabinieri. Il ricorrente alla richiesta di farsi identificare era ripartito in tutta fretta dichiarando “io non do niente”. Un comportamento inammissibile – per il supremo collegio – che ritiene non convincente la tesi difensiva, secondo cui l’automobilista aveva dei dubbi sulla reale identità dei militari e si era detto disponibile a consegnare personalmente i suoi documenti in caserma come in realtà era avvenuto. Secondo gli ermellini “non è necessaria la conoscenza della qualifica di pubblico ufficiale del richiedente, ma basta la semplice rappresentabilità da parte di chi rifiuta di obbedire all’ordine, della sussistenza, nel richiedente, della predetta qualifica”. Come dire nel dubbio “pro arma”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27550 del 16.07.2010

Non è soggetta a confisca per equivalente la cessione di un credito pro-solvendo. Lo ha stabilito la Suprema Corte, respingendo un ricorso della Procura di Palermo. I giudici della sesta sezione penale hanno precisato che è illegittimo il sequestro per equivalente disposto nei confronti di una cessione pro-solvendo di crediti, essendo individuabile il profitto del reato soltanto in un effettivo arricchimento patrimoniale acquisito e non nella semplice esistenza di un credito, per così dire, “virtuale”, in quanto non riscosso, e meno che mai nella cessione pro solvendo dello stesso credito, non ancora liquido ed esigibile, a garanzia di una linea di affidamento accordata alla cedente dalla banca e che, pur concretandosi in una temporanea anticipazione di liquidità comporta comunque contestualmente l’assunzione di un debito di corrispondente importo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 25138 del 2.7.2010

La moglie ha un carattere forte e non si lascia intimorire da minacce e percosse. Non sussiste il reato di maltrattamenti contestato al marito violento. Lo si evince da una sentenza con cui la Cassazione ha annullato senza rinvio “perché il fatto non sussiste” la condanna a 8 mesi di reclusione (condizionalmente sospesa) inflitta ad un uomo dalla Corte d’appello di Milano per maltrattamenti in famiglia. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso con cui l’imputato rilevava che gli stessi giudici del merito avessero sottolineato il “carattere forte” della moglie, per nulla “intimorita” dalla sua condotta. L’uomo, quindi, lamentava il fatto che la Corte d’appello avesse scambiato per “sopraffazione” un mero “clima di tensione tra coniugi”. Gli ermellini, ricordando che “perché sussista il reato di maltrattamenti in famiglia occorre che sia accertata una condotta (consistente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa che, a causa di ciò diversa in una condizione di sofferenza”, hanno annullato la condanna dell’imputato osservando che “i fatti incriminati sono solo genericamente richiamati nella sentenza impugnata” e “appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di circa 3 anni”, che “non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione richiesta per l’integrazione della fattispecie in esame”; tanto più, si legge nella sentenza, “la condizione psicologica” della donna “per nulla intimorita dal comportamento del marito, era solo quella di una persona scossa, esasperata, molto carica emotivamente”. Dunque, conclude la Cassazione, “non risulta offerta dai giudici di merito alcuna indicazione che deponga per la sussistenza, in capo all’imputato, di una volontà sopraffattrice idonea” per integrare il reato contestato.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 17576 del 27.07.2010

La Corte di Cassazione con la pronuncia in esame, ha stabilito che allo straniero può essere concessa la protezione internazionale, se nel paese di origine ha subito solo una condanna penale per le sue opinioni politiche. La Corte ha affermato che la persecuzione politica sussiste anche quando vengono legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo a carico di chi ha espresso mere opinioni politiche e, inoltre, spetta alle autorità italiane l’accertamenti delle persecuzioni poste in essere contro lo straniero che richiede la protezione internazionale

Corte di Cassazione, sentenza n. 26063 dell’8.8.2010

La causa di estinzione del reato prevale sull’assoluzione (per carenza di prove): è questo il principio enunciato dalla Cassazione. I giudici hanno infatti stabilito che una eventuale causa di estinzione del reato farebbe venire meno la possibilità per l’imputato di essere prosciolto nel merito. In particolare, dopo un riassunto dell’orientamento giurisprudenziale sulla questione, è stato precisato che la regola probatoria di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p., – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilit
à appare dettata esclusivamente per il normale esito del processo che sfocia in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale, a seguito di una approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito agli atti. Tale regola non può provare applicazione in presenza di una causa estintiva del reato: in una situazione del genere – a meno che il giudice non sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito vale invece la regola di giudizio di cui all’art. 129 c.p.p. in base allo quale, intervenuta una causa estintiva del reato, può essere pronunciata sentenza di proscioglimento nel merito solo qualora emerga. dagli atti processuali positivamente, senza necessità di ulteriore approfondimento, l’estraneità dell’imputato a quanto contestatogli

Corte di Cassazione, sentenza n. 27376 del 14.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non ha diritto alla riparazione per ingiusta detenzione chi viene arrestato e poi rilasciato per detenzione di stupefacenti a uso personale. Infatti, pur non essendo un reato, l’ordinamento attribuisce a questa condotta “una connotazione negativa”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 17571 del 27.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere revocato il permesso di soggiorno per il cittadino extracomunitario sposato con una donna italiana, se malgrado l’assenza di una separazione legale, ci sono chiari sintomi della fine del matrimonio. Con tale principio la Corte, ha respinto il ricorso presentato da un cittadino serbo contro il provvedimento con il quale il Questore di Udine ne aveva revocato il permesso di soggiorno per motivi familiari. La revoca era stata proposta poiché sopravvenuta la cessazione dell’affectio coniugale, l’uomo aveva iniziato una nuova convivenza con un’altra donna che le aveva anche dato un figlio. La Corte ha perciò confermato la revoca dell’atto sulla base del principio di diritto secondo cui “la sopravvenuta cessazione della convivenza coniugale non determinata da separazione legale e di contro accompagnata da elementi sintomatici della inesistenza iniziale della affectio propria del coniugio, integra ragione di revoca del permesso di soggiorno

Corte di Cassazione, sentenza n. 18043 del 04.08.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è valido il procedimento di impugnazione del rifiuto di protezione internazionale anche in assenza dello straniero richiedente. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso di uno straniero che chiedeva asilo politico ma che non si era presentato all’udienza di trattazione. I particolare secondo la sesta sezione civile, anche nei procedimenti di impugnazione del diniego di protezione internazionale svoltisi innanzi al Tribunale ed alla Corte di Appello deve applicarsi il principio secondo cui “in difetto di comparizione della parte interessata all’udienza di trattazione, la Corte del reclamo, verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve comunque decidere nel merito il reclamo restando esclusa alcuna pronunzia di improcedibilità per disinteresse alla definizione o alcuna decisione di rinvio della trattazione”.

Corte di Cassazione,sentenza n.30463 del 30.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la restituzione dei regali al fidanzato è un gesto di bon ton, ma se lui la pretende con la minaccia rischia la condanna per estorsione. Per questo reato è stato, infatti, condannato dalla Cassazione un ragazzo di Salerno che, non rassegnandosi alla rottura del suo rapporto sentimentale aveva perseguitato in ogni modo la sua ex, passando dal sequestro temporaneo in auto al ferimento. Tra la vasta gamma di reati messi in atto per “riconquistarla” c’è anche la tentata estorsione. Il ricorrente aveva minacciato sia la ragazza sia i suoi genitori per farsi restituire i regali fatti nel corso del loro rapporto o, in subordine si sarebbe accontentato di un corrispettivo in denaro. Ma non basta. Pur nella disperazione, l’uomo aveva fatto un rapido calcolo delle spese affrontate durante la sua storia d’amore pretendendo la restituzione anche di quelle. Una sorta di Tfr che la Cassazione bolla come tentata estorsione. Gli ermellini spiegano che se il diritto accampato fosse stato reale e quindi anche “azionabile” in tribunale il reato contestato sarebbe stato quello, meno grave, dell’esercizio arbitrario della proprie ragioni con violenza sulle persone, mentre nel caso della costrizione messa in atto per raggiungere un ingiusto vantaggio che non potrebbe mai essere riconosciuto da un giudice si commette un’estorsione. Questo il crimine – conclude il collegio per il fidanzato “che dopo la rottura sentimentale con la propria ragazza, faccia ricorso a condotte violente ed intimidatorie per far valere nei confronti della stessa e dei suoi familiari la richiesta – non assistita da alcuna forma di tutela giuridica nel nostro ordinamento – di restituzione di oggetti e somme di denaro elargiti per mero spirito di liberalità come manifestazione del proprio affetto”. Gli ex sono dunque avvertiti: un diamante è per sempre.

Corte di Cassazione, sentenza n. 30463 del 30.07.10

La restituzione dei regali al fidanzato è un gesto di bon ton, ma se lui la pretende con la minaccia rischia la condanna per estorsione. Per questo reato è stato, infatti, condannato dalla Cassazione un ragazzo di Salerno che, non rassegnandosi alla rottura del suo rapporto sentimentale aveva perseguitato in ogni modo la sua ex, passando dal sequestro temporaneo in auto al ferimento. Tra la vasta gamma di reati messi in atto per “riconquistarla” c’è anche la tentata estorsione. Il ricorrente aveva minacciato sia la ragazza sia i suoi genitori per farsi restituire i regali fatti nel corso del loro rapporto o, in subordine si sarebbe accontentato di un corrispettivo in denaro. Ma non basta. Pur nella disperazione, l’uomo aveva fatto un rapido calcolo delle spese affrontate durante la sua storia d’amore pretendendo la restituzione anche di quelle. Una sorta di Tfr che la Cassazione bolla come tentata estorsione. Gli ermellini spiegano che se il diritto accampato fosse stato reale e quindi anche “azionabile” in tribunale il reato contestato sarebbe stato quello, meno grave, dell’esercizio arbitrario della proprie ragioni con violenza sulle persone, mentre nel caso della costrizione messa in atto per raggiungere un ingiusto vantaggio che non potrebbe mai essere riconosciuto da un giudice si commette un’estorsione. Questo il crimine – conclude il collegio di Piazza Cavour – per il fidanzato “che dopo la rottura sentimentale con la propria ragazza, faccia ricorso a condotte violente ed intimidatorie per far valere nei confronti della stessa e dei suoi familiari la richiesta – non assistita da alcuna forma di tutela giuridica nel nostro ordinamento – di restituzione di oggetti e somme di denaro elargiti per mero spirito di liberalità come manifestazione del proprio affetto”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29936 del 29.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la mancata acquisizione della perizia psichiatrica dell’imputato, secondo le norme stabilite per l’istruzione dibattimentale, rende nulla la sentenza di condanna. La corte d’assise di Palermo aveva disposto la perizia psichiatrica per un uomo, dichiarato poi colpevole e condannato all’ergastolo, imputato in un processo per omicidio volontario duplice. Il giudice aveva però aquisito la relazione del perito senza fissare l’udienza per l’esame orale, violando perciò disposto dell’art. 501 c.p.. Contro tale decisione, il difensore dell’imputato aveva perciò oposto ricorso in cassazione lamentando la nullità del procedimento. Il giudice di legittimità annullando la sentenza di condanna e rinviando gli atti alla stessa Corte d’assise d’appello, ha affermato che, “L’art. 467 c.p.c. atribuisce al giudice il potere di disporre
, nella fase degli atti preliminari al dibattimento, l’assunzione di prove indiferibili, tra le quali può comprendersi la perizia destinata ad accertare la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processso, e aggiunge che l’assunzione avviene osservando le forme previste per il dibattimento. Ne consegue che le prove assunte dal giudice nella fase di giudizio, pur se prima dell’apertura del dibattimento, devono rispettare le regole stabilite per l’istruzione dibattimentale. Quindi la capacità dell’imputato di stare in processo deve essere accertata mediante perizia assunta osservando le forme previste per il dibattimento, anche nell’ipotesi in cui l’accertamento avvenga prima dell’apertura del dibattimento”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27376 del 14.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non ha diritto alla riparazione per ingiusta detenzione chi viene arrestato e poi rilasciato per detenzione di stupefacenti a uso personale. Infatti, pur non essendo un reato, l’ordinamento attribuisce a questa condotta “una connotazione negativa”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 27167 del 14.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’indebito utilizzo della carta di credito è reato consumato e non solo tentato anche nel caso in cui la transazione non sia andata a buon fine. Lo ha stabilito la Suprema Corte che, con la sentenza in oggetto, ha confermato la condanna a otto mesi di reclusione e 400 euro di multa nei confronti di un uomo e una donna che avevano tentato di pagare con la carta di credito di un conoscente (anche se non ci erano riusciti perché il negoziante, dopo averli riconosciuti, aveva finto un errore nel pos). Contro la doppia condanna di merito la difesa aveva fatto ricorso in Cassazione chiedendo una riduzione della pena, dal momento che, aveva sostenuto, i suoi assistiti non avevano ottenuto alcun vantaggio dall’operazione illecita. La tesi non ha convinto “Piazza Cavour”. Infatti, confermando il verdetto, la seconda sezione penale ha ribadito che “l’indebita utilizzazione, a fini di profitto, della carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il reato di cui all’art. 12 della legge n. 143 del 1991, indipendentemente dal conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29375 del 27.06.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il mancato rispetto di un provvedimento di respingimento fa scattare il reato come nel caso dell’espulsione. Con tale principio la Corte ha annullato la sentenza con cui il tribunale di brescia aveva assolto un extracomunitario per non aver lasciato il territorio italiano in presenza di un provvedimento del questore che disponeva il respingimento. Gli ermellini spiegano, infatti, che il potere di espulsione esercitato da prefetto nei confronti dello straniero che entra nello stato eludendo i controlli di frontiera, senza possedere i requisiti previsti dal testo unico dell’immigrazione, scatta solo in caso del mancato esercizio del potere di respingimento che può essere esercitato dalla pubblica autorità. Entrambi i provvedimenti hanno dunque la stessa capacità coercitiva. Una diversa lettura – conclude il collegio di paizza Cavour – finirebbe per creare una disparità di trattamento tra persone che hanno messo in atto lo stesso tipo di condotta illecita, entrando nel territorio clandestinamente.

Corte di Cassazione, sentenza n. 17576 del 27.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che allo straniero, condannato nel suo Paese per le opinioni politiche difformi da quelle del Governo, può essere concessa la protezione internazionale in Italia. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso di un cittadino turco appartenente a un movimento politico di etnia curda, il quale ha chiesto asilo politico in Italia per paura di essere sottoposto a persecuzioni nel proprio Stato di origine. La Cassazione, in particolare, ha affermato che la persecuzione politica sussite anche quando vengano legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo a carico di chi ha espresso mere opinioni politiche. Al contrario, ha concluso il collegio, non può essere considerata persecuzione la repressione adottata con sanzione penale dell’attività di incitamento alla violenza.

Corte di Cassazione, sentenza n. 29338 del 26.07.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha prcisato che si può dare del razzista al poliziotto che tratta in modo ingiusto un extracomunitario. Con tale principio la Corte ha annullato la decisione con cui il giudice di pace di Firenze aveva condannato per ingiuria un dottorando in storia contemporanea che aveva difeso due nigeriani ingiustamente trattenuti dagli agenti dopo l’identificazione. Il giovane aveva, infatti, bollato come razzisti i pubblici ufficiali perché andando oltre la normale procedura, stavano illegittimamente limitando la libertà dei due stranieri. Gli ermellini censurano la decisione del giudice di pace che aveva deciso per la condanna ritenendo credibile il solo racconto dei poliziotti. La suprema corte spiega che, in assenza di prove contrarie, la versione di un fatto data da un semplice cittadino “pesa” esattamente come quella di un pubblico ufficiale. Piazza Cavour nega dunque il reato d’ingiuria e parla di un legittimo esercizio del diritto di critica esercitato per difendere del “deboli” in occasione di un trattamento ingiusticato.

Corte di Cassazione, sentenza n.37577 del 21.10.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il Pm deve essere messo nella condizione di modificare l’imputazione in caso di fatto diverso o reato connesso. La Corte di cassazione censura il comportamento del giudice del dibattimento che, arrogandosi un potere che nessuna norma gli riconosce, nega al pubblico ministero il compimento di un atto imperativo insindacabile e obbligatorio – inerente all’esercizio dell’azione penale – come è la contestazione del fatto diverso o del reato connesso. Così facendo – sottolinea la Suprema Corte – il giudice determina un’indebita regressione del processo alla fase delle indagini preliminari e si pone al di fuori dell’ordinamento processuale, così da integrare un atto abnorme in senso funzionale”. Tale infatti – conclude il collegio – deve essere classificato un atto che determina la stasi del processo e l’imposibilità di proseguirlo, come nel caso della cosiddetta regressione anomala del procedimento a una fase anteriore

Corte di Cassazione, sentenza n. 35923 del 06.10.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è corretta la custodia in carcere e l’accusa di riduzione in schiavitù il padre rom che vende la figlia minorenne a chi la costringe a compiere furti. La Cassazione conferma la necessità della misura cautelare nei confronti di un uomo, di etnia rom, che aveva “ceduto”, la sua figlia minorenne per 200 mila euro a una famiglia che la costringeva a rubare negli appartamenti. La storia che ha portato all’arresto del ricorrente era emersa grazie a intercettazioni telefoniche da cui risultava chiaro che la minore era stata “addestrata” al furto e minacciata perché nel caso fosse stata colta in flagrante, non raccontasse agli agenti la sua storia di schiava venduta per svolgere un'”attività che le era stata imposta sin da piccola anche dai suoi genitori. Gli ermellini, con la sentenza di oggi, hanno avallato la decisone del tribunale del riesame di non rimettere in libertà il padre che aveva tentato di spacciare per una dote la somma di denaro finito nelle sue tasche. Per la Corte nel caso della dote il padre a versare dei soldi o dei beni alla famiglia dello sposo e non viceversa. La somma pagata dal capo della famiglia che ha accolto la ragazza era invece semplicemente il prezzo fissato per la compravend
ita di una minorenne “considerata alla stregua di una cosa che possa essere oggetto di scambio commerciale”. Da qui la grave accusa di riduzione in schiavitù/font>

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 35738 del 05.10.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che spetta al giudice verificare in concreto è se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprolevolezza e pericolosità. Le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza in oggetto condividono l’impostazione della prevalente giurisprudenza di legittimità le decisioni della Corte costituzionale sull’interpretazione dell’articolo 99 del codice penale e, rigettando l’idea di un ripristino del regime di obbligatorietà della recidiva, sottolineano l’impraticabilità di un opzione ermeneutica nel senso dell’avvenuta reintroduzione legislativa di rigidi meccanismi presuntivi. Quando la recidiva reiterata sia esclusa, quindi, essa resta inoperante e consente l’accesso al rito speciale dell’imputato al quale la circostanza aggravante era stata contestata.

Corte di Cassazione, sentenza n. 35511 del 01.10.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il direttore di un giornale on-line non risponde per omesso controllo di quanto pubblicato nel sito da lui diretto.La Corte di Cassazione, con la sentenza n35511 dello scorso 1 ottobre opera una netta differenza tra il direttore responsabile di un giornale cartaceo e il professionista che dirige un giornale diffuso sul web. la vicenda esaminata riguardava il direttore di Merateonline, imputato per non aver impedito la pubblicazione di una lettera diffamatoria nei confronti, tra gli altri, dell’ex ministro della giustizia Roberto Castelli, nei suoi confronti il verdetto fu di non luogo a procedere per prescrizione. Il ricorso per l’annullamento – accolto – era fondato su un motivo di merito (l’impossibilità di dimostrare la genuinità del file diffamatorio, atteso il mancato sequestro del sito e relativa perizia) e soprattutto sull’interpretazione restrittiva dell’articolo 57 del codice penale: questa norma stabilisce la responsabilità missiva per colpa del direttore di stampa periodica, fatta eccezione per il concorso nella diffamazione

Corte di Cassazione, sentenza n. 34240 del 23.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è legittima la custodia cautelare in carcere disposta nei confronti dell’imputato, anche se il suo complice è stato scarcerato subito dopo l’arresto. Non c’è disparità di trattamento in quanto il giudice decide valutando la personalità del singolo. Lo ha stabilito la Corte nella sentenza in oggetto respingendo il ricorso di un cittadino straniero contro la conferma della sua custodia in carcere per concorso nella detenzione di stupefacenti. L’uomo impugnava la sentenza della Corte d’Appello di Genova, eccependo una palese disparità i trattamento rispetto a quello riservato al coimputato nello stesso processo, scarcerato appena poche ore dopo l’arresto. La terza sezione penale ha negato la sua tesi e confermato il carcere, affermando che “in tema di misure cautelari personali, la valutazione della personalità dell’imputato varia caso per caso ed è quindi, diversa per ciascuno dei soggetti del medesimo processo. Pertanto, quando la motivazione si sia soffermata sugli elementi ritenuti influenti e decisivi, il richiamo alla pretesa disparità di trattamento rispetto ad altri coimputati è del tutto inconferente, giacchè le determinazioni del giudice, in materia di custodia preventiva, conseguono alla valutazione anche di circostanze strettamente personali, che, come tali, non possono esercitare alcuna influenza sulla posizione individuale degli altri”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 34333 del 24.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non può essere condannato per essersi sottratto agli obblighi di assistenza nei confronti dei figli il genitore con gravi disturbi psichici che non è in grado di rendersi conto che li priva dei mezzi di sussistenza. Con tale principio la Corte ha accolto il ricorso di un uomo di Lecco condannato dalla Corte d’Appello di Milano per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai due figli minori. L’uomo, come accertato dalla perizia psichiatrica, era affetto da un grave disturbo della personalità che lo portava sospettare degli altri e incideva negativamente sulla sua capacità intellettiva, anche se, secondo il perito, permaneva comunque una capacità di volere. Il padre dei due minori da un lato si preoccupava per loro in modo quasi ossessivo, dall’altro li privava del sostentamento. Si trattava insomma di una seminfermità mentale che aveva indotto i giudici d’appello a riconoscere la diminuente del vizio parziale di mente, la pena era quindi stata ridotta a un mese e dieci giorni di reclusione. I legali dell’uomo impugnavano la condanna, sostenendo che, in virtù disturbo paranoide del loro assistito, dovesse essere completamente escluso l’elemento soggettivo del reato. La sesta sezione penale ha accolto la tesi difensiva e ha stabilito che, proprio l’autonomia tra le nozioni di imputabilità colpevolezza impone “l’indagine in ordine alla sussistenza o meno, nel comportamento tenuto dall’agente, dell’elemento soggettivo del reato, indagine che implica la verifica in concreto dell’eventuale incidenza che lo stato patologico può essere avuto sulla condotta considerata, per stabilire se questa si riveli alterata in modo sostanziale nella sua connotazione psicologica”. Indagine che, nel caso del padre di Lecco, avrebbe dovuto considerare che “il grave perturbamento psichico di cui era portatore l’imputato all’epoca dei fatti si è inevitabilmente riverberato, per quello che emerge dalla stessa sentenza impugnata, sulla normalità del processo rappresentativo e volitivo del medesimo imputato”. Con queste motivazioni gli Ermellini hanno annullato la condanna inflitta all’uomo.

Corte di Cassazione, sentenza n. 35181 del 30.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha sancito il via libera alla consegna del condannato allo stato richiedente anche se in Italia è pendente un procedimento a suo carico. Con la sentenza in oggetto, la Cassazione esclude che l’esigenza del condannato di difendersi in un processo interno sia di ostacolo al trasferimento all’estero. Gli ermellini specificano, infatti, che l’attuazione dei principi del giusto processo sarebbe garantita dall’impossibilità di celebrare un processo in assenza dell’imputato. Inoltre – conclude la Corte – esiste una garanzia, fornita dallo stato richiedente allo stato richiesto di rimandare in Italia la persona consegnata una volta soddisfatte le esisgenze di giustizia nel suo paese.

Corte di Cassazione, sentenza n. 20338 del 28.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non è diffamazione né integra un fatto illecito l’attribuzione erronea, da parte degli organi di stampa e delle televisioni, della qualifica di commercialista a un indagato per corruzione. I giornalisti non sono quindi tenuti a risarcire l’Ordine per presunti danni d’immagine. E’ quanto ha sancito la Corte di Cassazione che con la sentenza in oggett , ha respinto il ricorso dell’Ordine dei commercialisti contro numerosi volti noti del giornalismo italiano e alcuni celebri gruppi editoriali che, nel riportare alcune notizie di cronaca relative a un’inchiesta per corruzione, avevano erroneamente qualificato uno degli indagati come commercialista (in realtà avvocato). Agli occhi dell’Ordine la falsa notizia aveva diffamato un’intera categoria, in termini di prestigio e professionalità e chiedeva quindi di essere risarcito dei danni per la lesione alla reputazione e all’identità personale. Il giudice di primo grado, pur escludendo che la condotta dei giornalisti potesse integrare il reato di diffamazione, aveva parzialmente dato ragione all’Ordine e condannato i professionisti a ingenti risarcimenti. La decisione
era stata ribaltata in appello, i giudici di secondo grado erano infatti giunti alla conclusione che l’attribuzione all’indagato “della qualifica, inveritiera, di commercialista integri un fatto illecito perché inidonea in sè provocare la lesione di un bene meritevole di tutela in quanto la responsabilità penale personale e quindi non può trasferirsi a persone che svolgono la stessa attività perchè l’ arresto non è disdicevole per le persone appartengono alla stessa razza, sesso, religione, categoria professionale, e neppure per le espressioni usate perché la notizia non contiene apprezzamenti o valutazioni sulla professione commercialista e non denigra categoria, né l ha accomuna all’abituale commissione di reati o di attività antigiuridiche”. Gli Ermellini hanno condiviso queste motivazioni e confermato la decisione della Corte d’Appello.

Corte di Cassazione, sentenza n. 35006 del 28.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che la rapina è consumata e non tentata se la refurtiva è recuperata grazie all’intervento del derubato o della forza pubblica. La Corte esclude che si possa configurare il meno grave reato della rapina tentata nel caso in cui il “maltolto” torni nella disponibilità del legittimo proprietario solo per l’intervento di terzi. Con la sentenza in oggetto chiarisce che perché scatti la rapina consumata “è sufficiente che la cosa sottratta sia passata, anche per breve tempo ed anche nello stesso luogo in cui la sottrazione si è verificata, sotto il dominio esclusivo dell’agente ed ovviamente il reato non può aggredire allo stadio di tentativo solo perché in un momento successivo altri abbia impedito al suo autore di mantenere il possesso della cosa sottratta o di procurarsi la impunità

Corte di Cassazione, sentenza n. 34813 del 27.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde di lesioni colpose e di omessa custodia dell’animale non solo il padrone del cane che azzanna un passante, ma anche il possessore, e quindi la persona che lo custodiva al momento dell’aggressione. Con tale principio la Corte ha condannato un uomo palermitano a 100 euro di multa per lesioni colpose dopo che il suo cane aveva morso una ragazza. L’imputato, condannato anche a risarcire la donna dei danni subiti, ricorreva in cassazione lamentandosi che i giudici siciliani avevano affermato la sua responsabilità senza considerare che il cane era della famiglia, in particolare apparteneva a sua madre e a sua nonna. La quarta sezione penale ha però respinto le sue doglianze e condiviso quanto già affermato dal tribunale. In effetti i giudici di merito avevano già dimostrato che “l’animale era sicuramente in suo possesso”, l’imputato inoltre “abitava con la madre e si rapportava quotidianamente con l’animale che gli ubbidiva e che portava a passeggio”. La Corte ha quindi confermato la condanna, ricordando che “in tema di custodia di animali, l’obbligo sorge ogni volta che sussista una relazione di possesso o di semplice detenzione tra l’animale e una data persona, posto che l’art. 672 cod. pen., relaziona l’obbligo di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al possesso dell’animale, possesso da intendersi come detenzione anche solo materiale e di fatto senza che sia necessario che sussista una relazione di. Proprietà in senso civilistico.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 34015 del 21.09.2010

Il comportamento di chi, oltre a reiterate molestie telefoniche in danno dell’ex compagno, porti avanti aggressioni verbali alla presenza di testimoni e iniziative gravemente diffamatorie presso i suoi datori di lavoro per indurli a licenziarlo, integra il reato di atti persecutori, cd. stalking di cui all’art. 612-bis c.p. è questo il principio di diritto emesso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 34015 depositata il 21 settembre scorso. La vicenda ha come protagonista una donna, oggetto di continue telefonate e aggressioni verbali da parte del suo ex ragazzo, che non solo offendeva la donna in privato ma anche in pubblico, e in particolare davanti al datore di lavoro della donna con l’intento di determinarne il licenziamento della stessa. In particolare, secondo quanto si apprende dalla sentenza di legittimità il tribunale del riesame di Napoli, in seguito all’emissione da parte del gip della misura cautelare di cui all’art. 282-ter., c.p.p, consistente nel divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla donna, per la contestazione del reato di cui all’art. 612-bis del codice penale (atti persecutori, il cd. reato di stalking, introdotto nel nostro ordinamento con la legge 23 aprile 2009, n. 38 ), non ravvisando il compendio indiziario in materia di stalking, annullava l’ordinanza cautelare emessa dal Gip. Secondo il Tribunale della libertà di Napoli, infatti, gli atti posti in essere dall’uomo (minacce di morte e diffamazione) non avevano la caratteristica della persecutorietà non avevano l’avevano l’attitudine a generale uno stato di ansia tale da impedire alla donna la propria vita lavorativa e familiare. Su ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, (che aveva eccepito l’illogicità della motivazione della sentenza del tribunale del riesame che da un lato confermava i comportamenti ingiuriosi e minacciosi ma dall’altro negava che questi avessero una qualche attitudine all’invasività della vita della donna) la Corte di Cassazione, accoglieva le ragioni del PG, sottolineando la illogicità della decisione del tribunale del riesame, precisando che gli atti posti in essere dall’uomo (dalla lettura del capo di imputazione provvisorio, molestie telefoniche, squilli anche nel corso della notte e ricezione di sms, oltre alle ripetute aggressioni verbali alla presenza di testimoni e delle iniziative gravemente diffamatorie assunte presso i datori di lavoro per indurli a licenziarla) avevano l’attitudine di provocare sia un grave stato di ansia che il fondato timore per la propria incolumità cioè condotte alternative capaci di integrare il reato in discussione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32525 del 31.08.2010

Risulta riconducibile alla fattispecie dell’estorsione la prospettazione, da parte dell’imprenditore, della perdita del posto di lavoro nel caso in cui i dipendenti non accettino una retribuzione inferiore a quanto indicato nella busta paga; lo stesso vale per l’imposizione di apporre la propria firma su lettere di dimissioni in bianco onde evitare le disposizioni legislative dettate in tema di preavviso al licenziamento. E’ quanto afferma la Corte di Cassazione sottolineando, come da giurisprudenza consolidata, che in nessun caso può essere legittimata e ricondotta “alla normale dinamica di rapporti di lavoro” un’attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall’ordinamento giuridico, in attuazione delle garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà della dignità dei diritti di chi lavora. Gli Ermellini precisano inoltre che la minaccia, intesa quale elemento costitutivo del reato di estorsione, non deve necessariamente essere ricondotta alla prospettazione, a fini di coartazione, di un male irreparabile alle persone o alle cose tale da impedire alla persona offesa di operare una libera scelta; è invece sufficiente che, in considerazione delle circostanze concrete in cui la condotta viene posta in essere, questa sia comunque idonea a far sorgere il timore di subire un concreto pregiudizio.

Corte di Cassazione, sentenza n 33741 del 17.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che risponde di estorsione il creditore che ricorre alla minaccia per farsi pagare e richiede una somma maggiore del credito originario. L’apparente legalità della pretesa non fa venir meno l’ingiusto profitto, e quindi la configurabilità del re
ato. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso del rappresentante di una ditta che commercia prodotti alimentari all’ingrosso a Nardì in piccolo comune del Salento. L’uomo era stato denunciato per estorsione da un altro imprenditore, dopo averlo invitato a estinguere un debito che la sua società li doveva. Il grossista aveva mandato a riscuotere il debito, già reateizzato e parzialmente versato dalla vittima, alcuni pregiudicati della zona prospettando in modo non troppo velato pericoli per la sua incolumità in caso di mancato pagamento. Il rappresentante, ai domiciliari, impugnava la misura cautelare decisa dal Gip di Lecce affermando che non sussisteva l’ingiusto profitto, in quanto lui si era limitato a pretendere il pagamento di un credito dovuto. I giudici della sesta sezione penale hanno respinto la sua tesi difensiva, deve infatti escludersi che “la condotta posta in essere dall’indagato possa configurare l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni per le modalità con cui si è richiesto il pagamento del credito e, inoltre, per la sproporzione della somma pretesa, pari a circa il doppio del valore del credito”. La giurisprudenza ha inoltre avuto modo di precisare che “anche una minaccia dall’esteriore apparenza di legalità può restituire illegittima intimidazione idonea a integrare l’elemento materiale del reato di estorsione nel caso in cui è finalizzata ad ottenere un profitto ingiusto e dunque non la controprestazione dovuta; nella specie, la valenza intimidatoria della minaccia è costituita anche dalla rilevata sproporzione tra credito originario e somma pretesa, situazione che trasforma la richiesta di una prestazione in un risultato iniquo perché ampiamente esorbitante rispetto a quanto si sarebbe conseguito attraverso l’esercizio del diritto, che viene strumentalizzato per uno scopo contra ius.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 34240 del 22.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che a parità di reato a fare la differenza nella decisione di disporre le misure cautelari in carcere ha personalità dell’imputato. La Corte di Cassazione respinge così il ricorso di un trafficante di droga a cui era stata inflitta la cercerazione preventiva. Il ricorrente – arrestato insieme a un complice per la detenzione di un chilo di eroina – obiettava che era stata messa in atto una disparità di trattamento rispetto al suo “sodale” immediatamente scarcerato. La Suprema corte respinge l’appunto, sottolineando che nella decisione di mantenere il ricorrente in carcere avevano avuto un peso sia i suoi precedenti “gravi e specifici” che non consentivano di escludere il rischio di recidiva sia la sua personalità. Valutazioni, strettamente personali che non “possono esercitare alcuna influenza sulla posizione individuale degli altri”.

Corte di Cassazione, sentenza n.33994 del 21.09.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non commette il reato di diffamazione il cliente che chiede all’ordine professionale di verificare la correttezza del proprio difensore. La corte di Cassazione – ribaltando il verdetto dei giudici di merito – assolve dal reato di diffamazione la ricorrente che aveva scritto al consiglio dell’ordine di appartenenza del suo legale per segnalare i contrasti sorti sia in merito al pagamento delle parcelle sia riguardo a un “cambio della guardia” sull’assistenza a un’udienza, affidata dal legale di fiducia a un sostituto, avvicendamento secondo la ricorrente non giustificato da un impedimento reale a svolgere correttamente il mandato. Gli “appunti” non erano stato graditi dall’avvocato che aveva prontamente querelato per diffamazione la cliente ottenendo la sua condanna, in prima battuta dal giudice di pace poi da quelli di merito. La ricorrente vince però è partita finale incassando il parere favorevole della Cassazione. Gli ermellini affermano, infatti, la prevalenza del diritto di critica – sancito dalla Costituzione – sul bene della dignità personale. Secondo la Corte giustamente per chiarire i dubbia sulla corretteza dell’operato del suo difensore la ricorrente ha scelto la via extragiudiziale, prevista dal nostro ordinamento a tutela del diritto del cittadino di verificare eventuali violazioni delle regole deontologiche. Nè conclude il collegio – la condanna può essere giustificata dal solo fatto che le perplessità della cliente si sono dimostrate infondate, come dimostrato dall’archiviazione del caso disposta dall’ordine di Napoli

Corte di Cassazione, sentenza n. 33741 del 17.09.2010

Risponde di estorsione il creditore che ricorre alla minaccia per farsi pagare e richiede una somma maggiore del credito originario. L’apparente legalità della pretesa non fa venir meno l’ingiusto profitto, e quindi la configurabilità del reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza in oggetto, respingendo il ricorso del rappresentante di una ditta che commercia prodotti alimentari all’ingrosso a Nardì nel Salento. L’uomo era stato denunciato per estorsione da un altro imprenditore, dopo averlo invitato a estinguere un debito che la sua società li doveva. Il grossista aveva mandato a riscuotere il debito, già reateizzato e parzialmente versato dalla vittima, alcuni pregiudicati della zona prospettando in modo non troppo velato pericoli per la sua incolumità in caso di mancato pagamento. Il rappresentante, ai domiciliari, impugnava la misura cautelare decisa dal Gip di Lecce affermando che non sussisteva l’ingiusto profitto, in quanto lui si era limitato a pretendere il pagamento di un credito dovuto. I giudici della sesta sezione penale hanno respinto la sua tesi difensiva, deve infatti escludersi che “la condotta posta in essere dall’indagato possa configurare l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni per le modalità con cui si è richiesto il pagamento del credito e, inoltre, per la sproporzione della somma pretesa, pari a circa il doppio del valore del credito”. La giurisprudenza ha inoltre avuto modo di precisare che “anche una minaccia dall’esteriore apparenza di legalità può costituire illegittima intimidazione idonea a integrare l’elemento materiale del reato di estorsione nel caso in cui è finalizzata ad ottenere un profitto ingiusto e dunque non la controprestazione dovuta; nella specie, la valenza intimidatoria della minaccia è costituita anche dalla rilevata sproporzione tra credito originario e somma pretesa, situazione che trasforma la richiesta di una prestazione in un risultato iniquo perché ampiamente esorbitante rispetto a quanto si sarebbe conseguito attraverso l’esercizio del diritto, che viene strumentalizzato per uno scopo contra ius.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 33741 del 16.09.2010

Scatta il reato di estorsione per chi chiede con modalità intimidatorie e in misura proporzionata rispetto al dovuto la restituzione di una somma. Questo quanto chiarito dalla cassazione con la sentenza n.33741 con la quale la cassazione ha condannato il ricorrente bocciando la richiesta della difesa di riconoscere la fattispecie meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Gli ermellini, in linea con quanto già deciso dal tribunale di merito avevano verificato che il ricorrente aveva richiesto la restituzione di una somma di denaro – dovuta dal titolare di un società ex cliente dell’azienda per cui lavorava – corrispondente almeno al doppio del debito reale. Censurate anche le modalità dell’intimazione a pagare, fatta ricordando i legami con la criminalità organizzata su cui la ditta creditrice poteva contare. Un collegamento dimostrato inviando un “esattore” pluricondannato per reati di mafia. Tanto è bastato ai giudici per far scattare la condanna ed escludere il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che si può configurare solo quando in maniera “prepotente” si fa valere un diritto che verrebbe comunque riconosciuto anche in aula di tribunale.

Corte di Cassazione, sentenza n. 33310 del 9.9.2010

Ladro, compagno di merende e rimbambito.
Su questi epiteti non proprio gentili rivolti ai politici in passato la Corte di cassazione ha “chiuso un occhio”, oggi invece condanna un ex sindaco per aver dato del “mentecatto” al suo successore. Gli ermellini, con la sentenza 33310 invertono la tendenza e dicono stop agli insulti tra politici, prendendo le distanze da una precedente linea che prevedeva una sorta di “immunità per il confronto politico acceso. Un’arena in cui i vari leader o esponenti di partito potevano “dirsele” di santa ragione, quasi come i partecipanti ai reality, senza incorrere nella condanna per ingiuria. Gli ermellini avevano, infatti, assolto un amministratore comunale per aver definito “compagno di merende” un suo avversario politico, espressione che rientrava nel diritto di critica – secondo la Suprema corte – perché era stato provato in passato un legame del componente della giunta con personaggi equivoci. In base allo stesso diritto l’aveva passata liscia anche un onorevole che aveva dato del rimbambito al rappresentante di uno schieramento avverso. Nessuna condanna anche per il consigliere comunale che aveva gridato “ladro” al sindaco e invitandolo ad andare a lavarsi perché puzzava. Una “mano pesante” che i giudici della Cassazione avevano giustificato, nel 2001 ai tempi di Tangentopoli, definendola critica politica. E’ andata invece male all’ex sindaco di un comune veronese che, forse puntando sui precedenti giurisprudenziali che giocavano a suo favore, si è lasciato sfuggire un “mentecatto” all’insegna del nuovo primo cittadino. Offesa evidentemente arrivata proprio quando la Suprema Corte ha deciso di mettere un freno al turpiloquio tra politici, invitandoli a “rispettare il limite della continenza” che deve consistere in un dissenso misurato che non degeneri in un attacco personale lesivo della dignità dell’avversario. Un trattamento di favore nei confronti dei politici – spiega la Corte – sarebbe in contrasto con il fondamentale principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma anche ai comuni cittadini la Cassazione ha perdonato qualche intemperanza assolvendo, nel 2003, un architetto che aveva dato del trombone a un consigliere comunale: “una frase mordace e sarcastica entrata a far parte della dialettica politica”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32404 del 30.08.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che chi perseguita il proprio ex con messaggi minacciosi anche su Facebook commette il reato di stalking. La Corte ha confermato una custodia cautelare ai domiciliari, disposta dal tribunale di Potenza, nei confronti di un ragazzo accusato di “atti persecutori” (stalking) nei confronti della ex fidanzata. Continui episodi di molestie, consistiti in telefonate, invii di sms, messaggi di posta elettronica e tramite Facebook, anche nell’ufficio dove lei lavorava avevano portato il tribunale di Lagonegro nel febbraio 2010 a disporre la custodia cautelare in carcere per l’uomo dopo la denuncia della ragazza. In riforma del provvedimento, poi, il tribunale di Potenza aveva tramutato il carcere in arresti domiciliari. L’amante, non rassegnato, aveva anche minacciato il nuovo compagno della ex spedendogli fotografie di rapporti sessuali della sua precedente relazione. Invano l’indagato ha fatto ricorso in Cassazione contro l’ordinanza del tribunale di Potenza: i supremi giudici, infatti, con la sentenza in oggetto, hanno confermato il provvedimento ritenendo tali comportamenti minacciosi e molesti e gravi indizi di colpevolezza anche i messaggi su Facebook, che avevano creato nella vittima uno stato d’animo di profondo disagio e paura in conseguenza delle vessazioni patite.

Corte di Cassazione, sentenza n. 32525 del 31.08.2010

È estorsione lucrare sul compenso dei lavoratori ricevuto dalla ditta committente. Stretta della Suprema corte sul reato di dichiarazione fraudolenta. L’imprenditore è infatti punibile anche quando le fatture “ideologicamente false” non sono state usate concretamente ma sono conservate nella documentazione contabile dell’azienda. La Cassazione con la pronuncia in oggetto ha inoltre precisato un altro interessante principio secondo cui risponde di estorsione l’imprenditore che sotto la minaccia del licenziamento sottopaga i lavoratori lucrando la differenza fra quanto l’azienda percepisce dalla ditta committente. In particolare secondo i giudici “per l’integrazione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (previsto dall’art 2 d. lgs. n. 74/2000) devono concorrere due elementi oggettivi, l’avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e l’indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi presentata di elementi passivi fittizi. Per l’integrazione del reato è infatti, necessario,da una parte, che le fatture ideologicamente false che dovrebbero supportare detta indicazione siano conservate nei registri contabili o nella documentazione fiscale dell’azienda, perché con ciò consiste l’atteggiamento di “avvalersi” delle fatture come richiesto dalla norma; dall’altra, che la dichiarazione fiscale contenga effettivamente l’indicazione di elementi passivi fittizi. Il delitto, di tipo commissivo e di mera condotta, seppure teleologicamente diretta al risultato dell’evasione d’imposta, ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale”. Non basta. Sul fronte dell’estorsione la Cassazione, bocciando tutte le attività di cosiddetto “capolarato”, ha ribadito che “integra il delitto la condotta del datore di lavoro che prospetti la mancata assunzione, il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione nel caso in cui i lavoratori non accettino condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, trattandosi di attività in nessun caso riconducibile alla normale dinamica dei rapporti di lavoro”.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 32383 del 30.08.2010

Il diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione scatta anche se da parte del soggetto che la richiede c’è stato dolo e colpa grava. La Corte di cassazione, in versione collegiale decide, anche sulla scia delle decisioni della Corte costituzionale, per l’interpretazione estensiva del diritto tra due opposti orientamenti. Il collegio di piazza Cavour subordina però il diritto alla condizione che la verifica dell’ingiusta detenzione sia stata fatta in base agli stessi elementi che aveva a disposizione il giudice che aveva scelto di adottare la misura cautelare.

Corte di Cassazione, sentenza n. 23893 del 25.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che «solo una manifestamente irragionevole interpretazione delle norme di cui ai commi 4 e 6 dell’articolo 14 citato (Dlgs 286/1995, ndr) porterebbe ad escludere l’applicabilità del procedimento camerale di convalida in relazione alla richiesta di proroga del trattenimento». La Suprema Corte ha in questo modo equiparato il trattenimento nei Cie alle misure detentive, imponendo il contraddittorio.

Corte di Cassazione, sentenza n. 23464 del 19.11.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che il Comune deve risarcire l’alunno picchiato da un compagno sullo scuolabus. Infatti, sussiste in capo all’ente l’obbligo generale di apportare tutte le cautele necessarie a garantire la sicurezza dei minori. Con tale principio la Corte ha respinto il ricorso del comune di Perugia contro la sentenza con cui la Corte d’Appello umbra lo condannava a risarcire di oltre 120mila euro un ragazzo che, negli anni ’80, quando aveva solo dieci anni, era stato picchiato da un suo coetaneo sullo scuolabus comunale. Il bambino era stato colpito ripetutamente alla schiena con la cartella scolastico dopo una lite sul posto da occupare. L’aggressione gli aveva causato la lesione di quattro vertebre, con esiti invalidanti permanenti del 18 %. La Terza Sezione civile della Suprema Corte ha confermato il suo diritto ad essere risarcito, non solo dai genitori dell’aggressore, ma anche d
al Comune, in quanto “l’ obbligo normativo del Comune di disporre la vigilanza (ma, recte, “sorveglianza”, secondo quanto previsto dall’art. 2047 c.c.) nel servizio pubblico di trasporto degli alunni in “scuolabus”, garantendo la presenza di un accompagnatore, oltre all’autista, nella gestione del servizio di trasporto scolastico pur non essendo correlato ad un’espressa previsione di legge, discende dal principio secondo il quale grava sulla P.A. che svolga un servizio di trasporto riservato agli alunnil’adozione delle cautele occorrenti per tutelare la sicurezza dei minori.”

Corte di Cassazione, sentenza n. 23835 del 24.11.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che è sempre obbligatoria la pubblicazione della rettifica richiesta dall’interessato – anche se la notizia, al momento della sua messa in pagina, era rispondente alle conoscenze acquisite – «qualora la relativa domanda sia diretta a far valere l’avvenuto accertamento dei fatti in termini diversi da quelli in precedenza pubblicati, dovendo la verità reale prevalere sulla verità putativa». La Cassazione, nella sentenza in oggetto, rigetta però il ricorso inerente il risarcimento dei danni per diffamazione e per mancata pubblicazione della rettifica. Il diritto di cronaca, argomentano i giudici, permette di pubblicare vicende di cui ancora non si sia accertata la completa corrispondenza al vero ma impone la pubblicazione della rettifica qualora siano stati attribuiti ai soggetti atti «da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità». Obbligo che permane anche qualora l’articolo in sè non contenga informazioni diffamatorie in quanto riportante fatti fino a quel momento veritieri.

Corte di Cassazione,sentenza n. 41142 del 22.11.2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ha precisato che il padre che compie atti di violenza sulla madre risponde anche del reato di maltrattamento sui figli. I giudici della Cassazione infliggono una condanna esemplare, per violenza verso la convivente e i figli della coppia, a carico di un uomo che davanti ai bambini aggrediva sia verbalmente sia fisicamente la loro mamma. Un comportamento che aveva indotto nel figlio maschio il rifiuto di andare a scuola per paura che durante la sua assenza la madre venisse picchiata senza che lui potesse fare nulla per difenderla, mentre al figlia femmina aveva cominciato a soffrire di bulimia. Gli ermellini respingono la tesi della difesa che negava l’esistenza di un nesso causa-effetto tra la patologia che si era manifestata nella minore e l’atteggiamento violento del padre nei confronti della sua convivente, che doveva considerarsi l’unica destinataria degli scatti d’ira del suo compagno. La Suprema corte respinge la lettura “a compartimenti stagno” fatto su quanto accadeva in famiglia, insistendo invece sullo stato di sofferenza dei figli come causa diretta dei raptus paterni. Gli atteggiamenti vessatori imposti ai bambini – spiega il Collegio – creano inevitabilmente un clima di disagio anche nel caso non siano direttamente rivolti verso i minori che assistono alla violenza. Il reato di maltrattamenti – specificano ancora gli ermellini – si configura non solo in presenza di un comportamento attivo, ma anche quando si mettono in atto delle omissioni come avviene nel genitore che non si cura dell’educazione e dell’assistenza dei propri figli. Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, il ricorrente era andato addirittura oltre minacciando la madre di ucciderle i figli. Questo in presenza dei bambini.

Corte di Cassazione, sentenza n. 40836 del 18.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha annullato la decisione con la quale il Tribunale di Modena aveva condannato il ricorrente per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale considerando nel conto della pena inflitta anche l’aggravante della clandestinità. La Corte ricorda, infatti, nelle motivazioni, la sopravvenuta sentenza con cui la Consulta ha escluso la possibilità di contestare lo stato di clandestino, la cui considerazione diventa dunque causa di nullità rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità.

Corte di Cassazione, sentenza n.40536 del 14.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che solo la possibilità di arrivare a una decisione diversa da quella adottata legittima l’impugnazione di una sentenza in cui manca la motivazione. La Corte di Cassazione, esprimendosi sull’esistenza di un interesse specifico e pertinente a fare ricorso contro una sentenza priva completamente di argomentazioni, specifica che: “tale interesse sarebbe configurabile solo nell’ipotesi in cui, con il vizio di mancanza di motivazione, fossero stati specificamente dedotti gli elementi alla stregua dei quali sarebbe stata possibile un’univoca decisione di condanna, quindi una decisione diversa da quella comunque deliberata”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 40163 del 16.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che non è indispensabile la prova diretta dell’esistenza della sostanza stupefacente per poter configurare il reato di spaccio, la cui consumazione può essere dimostrata utilizzando anche altre fonti, come le deposizioni dei testimoni o le intercettazioni ambientali. La Corte ha respinto il ricorso di due uomini condannati per spaccio e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Uno di loro in particolare sottolineava come non ci fosse una prova diretta dell’esistenza della droga, risultava quindi carente la ricostruzione dei giudici di merito sul piano probatorio. L’impianto accusatorio si basava comunque su numerose dichiarazioni di testimoni sul contenuto di molte intercettazioni che inchiodavano gli imputati. La Cassazione ha quindi respinto al sua tesi difensiva, ricordando che “il reato di detenzione a fini di spaccio o quello di spaccio non sono condizionati, sotto il profilo probatorio, al sequestro o al rinvenimento di sostanze stupefacenti, poiché la consumazione di tali reati può essere dimostrata attraverso le risultanze di altre fonti probatorie, quali le ammissioni dello stesso imputato, le deposizioni dei testimoni o il contenuto di intercettazioni”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 40107 del 12.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il commercialista che aiuta l’imprenditore ad ottenere finanziamenti pubblici in modo illecito risponde di truffa aggravata ai danni dello Stato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione confermando la condanna per truffa aggravata ai danni dello Stato di un imprenditore del settore vinicolo e del suo commercialista. Il professionista, nel preparare la domanda di finanziamento volto a realizzare un nuovo stabilimento di produzione vinicola, aveva presentato fatture false e dichiarazioni scritte per dimostrare la solidità dell’azienda e l’afflusso fittizio di capitali provenienti dai soci. Si difendeva però sottolineando di non essere a conoscenza della finalità delittuosa e ribadiva la sua estraneità alla formazione dei documenti falsi. Il tentativo reciproco dei due coimputati di rovesciare l’uno sull’altro l’iniziativa della truffa è stata sconfessata dai giudici di legittimità che hanno confermato la condanna inflitta ad entrambi. La seconda sezione penale ha inoltre ribadito che il reato non poteva considerarsi prescritto, il termine di prescrizione decorre infatti dalla cessazione dei pagamenti “e non dalla presentazione della domanda di contributo, trattandosi di un reato a consumazione prolungata giacchè il soggetto agente sin dall’inizio ha la volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo”.

Corte di Cassazione, sentenza n. 40094 del 12.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’impossibilità di avere rapporti sessuali con il partner e, di conseguenza, di generare dei figli, non può costituire una voce autonoma nel risarcimento per ingiusta detenzione. La Corte esclude, come pret
eso dalla difesa del ricorrente, la possibilità di considerare un danno “aggiuntivo” l’incapacità di procreare per il sopraggiunto climaterio della propria compagna. Nel caso analizzato dagli ermellini ha pesato anche la mancata prova che il rapporto del ricorrente – rimasto ingiustamente in carcere per 11 anni e mezzo – con la moglie fosse esistente già al tempo della carcerazione preventiva. In linea generale la Corte sottolinea comunque che l’impossibilità di diventare padre una conseguenza naturale della privazione della libertà. La Suprema Corte respinge anche la richiesta della difesa di equiparare, ai fini della quantificazione del danno biologico, la detenzione a uno stato di infermità totale temporanea. Possibilità che, secondo la Suprema corte, ci sarebbe solo nel caso durante il periodo di detenzione sopraggiungesse una grave patologia.

Corte di Cassazione, sentenza n. 39618 del 10.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’avvocato può dare dello spione e del ruffiano alla controparte se l’insulto è funzionale alla sua arringa. La Corte di Cassazione fa scattare il semaforo verde agli epiteti anche offensivi contenuti nelle memorie difensive purchè siano inerenti all’oggetto della causa e usati in senso figurato e non letterale. Il ricorrente è stato così costretto a subire la definizione di spione e ruffiano scritta nelle “note autorizzate” che, una volta depositate in cancelleria diventano pubbliche. Una “visibilità indicata come aggravante della diffamazione dal ricorrente che si riteneva offeso in particolare dalla una definizione di ruffiano usata normalmente per indicare chi sfrutta la prostituzione. Un’interpretazione con la quale non si sono trovati d’accordo gli ermellini, che sottolineano come la parola sia stata usata dall’avvocato nei suoi scritti difensivi in senso figurato per indicare “una persona che cerca di conquistarsi il favore altrui con l’adulazione o con atteggiamento di ostentata sottomissione”. Il termine spione era stato invece “guadagnato” dal ricorrente per aver avvertito i vicini della parte avversa che questo aveva aperto una servitù in un terreno confinante. La suprema Corte, salva l’avvocato dalla condanna riconoscendogli l’esimente prevista dall’articolo 598 del codice penale in favore dei legali che “condiscono” gli scritti o i discorsi – indirizzati o pronunciati davanti alle autorità giudiziarie o amministrative – con parole un po’ colorite quando queste riguardano l’oggetto del ricorso. Spetta poi al giudice se lo ritiene opportuno ordinarne la cancellazione.

Corte di Cassazione, sentenza n.39620 del 10.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che l’agente della polizia stradale non può consultare la banca dati del ministero per avere notizie su vetture a scopi personali. La Corte di Cassazione condanna per accesso abusivo a un sistema informatico un agente della polstrada che aveva utilizzato la sua password personale per entrare nel Ced del ministero dell’Interno, allo scopo di raccogliere informazioni su una Bmw. L’ agente aveva giustificato l’accesso ai dati riservati con la necessità di fare ulteriori verifiche su un’autovettura che era stata già controllata da una pattuglia sull’autostrada il 22 dicembre del 2001. Una bugia venuta a galla perché la macchina su cui il poliziotto stava indagando era stata rubata il 29 novembre del 2001 e ritrovata in Albania il 3 marzo dell’anno successivo. Secondo gli ermellini non c’era dunque dubbio che le ragioni dell’accesso alla banca dati del ministero dell’Interno fossero del tutto estranee alle mansioni svolte dal ricorrente.

Corte di Cassazione, sentenza n.39347 del 09.11.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che deve essere condannata per peculato la presidente di una sezione locale della Croce rossa per l’uso personale dell’auto blu e la sottrazione di buoni pasto riservati al personale incaricato del trasporto dei malati. La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto ha chiarito che la ricorrente doveva essere considerata una incaricata di pubblico servizio e non, come lei pretendeva, una volontaria. La Corte boccia la linea di difesa dell’imputata che si era appigliata alla “lacunosa” normativa in materia, lamentando la fumosità di leggi e regolamenti da cui non si evincerebbe la natura di ente pubblico della Cri. Di parere opposto gli ermellini che ribadiscono il carattere pubblico della struttura e respingono al mittente le deboli argomentazioni usate per giustificare il comportamento illegittimo. Secondo la dirigente la condanna per peculato era troppo severa in rapporto alle azioni commesse: l’uso dell’automobile era stato, infatti, solo “momentaneo” mentre era “infimo” il valore dei 20 buoni pasto sottratti. Anche la scelta di custodire i ticket all’interno di un’agenda nella propria abitazione doveva essere considerata una semplice precauzione presa per evitare furti da parte di terzi.

Corte di Cassazione, sentenza n.38722 del 03.04.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che sono valide le motivazioni di un’impugnazione presentate dal praticante avvocato anche se non ha una delega purchè l’atto sia riconducibile a uno studio legale. La Corte di cassazione respinge il ricorso con cui si chiedeva di annullare la decisione presa dalla Corte d’Appello adottata sulla base di motivi di impugnazione presentati da un praticante, con una firma del difensore che lo delegava illeggibile. L’atto contestato era però riconducibile allo “Studio Avvocati” associati indicazione sufficiente, secondo la Suprema corte a legittimare l’azione del praticante. Il collegio sottolinea, infatti, come sia possibile conferire il mandato alla presentazione anche oralmente dal momento purchè sia possibile risalire, attraverso l’atto, allo studio legale che, nel caso esaminato, era specificamente indicato

Corte di Cassazione, sentenza n. 22230 del 29.10.2010

La Corte di Cassazione,con la sentenza in esame ha precisato che lo straniero coniugato con una cittadina italiana non può essere espulso se non convive con la moglie quando la mancata coabitazione “dipende esclusivamente da ragioni economiche”. Secondo la Corte il difetto di convivenza non è rilevante quando non esiste una separazione consensuale o giudiziale e la scelta è stata determinata solo da ragioni economiche.

Corte di Cassazione, sentenza n. 38157 del 27.10.2010

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il permesso di soggiorno, ottenuto per cure mediche in relazione a uno stato di avanzata gravidanza, non evita la condanna per immigrazione clandestina se la donna è presente da tempo sul territorio in modo irregolare. La Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto esclude che un permesso di soggiorno, chiesto per motivi terapeuetici in vista di un parto, possa regolarizzare la situazione dell’immigrata presente clandestinamente in Italia. Il testo unico sull’immigrazione – sottolinea il Collegio – prevede, infatti, che la richiesta del permesso debba essere fatta entro 8 giorni dall’ingresso sul territorio nazionale e non quando ragionevolmente si ritiene di poterlo ottenere perché come nel caso esaminato, ci si trova in stato di avanzata gravidanza.