Corte di Cassazione, sentenza n. 42588 del 18.11.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che va sospeso dall’attività il ginecologo indagato per omicidio colposo. La Corte di Cassazione ribalta il verdetto sia del Gip sia del tribunale di sorveglianza, che avevano considerato superflua la misura interdittiva nei confronti di un chirurgo ginecologo. Contro il medico il Pubblico ministero aveva aperto un procedimento ravvisando una grave negligenza nella morte di una paziente per le conseguenze di una laparoscopia. L’intervento, tra l’altro sconsigliato per il tipo di patologia, era stato eseguito in maniera tanto scorretta da procurare alla paziente lesioni gravi all’intestino e alla vescica. Conseguenze di cui il medico si era reso conto nel corso dell’intervento senza però riparare ai danni, neppure nei giorni successivi quando le condizioni della signora erano peggiorate. Il ginecologo era inoltre già stato querelato per lesioni gravissime procurate a un’altra sua “assistita” con un raschiamento. In considerazione di una condotta tanto grave da far ipotizzare addirittura un omicidio volontario, benché sotto l’aspetto del dolo eventuale, il pm aveva rinnovato anche in sede d’appello la richiesta di uno stop all’attività, incassando il doppio no del Gip e del Tribunale del riesame. Secondo i giudici la misura doveva considerarsi superflua nei confronti di un indagato per un reato di natura colposa per giunta incensurato. In più, a garanzia delle pazienti, c’era la disposizione dell’ospedale che aveva vietato l’esecuzione di interventi come quello fatto dal ricorrente. Non è d’accordo la Cassazione che giudica opportuna la sopensione dall’attività per escludere il rischio concreto di offendere nuovamente interessi collettivi già colpiti. La Cassazione invita a tenere presente quanto disposto dall’articolo 133 del codice penale sulla gravità del reato. In particolare la personalità dell’indagato, incline a violare regole cautelari, l’evitabilità dell’evento e il grado di esigibilità della condotta omessa
Corte di Cassazione, sentenza n. 42428 del 17.11.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che anche una stampante se lanciata contro una persona può essere considerata un’arma impropria e dar luogo alla relativa aggravante in un reato di lesioni volontarie. Per la Suprema Corte “correttamente i giudici di Appello mutuano il concetto di arma impropria, indicativo di qualunque strumento ad atto ad offendere di cui sia vietato il porto senza giustificato motivo, oltre che dal disposto testuale dell’articolo 585 comma 2 n. 2 Cp, anche dall’articolo 4 comma 2 legge n. 110/1975, che per l’appunto definisce la nozione della categoria di oggetti che non è consentito portare fuori dell’abitazione senza un motivo giustificato, individuandoli in qualsiasi strumento chiaramente utilizzabile, per circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”.
Non è dunque richiesta alcuna tipicità funzionale di qualsivoglia oggetto che, per circostanze spaziali e temporali, venga con modalità casuali, ma volontarie, utilizzato con finalità offensiva e quindi difformi rispetto alla naturale o merceologica destinazione.
Corte di Cassazione, sentenza n. 42114 del 16.11.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che durante una torneo di calcio se un ragazzino sferra un destro ad un avversario, mentre l’azione si stava svolgendo in tutt’altra parte del campo commette lesioni personali.
Per Piazza Cavour, infatti, l’infrazione delle regole va sempre valutata in concreto con riguardo “all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco”. Inoltre, l’azione lesiva, per essere giustificata, non deve integrare una infrazione della regola sportiva e se lo fa deve essere “compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto agonistico di svolgimento”.
Pertanto, “un pugno inferto all’avversario quando il pallone sia giocato in altra zona del campo è condotta gratuita, estranea alla logica dello sport praticato, nonché dolosa aggressione fisica dell’avversario per ragioni affatto avulse dalla peculiare dinamica sportiva”.
Infatti, nel calcio “l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone”, oppure da movimenti anche senza la palla funzionali però “alle più efficaci strategie tattiche – blocco degli avversari; marcamenti vari; tagli in area e quant’altro – e non può ricomprendere tutto quanto avvenga in campo”, anche se durante l’orario di gioco
Corte di Cassazione, sentenza n. 40678 del 09.11.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che è possibile parlare di desistenza volontaria solo quando l’autore del crimine ha ancora il pieno controllo dell’azione che intendeva compiere. La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, spiega in quali circostanze può essere esclusa l’accusa di reato tentato e attribuire l’attenuante della desistenza volontaria. La Suprema Corte afferma innazitutto che la desistenza attiva, per assumere un rilievo giuridico, presuppone un’azione penalmente rilevante. E’ dunque necessario che si entri nella fase del tentativo punibile e che esista concretamente la possibilità di compiere il delitto. Due i criteri indicati dalla dottrina per individuare il momento ultimo in cui la configurabilità è ancora possibile: la “continuità temporale” e “il dominio diretto” dell’azione intrapresa. In termini di sostanziale “continuità temporale” l’autore deve invertire con modalità “inequivoche” una situazione di cui ha ancora il pieno dominio, che non gli sia dunque sfuggita di mano per ragioni che prescindono dalla sua volontà.
Corte di Cassazione, sentenza n.39271 del 31.10.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che il giudice per l’udienza preliminare non può entrare nel merito della vicenda quando emette un verdetto di non luogo a procedere. La Corte di cassazione con la sentenza in oggetto invita il Gup a non utilizzare nelle udienze preliminari logiche previste solo per il dibattimento e ad astenersi dal fare valutazioni sui fatti oggetto del procedimento. Gli ermellini ricordano, infatti, che la sentenza di non luogo a procedere ha un carattere prevalentemente processuale e non di merito. Il ruolo del giudice è quindi limitato a verificare la “tenuta” delle prove raccolte rispetto alla tesi che il pubblico ministero intende portare avanti con lo scopo di evitare che arrivino in giudizio cause “insostenibili”.
La semplice verifica della consistenza delle prove – La scrematura del non luogo a procedere riguarda le vicende in cui è evidente l’infondatezza dell’accusa, quelle in cui esiste una prova di innocenza o, per finire, quelle in cui gli elementi acquisiti sono pochi o contraddittori e quindi considerati troppo deboli per reggere un processo. La Suprema corte ha accolto, nel caso specifico, il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del Gup di Trento che aveva deciso il non luogo a procedere facendosi un po’ troppo “prendere la mano” fino a esprimere praticamente un giudizio di non colpevolezza nei confronti del conducente di un camion coinvolto in un incidente in cui era morto un motociclista. Considerazioni oltre tutto non corrette. Il giudice per le indagini preliminari aveva, infatti, ritenuto irrilevanti elementi al contrario importanti, come la velocità dei veicoli o l’utilizzo dei segnali luminosi. Questioni e tematiche, trattate in maniera superficiale e generica la cui soluzione è demandata alla fase del dibattimento. Per questo la Corte di piazza Cavour rinvia gli atti al Tribunale di Trento
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che per la custodia in carcere sono utlizzabili i brogliacci delle intercettazioni.
La Suprema corte respinge quindi la tesi sostenuta nel ricorso di una violazione del diritto di difesa. Il legale lamentava anche di essere stato informato dai carabinieri della possibilità di accedere ai supporti magnetici e non dallo stesso pubblico ministero. Ma non basta, secondo il ricorrente, un’ulteriore violazione c’era stata con l’utilizzo di impianti diversi da quelli a disposizione della procura.
Corretto, a parere del Supremo collegio, il comportamento del Pm che aveva provveduto alla duplicazione dei Dvd e per metterli a disposizione della difesa che non aveva voluto usufruirne solo in ragione di una supposta “irritualità” della comunicazione delegata dalla procura ai carabinieri. Corretto, infine per gli ermellini, anche il ricorso agli strumenti alternativi, legittimati dalla situazione eccezionale d’urgenza. La Cassazione precisa, infatti, che l’esigenza di rapidità giustifica l’uso di mezzi “extra moenia”. Una condizione legittimante che ricorre anche quando le apparecchiature in dotazione sono insufficienti o inadeguate rispetto alle indagini da svolgere.
Corte di Cassazione, sentenza n. 39163 del 28.10.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precito che al dializzato va riconosciuto il legittimo impedimento a comparire in udienza. La Corte di Cassazione, afferma il dovere del giudice di prendere conoscenza del calendario dei trattamenti dell’imputato, costretto alla dialisi per un’insufficienza renale, in modo da fissare udienze che non coincidano con i giorni di terapia. Una conclusione diametralmente opposta rispetto a quella a cui erano arrivati i giudici di merito che avevano escluso il legittimo impedimento ipotizzando, senza fare le opportune verifiche, per l’imputato la possibilità di spostare le date della dialisi. La seconda sezione penale sottolinea che il diritto alla salute non può essere degratato neppure in presenza di altri beni di rilievo costituzionale. “In tema di impedimento dell’imputato a comparire al dibattimento deve ritenersi idonea a documentare l’effettiva sussistenza di un impedimento assoluto a comparire la certificazione sanitaria dalla quale emerga che lo stesso trovi causa in un motivo di salute, effettivo ed attuale, quale che sia il grado di pericolo che la malattia in atto comporta, poiché il diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” in base all’articolo 32 della Costituzione, non può essere sottoposto a graduazioni o essere misurato nella sua entità
Corte di Cassazione, sentenza n. 39237 del 28.10.2011
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha preisato che deve essere condannato per calunnia chi dichiara di aver perso un assegno che ha in realtà dato in pagamento. Un reato che scatta a prescindere dalla mancata querela per appropriazione indebita da parte del mentitore. La Corte spiega il risvolto, per nulla innocuo, di una bugia che potrebbe avere come effetto quello di trasformare in ladro o ricettatore chi in tutta buona fede ha incassato il titolo consegnato spontaneamente.