Estorsione mafiosa: condannato intermediario

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Il caso

Condannato per il reato di «tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso» un uomo che aveva fatto da intermediario tra i titolari di una concessionaria e degli esponenti di un clan criminale per ottenere, in favore di questi ultimi e facendo riferimento al nome di un esponente di spicco del clan. un “risarcimento” di 10000 euro per il disturbo arrecato loro dalla polvere e dalle vibrazioni prodotte dai lavori della realizzazione della concessionaria su un terreno adiacente alle loro ville.

Avverso tale sentenza l’uomo proponeva ricorso presso la Suprema Corte a mezzo del suo legale di fiducia lamentando tra gli altri motivi la mancata considerazione dell’effettivo danneggiamento arrecato alle abitazioni adiacenti al luogo dove era avvenuta la costruzione della concessionaria.

Secondo il legale inoltre la configurazione dell’aggravante del metodo mafioso sarebbe contraddittoria e illogica giacché ritenuta sussistente sul mero riferimento al nome di un uomo il cui legame con l’organizzazione criminale non era stato dimostrato.

 I Giudici di terzo grado concordano con la Corte d’Appello di Roma che, al pari del primo Giudice, ha ritenuto provato che l’imputato fosse portatore di un interesse personale nella vicenda, e che avesse minacciato implicitamente i titolari della concessionaria per ottenere un ingiusto profitto, «atteso che gli eventuali danni corrispondevano al più a vibrazioni o a immissioni di polvere, non quantificabili nella somma di Euro 10000». 

Corretta e logica la configurazione dell’«aggravante del metodo mafioso»,viste le «modalità della condotta» dell’uomo e, in particolare, dell’«evocazione del clan, in un territorio connotato dal predominio di tale sodalizio». 

Decisiva per la Suprema Corte l’«evocazione» nella trattativa con la parte offesa del «nome di un personaggio di spicco della famiglia» e del riferimento diretto al gruppo malavitoso quando, sempre l’imputato «ha tentato di dissuadere i titolari della concessionaria dal resistere alle pretese del clan, dicendo «sono tanti» e con ciò rammentando che la loro caratura criminale era notevole e che anche l’arresto di qualche esponente non avrebbe scoraggiato gli altri da azioni ritorsive». 

I Giudici ricordano in merito al caso di specie che ricorre la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 bis c.p., comma 1, «quando l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad un’associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune».

Con la sentenza n. 33097/21 del 7 settembre la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.