Nelle gare di appalto in caso di a.t.i constituenda la garanzia deve essere intestata a tutte le associate

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Consiglio di Stato sez. III sentenza 03/08/2015 n.3799

Fatto
FATTO e DIRITTO
I dottori Cr. Be. e gli altri indicati in epigrafe, commissari capo del Corpo forestale dello Stato provenienti da altri ruoli del medesimo Corpo, vincitori di concorso interno per l’accesso al ruolo direttivo e, al termine del corso biennale di conferma nel nuovo ruolo, assegnati alle rispettive sedi di servizio (diverse dalle precedenti), hanno proposto davanti al TAR per il Lazio, sede di Ro., ricorso diretto ad ottenere il diritto alla corresponsione dell’indennità di trasferimento di cui all’art. 1 della legge n. 86 del 2001 e alla fruizione del relativo congedo straordinario di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 395 del 1995, denegato con nota 8 marzo 2011 n. 506 dell’Ispettorato generale, su parere del Dipartimento della funzione pubblica, nella considerazione che l’assegnazione della sede è effettuata in base alla scelta dell’interessato all’esito del corso (secondo l’ordine di graduatoria e nell’ambito delle disponibilità) e che la partecipazione al concorso ha carattere volontario.
Il ricorso è stato respinto con sentenza 17 marzo 2012 n. 2609 della sezione seconda ter, non risultante notificata, appellata con atto inoltrato per la notifica il 25 ottobre 2012 e depositato l’8 novembre seguente.
A sostegno dell’appello hanno dedotto:
a) relativamente alla pronuncia sull’attribuzione dell’indennità di trasferimento: erroneità del presupposto logico, illogicità e contraddittorietà con i precedenti giurisprudenziali non solo dello stesso Tribunale, ma anche del Consiglio di Stato;
b) relativamente alla pronuncia sul congedo straordinario per trasferimento: omessa pronuncia.
Hanno poi riproposto i motivi di primo grado rubricati “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 86 del 2001 e dell’art. 15 del D.P.R. 31 luglio 1995 n. 395”.
Il Ministero si è costituto in giudizio e con memoria del 15 aprile 2015 ha svolto controdeduzioni.
A loro volta con memoria del 17 seguente gli appellanti hanno insistito nelle proprie tesi e richieste, poi in data 29 aprile 2015 hanno replicato alle difese dell’Amministrazione.
L’appello, introitato in decisione all’udienza pubblica del 20 maggio 2015, è infondato alla stregua dei precedenti della Sezione in fattispecie similari concernenti proprio appartenenti al Corpo Forestale dello Stato vincitori di selezioni i quali, all’esito di apposito corso, sono stati assegnati a determinate sedi disponibili.
In particolare, è stato affermato che, avendo scelto del tutto volontariamente di partecipare al concorso o selezione ed al relativo corso o addestramento per svolgere un’attività da loro ritenuta di maggior interesse, sulla base della loro domanda di partecipazione hanno accettato di essere assegnati ad una delle sedi disponibili; conseguenza, questa, della stessa partecipazione, conosciuta e voluta dai partecipanti. Ne deriva l’esclusione, in capo agli interessati, della spettanza dell’indennità di trasferimento e delle altre provvidenze connesse al mutamento di sede, tenuto conto dell’accertata natura non autoritativa della destinazione disposta nei loro confronti (vedansi, al riguardo, Cons. St., sez. III, 13 febbraio 2014 n. 709 e 9 aprile 2014 n. 1695, quest’ultima confermata con sent. 6 febbraio 2015 n. 607 dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso per revocazione proposto dagli appellati soccombenti in appello; nonché Cons. St., sez. II, 3 luglio 2014 nn. 7400 ed altri in pari data, oltreché Cons. St., sez. IV., 5 novembre 2004 e 13 luglio 1998 n. 10831, ivi richiamate).
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal riferito orientamento.
Invero, l’art. 1, co. 1, della legge 29 marzo 2001 n. 86 ss.mm.ii. stabilisce espressamente che la cosiddetta indennità di trasferimento spetta al personale ivi elencato trasferito “d’autorità” ad “altra” sede di servizio sita in un comune diverso da quello di provenienza. La norma presuppone, perciò, che il trasferimento stesso sia stato disposto d’ufficio dall’amministrazione di appartenenza in relazione alle proprie esigenze di servizio, indipendentemente da una domanda dell’interessato.
È quindi evidente come la prima assegnazione della sede di servizio all’atto della immissione in ruolo di soggetti esterni all’amministrazione non possa essere equiparata a siffatto trasferimento d’autorità e, per vero, neppure al trasferimento in sé, mancando una “altra” sede di servizio.
A detta prima assegnazione è invece perfettamente assimilabile quella qui in esame, diretta conseguenza del chiesto transito (non per progressione ordinaria di carriera, ma previa domanda di partecipazione e superamento del concorso interno nonché del successivo corso) nella carriera direttiva diversa da quella di provenienza, vale a dire dell’instaurazione di un nuovo rapporto sia pur senza soluzione di continuità c. 1 precedente, comportante la destinazione ad una sede “prima” di servizio rispetto alla nuova carriera ed al nuovo rapporto.
Analogamente è a dirsi per il congedo straordinario, previsto dall’art. 15 “In occasione del trasferimento del personale, per le esigenze di trasloco e di riorganizzazione familiare presso la nuova sede di servizio”. Non ne ricorre, infatti, il presupposto del “trasferimento” (d’ufficio o a domanda), cioè della connessa “modifica” della sede di servizio, trattandosi, si ribadisce, di assegnazione a prima sede nell’ambito del novato rapporto c. 1 Corpo Forestale dello Stato per passaggio volontario a nuova carriera.
In conclusione, l’appello dev’essere respinto, mentre la natura della controversia consiglia la compensazione tra le parti delle spese del grado.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, respinge il medesimo appello.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Angelica Dell’Utri, Consigliere, Estensore
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Alessandro Palanza, Consigliere
Pierfrancesco Ungari, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 03/08/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consiglio di Stato sez. III sentenza 10/07/2015 n.3477

FATTO e DIRITTO
1. – L’odierno ricorrente, premettendo di essere stato alla dipendenze dell’USL 37 dal 19.5.1979 con la qualifica di operatore tecnico presso l’Ospedale Capilupi di Capri, aveva chiesto, con ricorso notificato il 2.9.1992, il riconoscimento del diritto al pagamento dei turni del servizio di pronta disponibilità prestati dal mese di febbraio del 1989, con conseguente condanna alla corresponsione delle relative somme.
2. – All’esito del giudizio, in accoglimento del ricorso, con decisione n. 5947/2010 il Consiglio di Stato ha condannato la Gestione liquidatoria al pagamento del compenso spettante per i servizi di pronta disponibilità svolti dal febbraio 1989 all’agosto 1990, negli importi indicati nell’atto introduttivo in primo grado detratto l’acconto corrisposto (per complessivi € 5.015,00), oltre agli interessi e alla rivalutazione di legge e alle spese e competenze del doppio grado di giudizio.
3. – Il Sig. Ma. Mi. ha quindi agito per l’ottemperanza di tale pronuncia, deducendone la mancata esecuzione da parte dell’Amministrazione, inutilmente messa in mora con atto stragiudiziale del 20.12.2010.
4. – Questa Sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso per ottemperanza con la sentenza n. 4014/2011, ordinando alla Gestione liquidatoria di pagare al ricorrente le somme a lui riconosciute nella decisione n. 5947/2010, dallo stesso quantificate nell’importo complessivo di € 19.977,60, nel termine di giorni 60 dalla notificazione o dalla comunicazione, ove antecedente, della medesima sentenza n. 4014. La stessa sentenza provvede, ove decorra inutilmente l’ulteriore termine di 60 giorni, alla nomina di un Commissario ad acta, nella persona del Prefetto di Napoli, con facoltà di delega ad un Funzionario prefettizio di comprovata esperienza, che dovrà dare esecuzione alla decisione n. 5947/2010, ponendo in essere tutti gli adempimenti necessari affinché al ricorrente siano finalmente liquidate le somme dovute. La sentenza precisa che sull’esito di tali adempimenti, oltre che su eventuali ostacoli o difficoltà, il Commissario informerà tempestivamente e con continuità la Sezione, cui potrà richiedere chiarimenti ove necessario.
5. – Il Prefetto di Napoli, essendo decorso il termine di 60 giorni, con decreto n. 2257 del 15.11.2011 nominava il dott. An. Ri. Commissario ad acta per l’esecuzione di tutte le sentenze del Consiglio di Stato pronunciate a favore dei dipendenti della USL 37 Associazione dei Comuni di Napoli.
Dopo una serie di incontri avvenuti nei locali della Prefettura di Napoli, lo scambio di vari documenti e note interlocutorie, il Commissario ad acta, con delibere dalla n. 107 alla n. 118 del 28.6.2012, avendo preso atto dei pagamenti già intervenuti, liquidava ai dipendenti dell’ex USL ulteriori somme per un ammontare complessivo di € 80.978,75.
La Gestione Liquidatoria delegava nuovamente la Regione al pagamento, ma gli uffici regionali chiedevano al Commissario chiarimenti sugli importi calcolati nelle sue delibere ricevendo risposta con la delibera n. 123 del 6.11.2012 con la quale il Commissario forniva alcuni chiarimenti sulle basi di calcolo e liquidava, ad integrazione delle precedenti delibere, ulteriori somme in favore dei dipendenti.
A seguito di una riunione presso la Regione Campania ed ulteriori strumenti di pagamento da parte del Commissario, questo emanava ulteriori deliberazioni (dalla delibera n. 155 del luglio 2013 alla delibera n. 172 del novembre 2013) che prevedevano altre spettanze.
Avverso queste ultime delibere la Regione Campania aveva proposto innanzi al TAR ricorso che è stato dichiarato inammissibile con la sentenza n. 1961/2014, perché proposto innanzi al giudice incompetente. Da ultimo, sulla base dell’ulteriore documentazione inviata dalla Regione, il Commissario ad acta ha emanato il provvedimento n. 400 del 2014 per rideterminare alcuni importi indicati nelle precedenti delibere.
6. – Avverso tale ultimo provvedimento la Regione Campania ha proposto ricorso ex art. 114, co. 6 cod. proc. amm., chiedendo l’annullamento del provvedimento medesimo. I vizi lamentati dalla Regione Campania sono innanzitutto la carenza di motivazione e la mancata indicazione dei criteri di calcolo adottati dal Commissario ad acta.
La Regione inoltre asserisce che pochi giorni dopo la proposizione del ricorso per ottemperanza veniva liquidata da parte della Gestione Liquidatoria, con decreto n. 10 del 14.4.2011, la somma complessiva di 101.063,53 euro e la Regione veniva delegata al pagamento della medesima – nella parte spettante a ciascun dipendente – che avveniva con decreto dirigenziale n. 221 del 29.9.2011 da parte del Settore regionale competente tramite accredito sul c/c della ASL Napoli I Centro mediante i mandati n. 10637 e dal n. 10639 al n. 10650, debitamente trasmessi al Tesoriere.
La Regione precisa, quindi, di aver integralmente pagato quanto dovuto in ottemperanza alle sentenze del Consiglio di Stato (con decreto dirigenziale n. 221 del 29.9.2011 e n. 344 del 20.12.2011).
Lamenta inoltre che il calcolo svolto dal Commissario ad acta sia errato perché non è stata rispettata la corretta metodologia indicata dalla Adunanza Plenaria n. 3 del 1998 che impone che gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, anche per i crediti maturati prima del 1.1.1995, debbano essere calcolati separatamente sull’importo nominale dei crediti retributivi. Inoltre essi devono essere calcolati sull’ammontare netto del credito del pubblico impiegato e non sulle somme al lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali come fatto dal Commissario ad acta.
7. – La parte ricorrente per ottemperanza indicata in epigrafe, analogamente a quanto fatto da altri dipendenti in ricorsi per ottemperanza identici e paralleli, ha depositato un atto composto da due parti, la prima costituita dalla memoria difensiva e la seconda costituita da una istanza di sostituzione del Commissario ad acta nominato dal Consiglio di Stato.
Con la prima parte di detto atto eccepisce innanzitutto la tardività e la improcedibilità del reclamo sia per mancata impugnazione delle prime delibere commissariali (dalla n. 107 alla n. 118 del 28.6.2012) sia perché il provvedimento n. 400 del 2014 del Commissario ad acta, di cui si chiede l’annullamento è stato notificato alla Regione Campania in data 8.7.2014 e il ricorso avverso lo stesso è stato notificato al Commissario ad acta solo in data 11.11.2014 (ma in data 21.10.14 ai dipendenti) e cioè il ricorso sarebbe tardivo perché notificato al Commissario ad acta ben oltre il termine di 60 giorni indicato dall’art. 114, comma 6, c.p.a.. Ribadisce inoltre la correttezza della metodologia seguita dal Commissario ad acta nel calcolo delle somme che si evince chiaramente dall’ultimo provvedimento n. 400 del 2014. Ne. specifico, gli interessi sono stati “calcolati sul capitale rivalutato via via annualmente” e, asseritamente, ai sensi della sentenza della Adunanza Plenaria n. 3/1998 e sulle somme al lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali.
La seconda parte dell’atto depositato dai dipendenti è costituita da una istanza di sostituzione del Commissario ad acta che si basa sulla circostanza che il Commissario ad acta si sia erroneamente limitato ad emettere delle delibere senza disporre il pagamento con intervento proprio alla Tesoreria della Pubblica Amministrazione intimata, non riuscendo dunque ad ultimare l’iter esecutivo.
8. – Nella memoria di replica, la Regione contesta l’asserita tardività del reclamo innanzitutto perché ritiene che la delibera n. 400 del 2014, contrariamente a quanto affermato dalla parte ricorrente per ottemperanza, non sarebbe di mero aggiornamento delle precedenti, ma, anzi, ridetermina le somme asseritamente ancora dovute ai controinteressati variando in parte la base di calcolo degli importi, riconoscendo alcuni errori delle precedenti delibere e comunque perpetuando le illegittimità di cui sono inficiate queste ultime. In secondo luogo osserva che la notifica del reclamo al Commissario ad acta è del 21.10.2014.
9. – La causa è stata chiamata alla camera di consiglio del 26 febbraio 2015, unitamente ad altre 11 cause identiche. La Regione deposita l’originale notificato del ricorso ex art. 114, comma 6 c.p.a., che viene riqualificato come richiesta di chiarimenti, ai sensi dell’art. 112, comma 5, e 114, comma 7, c.p.a.. All’esito della discussione, il Presidente dispone che le cause vengano trattenute in decisione.
10. – Il Collegio, anche sulla base della discussione in udienza, riqualifica preliminarmente, a norma dell’art. 32 c.p.a., l’azione che ha attivato il presente giudizio in conformità ai suoi elementi sostanziali quali risultano al giudice dell’ottemperanza nello svolgimento dei compiti che a lui spettano ai sensi dell’art. 114, comma 6, primo periodo, c.p.a.: una volta che sia processualmente investito della questione ” Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta “.
11. – Nella accezione più ampia e generale definita da questa norma, il compito del giudice dell’ottemperanza è quello di salvaguardare l’attuazione del giudicato tra le parti anche nei confronti del Commissario, qualora avvenga che egli se ne discosti, non giunga a decisioni conclusive e non sia riuscito a distanza di tempo a completare il suo mandato, come avviene nel caso in esame ove si verificano tutte e tre le ipotesi appena prospettate.
12. – Il presente procedimento di ottemperanza si trova appunto in questa situazione. Si sono infatti susseguite reciproche e irrisolte contestazioni tra le parti, che hanno dato luogo a continui aggiustamenti dei provvedimenti adottati dal Commissario che non sono giunti ad un assetto definitivo. Ne. specifico, a seguito delle delibere dalla n. 107 alla n. 118 del 28.6.2012, emanate dal Commissario ad acta per liquidare ulteriori somme rispetto a quelle determinate dalla Amministrazione, la Regione ha mosso rilievi e chiesto chiarimenti. Il Commissario ad acta ha quindi emanato la delibera n. 123 del 6.11.2012 per liquidare ulteriori somme in risposta ai chiarimenti chiesti dagli uffici regionali. Dopo ulteriori rilievi e segnalazioni della Regione, è stata convocata una riunione presso la Regione Campania, dopo la quale il Commissario ad acta ha provveduto, nel novembre 2013, a emanare ulteriori deliberazioni (dalla n. 155 del luglio 2013 alla n. 172) indicanti altre spettanze. Tali determinazioni sono state nuovamente contestate dalla Regione con altri documenti che hanno portato il Commissario ad acta, per rideterminare alcuni importi indicati nelle precedenti delibere, ad emanare il provvedimento n. 400 del 2014, oggetto del reclamo da ultimo presentato dalla stessa Regione. Le parti ricorrenti nel giudizio di ottemperanza della cui attuazione si tratta hanno invece avanzato nel presente giudizio la richiesta di sostituzione del Commissario ad acta, allegando il mancato completamento del suo compito, dal momento che si è limitato ad emettere una serie di delibere senza disporre l’effettivo pagamento delle somme.
13. – Il Collegio ritiene pertanto che gli atti del Commissario non possano essere considerati compiuti e dotati di efficacia e quindi definitivi in modo da consentire la presentazione di reclami a norma dell’art. 114, comma 6, e la decorrenza dei relativi termini:
– per le modalità con le quali sono stati assunti e ripetutamente corretti attraverso continue successive variazioni;
– per non aver dato luogo ai relativi ordini di pagamento (come lamentato dagli originari ricorrenti);
– per non essere stati comunicati al giudice dell’ottemperanza (come formalmente prescritto dalla sentenza n. 4014/2011) e quindi depositati agli atti del giudizio;
– per il manifesto travisamento dei criteri fissati dalla sentenza n. 5947/2010per il computo di interessi e rivalutazione monetaria che, come affermato dall’Amministrazione e riconosciuto dagli stessi ricorrenti per l’ottemperanza, sono stati invece “calcolati sul capitale rivalutato via via annualmente” e sulle somme al lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali, senza neppure richiedere al giudice dell’ottemperanza i chiarimenti necessari dopo le contestazioni dell’Amministrazione, secondo le espresse indicazioni della sentenza n. 4014/2011.
14. – Ciò è avvenuto anche per la ultima delibera n. 400/2014, la quale è stata oggetto di contestazioni da parte dell’Amministrazione, per la quale non è stato emesso dal Commissario il relativo ordine di pagamento e che non risulta depositata agli atti in giudizio secondo la banca dati della Giustizia Amministrativa. Contrariamente alle precedenti delibere, la delibera n. 400 del Commissario ad acta non è stata oggetto di successive correzioni, ma l’Amministrazione era tuttavia in condizioni di attendersi plausibilmente che il Commissario, di fronte alle sue motivate argomentazioni, come avvenuto in precedenza, rinnovasse i calcoli. Invece il Commissario in questo caso non ha modificato la delibera, ma non ha neanche adottato l’ordine di pagamento. L’atto è quindi rimasto incompiuto.
15. – In ogni caso, nelle circostanze sopra riferite, anche se si volesse ritenere la delibera n. 400 un atto in sé compiuto e in grado di produrre effetti, il Collegio non potrebbe che riconoscere all’Amministrazione il beneficio dell’errore scusabile sia per l’incertezza del termine a quo da cui decorre il termine di cui all’art. 114, comma 6, secondo periodo, sia per la incertezza, le continue variazioni e l’incompiutezza che connotano il comportamento del Commissario e i suoi atti (al riguardo si fa puntuale riferimento alla argomentazione compiutamente svolta nella recente sentenza di questa stessa Sezione n. 2045 del 23/04/2015).
16. – Per quanto sopra affermato, l’azione esercitata dall’Amministrazione e quella esercitata dai ricorrenti per l’ottemperanza con la istanza per la sostituzione del commissario devono entrambe ricondursi alla procedura di cui all’art. 112, comma 5, e 114, comma 7, per la richiesta di chiarimenti al giudice dell’ottemperanza. Tali richieste di chiarimenti devono essere riferite in termini processuali non a singoli atti, ma alla complessiva attività svolta del Commissario ad acta, dando luogo a decisioni che la investono interamente.
17. – Al procedimento per richiesta di chiarimenti ai sensi dell’art. 112, comma 5, e 114, comma 7, c.p.a., risultano estranee le due eccezioni di ordine processuale avanzate dalla parte ricorrente per l’ottemperanza, in quanto gli atti cui si riferiscono non sono considerati compiuti e quindi impugnabili: sia la eccezione di irricevibilità del reclamo per tardività rispetto al termine di 60 giorni fissato dall’art. 114, comma 6, c.p.a (motivata dal fatto che il provvedimento n. 400 del 2014 del Commissario ad acta di cui si chiede l’annullamento è stato notificato alla Regione Campania in data 8.7.2014 e il ricorso avverso lo stesso è stato notificato al Commissario ad acta solo in data 11.11.2014 – (e in data 21.10.14 ai dipendenti -); sia la eccezione di inammissibilità del reclamo stesso per mancata impugnazione delle precedenti delibere commissariali (motivata dal fatto che la Regione non ha impugnato con il reclamo le prime delibere adottate dal Commissario (- dalla n. 107 alla n. 118 del 28.6.2012 -).
18. – In base alle considerazioni che precedono, a seguito delle istanze proposte dalle parti, qualificate come richieste di chiarimenti, a norma dell’art. 112, comma 5, e 114, comma 7, c.p.a., ai fini del presente giudizio, e nell’esercizio dei compiti di cui all’art. 114, comma 6, primo periodo, il Collegio dispone che le delibere adottate dal Commissario siano pertanto tutte annullate e rinnovate, entro 30 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, dal Commissario nel puntuale rispetto delle prescrizioni indicate al successivo punto 16 ai successivi punti 19 e 20 e con l’aggiunta dei relativi ordini di pagamento, immediatamente esecutivi per l’Amministrazione, salvo tempestivo ricorso alla procedura di cui all’ art. 114, comma 6, secondo periodo. Qualora il Commissario delegato non provveda, nei successivi 30 giorni, dovrà provvedere ai medesimi adempimenti il Prefetto di Napoli quale Commissario ad acta nominato dalla sentenza n. 4014/2011, revocando le deleghe in precedenza rilasciate. Nei predetti limiti è parzialmente accolta la istanza della parte ricorrente nell’originario giudizio di ottemperanza per la sostituzione del Commissario ad acta.
19. – Le somme per rivalutazione monetaria ed interessi sono dovute sugli importi nominali dei singoli ratei, dalla data di maturazione di ciascun rateo e fino al soddisfo, inteso come la data in cui l’Amministrazione ha versato la somma che risulta effettivamente dovuta. Tali somme devono essere computate in rigorosa applicazione dei criteri definiti dal Consiglio di Stato con la sentenza dell’Adunanza plenaria 15 giugno 1998, n. 3, calcolandoli separatamente sull’importo nominale del credito retributivo, sulle somme al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali, escludendo sia il computo degli interessi e della rivalutazione monetaria sulla somma dovuta quale rivalutazione, sia il riconoscimento di ulteriori interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di interessi.
20. – La più recente sentenza della Adunanza Plenaria 13/10/2011, n. 18, con una motivazione molto puntuale, ha precisato che rivalutazione e interessi sono solo un effetto del ritardo e non possono essere inglobati ab origine nel credito, ma entrambi detti elementi accessori debbono essere computati separatamente sulla somma capitale e solo su questa; tali sentenze chiariscono, pertanto, che la base di calcolo da prendere in considerazione per la valutazione di interessi e rivalutazione monetaria di somme arretrate dovute a titolo retributivo, come è logico, debba essere la somma dovuta a titolo principale al netto e non al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, potendosi ritenere produttivo di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito solo il denaro che viene posto a disposizione del creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte, operate dal sostituto d’imposta attraverso rapporto di delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella disponibilità del dipendente.
21. – In conclusione le istanze proposte nel presente giudizio, qualificate quali richieste di chiarimenti nei confronti della complessiva attività del Commissario, ai sensi dell’art. 112, comma 5, e 114, comma 7, c.p.a., devono essere accolte nelle forme e nei limiti indicati nella motivazione. Devono per gli effetti considerarsi annullati o comunque tamquam non esset gli atti parziali e incompiuti fin qui emanati dal Commissario, il quale procederà alla adozione di nuove delibere secondo le modalità indicate nella presente motivazione, con particolare riferimento alla determinazione di interessi e rivalutazione monetaria essendo la somma nominale già stata determinata sulla base della sentenza n. 5947/2010.
22. – Le spese del presente procedimento devono essere compensate tra le parti in relazione alle sopra riferite circostanze. Al compenso del Commissario, ai sensi degli artt. 66 e 67 c.p.a, come previsto dalla sentenza n. 4014/2011, si provvederà con separato provvedimento, in relazione alla qualità del lavoro svolto e al rispetto dei termini, previo deposito da parte del Commissario ad acta di una relazione conclusiva, che dia conto degli esiti secondo quanto prescritto dalla medesima sentenza n. 4014/2011.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
definitivamente pronunciando sul ricorso dell’Amministrazione, in epigrafe proposto, come qualificato in motivazione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.,
lo accoglie in parte e per l’effetto annulla, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, gli atti fin qui compiuti dal Commissario ad acta;
dispone che il Commissario ad acta provveda ad adottare nuove delibere con le modalità e gli effetti di cui in motivazione, nel termine di trenta giorni decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza;
nel caso in cui il termine decorra inutilmente, nei successivi trenta giorni, provvederà ai dovuti adempimenti il Prefetto di Napoli quale Commissario ad acta nominato dalla sentenza n. 4014/2011, revocando le deleghe in precedenza conferite;
la istanza della parte ricorrente nell’originario giudizio di ottemperanza per la sostituzione del Commissario ad acta è parzialmente accolta nei predetti limiti.
Le spese del presente giudizio sono compensate interamente tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Vittorio Stelo, Consigliere
Angelica Dell’Utri, Consigliere
Roberto Capuzzi, Consigliere
Alessandro Palanza, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 10/07/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consiglio di Stato sez. VI sentenza 02/07/2015 n.3301

FATTO e DIRITTO
Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Salerno, sez. II, n. 309/14 del 4 febbraio 2014 è stato respinto il ricorso avverso l’ordine di demolizione e rimessa in pristino n. 375 del 12 settembre 2013 (nonché avverso l’ingiunzione di pagamento n. 376 del 9 settembre 2013 e la nota n. 51700, recante diffida di sgombero del cantiere), non essendo mai stata formalmente rilasciata – benché oggetto di parere favorevole della commissione ex art. 14 del decreto-legge 19 marzo 1981, n. 75 ( Ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti ), convertito dalla legge 14 maggio 1981, n. 219
– sanatoria in variante al permesso di costruire n. 1662 del 21 agosto 2008, con conseguente sanzionabilità delle opere, eseguite in difformità dalla concessione stessa.
Avverso la predetta sentenza è stato proposto appello (n. 8388/14, notificato il 22 settembre 2014) da parte del signor Or. De Co., in proprio e nella qualità di delegato dal condominio interessato, che aveva a suo tempo incaricato lo stesso signor De Co. di provvedere alla ricostruzione dello stabile, denominato ” Palazzo Ca. “, ubicato nel centro storico di Av. e danneggiato da eventi sismici. A seguito di tali eventi, era stata autorizzata (con permesso di costruire n. 1662 del 21 agosto 2008) la ricostruzione dell’immobile, nel rispetto della volumetria e della sagoma preesistenti. Per l’esecuzione del progetto era stato previsto – con leggi nn. 219 del 1981 e 23 gennaio 1992, n. 32 ( Disposizioni in ordine alla ricostruzione nei territori di cui al testo unico delle leggi per gli interventi nei territori della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria colpiti dagli eventi sismici del novembre 1980, del febbraio 1981 e del marzo 1982, approvato con decreto legislativo 30 marzo 1990, n. 76 ) – un contributo pubblico, conclusivamente determinato in €. 995.552,83, ma non erogato per esaurimento di risorse finanziarie.
In tale situazione le quote di alcuni proprietari venivano cedute all’impresa di costruzioni ” Er. Vi. AP.”, che acquisiva così 770,89 millesimi della proprietà e si impegnava a ricostruire il fabbricato, accollandosi le spese eccedenti il contributo.
I proprietari effettuavano quindi la ricostruzione a spese proprie, con alcune modiche rispetto al progetto approvato: modifiche, che non venivano tuttavia ammesse a sanatoria per “mancato pagamento degli oneri concessori, dovuti per il permesso originario ” (€. 78.179,89, non corrisposti per intervenuta crisi finanziaria dell’imprenditore, di cui veniva dichiarato il fallimento), pur risultando sussistente – a fronte del debito indicato – un credito di importo ben maggiore.
In tale contesto, venivano prospettati i seguenti motivi di gravame:
1) omessa pronuncia sulle censure di eccesso di potere sotto vari profili e di violazione di legge (articoli 31, 32, 34 e 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), nonché violazione del principio di correttezza dell’azione amministrativa, risultando applicabile nel caso di specie una sanzione soltanto pecuniaria, non potendosi eseguire la demolizione senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (peraltro per presunti abusi, rilevati senza accertamento dello stato reale dei luoghi ed in assenza di varianti essenziali). Sarebbero state realizzate, infatti, mere variazioni di tramezzatura nelle autorimesse e una diversa distribuzione interna delle unità abitative, senza alcuna modifica di sagoma e volume del fabbricato. La sanatoria, peraltro, era stata approvata, senza il relativo, formale rilascio solo per ragioni ultronee e pertanto con palese sviamento di potere. Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera d) , del d.P.R. n. 380 del 2001, inoltre, la ricostruzione dell’immobile resa necessaria per calamità naturale – avrebbe dovuto essere esente dal contributo di costruzione.
2) Violazione degli articoli 7, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, nonché violazione del giusto procedimento, per omessa comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio;
3) Violazione o falsa applicazione del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché eccesso di potere sottovari profili, con riferimento alla sanzione pecuniaria irrogata per omessa presentazioe della domanda di agibilità, in quanto detta domanda – oltre a risultare di importo sproporzionato – sarebbe stata condizionata dal non avvenuto rilascio della sanatoria;
4) Eccesso di potere per la diffida a liberare il cantiere, in quanto basata su presupposti erronei e richiesta affermazione di titolo legittimante, infine, per il rilascio della sanatoria.
Il Comune di Av., costituitosi in giudizio, eccepiva in via preliminare la sostanziale carenza di interesse alla coltivazione dell’impugnativa, non essendo state impugnate due ordinanze di inibitoria dell’accesso ed uso dei luoghi. I lavori non autorizzati, inoltre, avrebbero determinato un notevole incremento della superficie commerciale in luogo di superfici, precedentemente al servizio della residenza, con modesta modifica della sagoma plano-volumetrica del piano sottotetto, finalizzata alla realizzazione di un balcone e realizzazione di una unità abitativa di mq.66,00 nel medesimo sottotetto. Sia le unità abitative che i locali commerciali, infine, risultavano occupati benché mancassero i certificati di abitabilità, con sussistenza di tutti i presupposti per l’emanazione degli atti impugnati.
A tali controdeduzioni ha replicato l’appellante, rilevando come le ordinanze non impugnate concernessero soltanto la rimozione di alcune vetrate e l’inibizione dell’uso dei piani garage, in quanto non ultimati e privi del certificato di prevenzione incendi.
Il Comune, successivamente, comunicava l’avvenuto pagamento del contributo, con conseguente rimozione di ogni ostacolo al rilascio della sanatoria.
Nell’udienza odierna entrambe le parti hanno confermato l’avvenuto rilascio di concessione in variante e sanatoria: Ne consegue l’inefficacia dell’ordinanza n. 375 del 2013, la cui contestazione era ritenuta non più necessaria.
L’appellante, tuttavia, ha confermato la permanenza di interesse a ricorrere in rapporto ai provvedimenti ulteriori all’ordine di rimessa in pristino, pure oggetto di impugnativa.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che – in conformità alla istanza della medesima parte appellante – la domanda di annullamento, riferita all’ordine di rimozione e ripristino dello stato dei luoghi n. 375 del 12 settembre 2013, debba essere dichiarata improcedibile: detta ordinanza è definitivamente inefficace dopo il rilascio della sanatoria, la cui mancanza costituiva presupposto per l’emanazione dell’atto.
La vicenda, sopra sommariamente riepilogata, rende possibile che dalla medesima sanatoria discenda una complessiva rivalutazione dello stato dei luoghi, con riferimento sia alla diffida a liberare il cantiere (intervenuta in un contesto di accertamenti inadeguato) sia alla sanzione di €. 8.977,00, comminata per omessa presentazione della domanda di agibilità, nei termini previsti dall’art. 25, comma 1, lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001.
L’istanza, che a quest’ultimo riguardo avrebbe dovuto essere presentata, risultava infatti condizionata dall’impossibilità per l’interessata di allegare alla domanda la dichiarazione di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato.
Non appare ragionevole, d’altra parte, l’assenza di considerazioni per le difficoltà incontrate da soggetti che effettuavano un intervento di ricostruzione post-terremoto che avrebbe potuto beneficiare di un finanziamento pubblico (e di cui non è contestata l’omessa erogazione).
Posto dunque che il ritardo per il pagamento della seconda rata del costo di costruzione doveva in qualche misura ascriversi a causa – se non di forza maggiore – quanto meno di giustificabile impedimento (peraltro temporaneo), il Collegio ritiene che la sanzione pecuniaria (di importo nettamente superiore a quanto previsto dall’art. 24, comma 3, del più volte citato d.P.R. n. 380 del 2001) sia stata illegittimamente irrogata e debba pertanto essere annullata: con conseguente, rinnovato decorso dei termini, di cui al citato art. 25 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Per le ragioni esposte – e fatti salvi gli ulteriori accertamenti dell’Amministrazione – il Collegio ritiene che l’appello debba essere in parte dichiarato improcedibile ed in parte accolto. Quanto alle spese giudiziali, il Collegio ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto delle peculiarità della vicenda controversa.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, dichiara in parte improcedibile ed in parte accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe, nei termini precisati in motivazione e, in riforma della sentenza appellata – rilevata la sopravvenuta inefficacia dell’ordine di rimessa in pristino (ordinanza n. 375/2013) – annulla l’ingiunzione di pagamento n. 376/2013 e la diffida n. prot. 51700/2013; compensa le spese giudiziali.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore
Giulio Castriota Sc., Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 02/07/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consiglio di Stato sez. VI sentenza 04/06/2015 n.2744

Fatto
In primo grado oggetto del giudizio è stato il provvedimento con il quale l’Università odierna appellante aveva respinto la richiesta di trasferimento avanzata da studente italiano iscritto presso un’università straniera (spagnola), frequentata per due anni, per non avere superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia.
Il primo giudice, accogliendo il ricorso, annullava il suddetto provvedimento.
L’Università degli Studi dell’Aquila proponeva appello sostenendo la necessità del previo superamento del test di accesso previsto dalla normativa nazionale.
Alla udienza pubblica del 12 maggio 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
Diritto
L’appello è da respingere.
La questione posta dall’appello è stata oramai risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 28 gennaio 2015, che ha stabilito che è illegittima la delibera con la quale il Consiglio di Corso di laurea in medicina e chirurgia di una università italiana respinge l’istanza avanzata da alcuni studenti iscritti al primo anno di studi di Facoltà di medicina di una università straniera, volta ad ottenere il trasferimento presso l’università italiana con iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia con la motivazione che gli studenti, provenendo da università straniere, non avrebbero superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia, requisito essenziale previsto dal manifesto degli studi.
Infatti, la possibilità di transitare al secondo anno o ad anni successivi della facoltà di medicina e chirurgia di una università italiana non può, sulla base della vigente normativa nazionale ed europea, essere condizionata all’obbligo del test di ingresso previsto per il primo anno, che non può essere assunto come parametro di riferimento per l’attuazione del “trasferimento” in corso di studi, salvo il potere/dovere dell’università di concreta valutazione, sulla base di appositi parametri, del “periodo” di formazione svolto all’estero e salvo altresì il rispetto ineludibile del numero dei posti disponibili per il trasferimento, così come fissato dall’università stessa per ogni anno accademico in sede di programmazione, in relazione a ciascun anno di corso.
È stato superato pertanto l’orientamento giurisprudenziale anche della Sezione secondo il quale, la disciplina recante la programmazione a livello nazionale degli accessi non farebbe distinzioni tra il primo anno di corso e gli anni successivi (artt. 1, comma 1, e 4 l. 2 agosto 1999, n. 264, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270 recante il regolamento dell’autonomia didattica degli atenei), per il quale il rilascio del nulla osta al trasferimento da atenei stranieri e l’iscrizione agli anni di corso successivi al primo richiederebbero comunque il previo superamento della prova nazionale di ammissione prevista dall’art. 4 citato (ai fini appunto dell’ammissione), sia per l’immatricolazione al primo anno accademico, sia, come dedotto dall’università odierna appellante, per l’iscrizione ad anni successivi in conseguenza del trasferimento.
Secondo il precedente dell’Adunanza Plenaria, sul piano sistematico:
1) a livello di formazione primaria e secondaria, le uniche disposizioni in materia di trasferimenti si rinvengono ai commi 8 e 9 dell’art. 3 del d.m. 16 marzo 2007 in materia di “Determinazione delle classi di laurea magistrale”, che, senza alcun riferimento a requisiti di ammissione, disciplinano il riconoscimento dei crediti già maturati dallo studente;
2) l’art. 4 l. 2 agosto 1999, n. 264 subordina l’ammissione ai corsi i cui accessi sono programmati a livello nazionale (art. 1) o dalle singole università (art. 2), al “previo superamento di apposite prove di cultura generale, sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi”;
3) la locuzione “ammissione” contenuta nella norma sopra citata fa riferimento al solo “primo accoglimento dell’aspirante nel sistema universitario”;
4) nel definire “modalità e contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato a livello nazionale a.a.2012-2013”, il d.m. 28 giugno 2012 usa indifferentemente i termini di “ammissione” ed “immatricolazione”, facendo riferimento quest’ultimo allo studente che si iscriva al primo anno di corso.
Mentre sul piano giuridico, ha rilevato l’Adunanza Plenaria, i test di accesso mirano a valutare la preparazione di colui che, terminata la scuola superiore, deve ancora entrare nell’università per quelli già inseriti nel sistema (e cioè iscritti ad università italiane o straniere) non si tratta più di accertare, ad un livello di per sé presuntivo, l’esistenza di una “predisposizione” di tal fatta, quanto, semmai, di valutarne l’impegno complessivo di apprendimento dimostrato dallo studente con l’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute.
Una limitazione, da parte degli Stati membri, all’accesso degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo della facoltà di medicina e chirurgia, si porrebbe in contrasto con il principio comunitario di libertà di circolazione.
Pertanto, l’università italiana non può opporre all’istanza di trasferimento il solo fatto del mero mancato superamento dei test di accesso, ma deve in concreto valutare il periodo formativo svolto all’estero e tenere conto dei posti disponibili per i trasferimenti.
Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto, con conseguente conferma dell’appellata sentenza.
A causa della mancata costituzione della parte appellata, nulla deve disporsi sulle spese.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando l’appellata sentenza.
Nulla sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 maggio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere, Estensore
Claudio Contessa, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 04/06/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consiglio di Stato sez. V sentenza 15/05/2015 n.2487

FATTO e DIRITTO
Con verbale del 6 maggio 2015 l’Ufficio Centrale Regionale della Corte d’Appello di Firenze disponeva l’esclusione dalla competizione elettorale regionale del 31 maggio 2015 del gruppo di liste contrassegnato dal simbolo Lega Toscana – Più Toscana, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge regionale Toscana n. 74 del 2004, respingendo quindi il successivo 8 maggio 2015 il ricorso in opposizione presentato avverso tale decisione di esclusione dalla competizione elettorale regionale.
Con ricorso al TAR della Toscana ex art. 129 c.p.a. il sig. M.. Ga., delegato del gruppo di liste che aveva provveduto a depositare il simbolo da cui è contrassegnato il gruppo medesimo, unitamente ad An. Ga. Vi., capolista, Em. Pa. e Lu. Mi. Cl. quali candidati, hanno impugnato il verbale del 6 maggio 2015 e il provvedimento di reiezione del ricorso in opposizione dell’8 maggio 2015 sopra citati, chiedendone l’annullamento, sulla base del seguente motivo di diritto: “Violazione artt. 3, 49, 51 e 97 Cost.; Violazione e/o falsa applicazione artt. 4 e 6 LRT 74/2004; Violazione e/o falsa applicazione artt. 8 e 10 LRT n. 51/2014; Violazione e/o falsa applicazione artt. 16 DPR 361/57 e 33 DPR 570/60; Eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti; difetto di istruttoria e carenza di motivazione; illogicità e contraddittorietà manifeste; disparità di trattamento; manifesta ingiustizia; contraddittorietà tra atti”, in breve contestando l’affermata confondibilità tra il contrassegno delle liste Lega Toscana – Più Toscana e quello della lista Lega Nord Salvini, ritenuto sussistente dall’Ufficio Centrale Regionale, l’asserzione che gli elementi che caratterizzavano il contrassegno della Lega Toscana – Più Toscana potessero dirsi appartenenti tradizionalmente o notoriamente alla Lega Nord, visto il loro passato utilizzo da altre aggregazioni politiche locali presenti in Consiglio Regionale ed evidenziando infine che l’Ufficio Centrale Regionale avrebbe dovuto invitare semmai alla modifica dei simboli presentati, in applicazione analogica di quanto disposto dall’art. 16 del DPR 361 del 1960.
Si costituivano in giudizio l’Ufficio Centrale Regionale, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Firenze eccependo il difetto di legittimazione passiva delle suddette Amministrazioni e chiedendone l’estromissione dal giudizio. Si costituiva in giudizio anche la Lega Nord Toscana e il sig. M. V., quale segretario della stessa.
Con la sentenza n. 769 del 12 maggio 2015 il TAR della Toscana, dichiarata l’infondatezza dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’Ufficio Centrale Regionale, della Prefettura di Firenze e del Ministero dell’Interno, almeno per le controversie attinenti questa fase elettorale, accoglieva il ricorso, affermando sulla base dell’art. 4, comma 4, lett. a) della legge regionale Toscana n. 74 del 2004 che il relativo contrassegno presentato dalla Lega Toscana – Più Toscana non integrava divieto di presentazione alle competizioni elettorali per l’elezione del Consiglio Regionale di “contrassegni identici o confondibili con quelli presentati in precedenza o con quelli notoriamente usati da altri partiti o gruppi politici”, non evidenziando aspetti di confusione con il simbolo presentato per questa consultazione elettorale dalla lista Lega Nord Salvini.
Osservava il Collegio che ai fini di valutare la presentazione di contrassegni di lista identici o facilmente confondibili con quelli già presentati o con quelli notoriamente usati da altri partiti, l’interprete deve fare riferimento alla normale diligenza dell’elettore medio, escludendo l’eventualità del pericolo di confusione tra due simboli laddove gli elementi di differenziazione presenti risultassero prevalenti sugli elementi che accumunavano i due contrassegni. Nel caso di specie, in primo luogo i caratteri differenziali del contrassegno della lista Lega Toscana – Più Toscana non potevano essere messi in discussione per l’uso del sostantivo “Lega”, non avendo la Lega Nord il diritto di utilizzo in via esclusiva vista anche la genericità del termine già comunque utilizzato in altre competizioni elettorali, né tantomeno ciò poteva valere per la parola “Toscana”, trattandosi delle elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale della Toscana. In secondo luogo, gli elementi comuni dei due simboli apparivano irrilevanti, in quanto l’utilizzo della bandiera del Granducato di Toscana era aspetto centrale e predominante del simbolo riportato dal contrassegno della Lega Toscana – Più Toscana, la cui denominazione campeggiava con evidenza nel contrassegno, mentre il contrassegno della Lega Nord Toscana riportava quale elemento identificativo centrale la nota storica figura di A. da G., vero dato identificativo della Lega Nord, al contrario la bandiera granducale si collocava in una posizione del tutto marginale con segni lineari e cromatici del tutto differenti e con l’aggiunta del nome di M. S., rappresentante nazionale della Lega Nord. La confondibilità tra simboli e la possibilità di indurre in errore gli elettori dovevano ritenersi a questo punto insussistenti.
Per completezza il giudice di primo grado rilevava altresì l’irrilevanza giuridica di un’ipotizzabile affinità tra le due compagini politiche, sia perché pacificamente inesistente, sia perché nemmeno richiamata dalla legislazione da applicare.
Con appello depositato in Consiglio di Stato il 14 maggio 2015 M. V. in proprio e nella qualità di Segretario della Lega Nord Toscana impugnava la sentenza in questione, sostenendo l’avvenuta violazione dell’art. 4 comma 4 legge regionale Toscana n. 74 del 2004, punti a) e b), in quanto il simbolo prodotto dalla Lega Toscana – Più Toscana poteva da un lato confondersi con quello della Lega Nord Toscana e dall’altro poteva trarre in errore l’elettore, violandone così la libera espressione, poiché la denominazione Lega Toscana e la bandiera granducale erano già state utilizzate nella Regione dalla Lega Nord, raggruppamento politico di rilevanza e notorietà nazionali fino a tempi recenti, i candidati del raggruppamento Lega Toscana – Più Toscana erano fuorusciti da breve tempo dalla Lega Nord della Toscana, quindi la facile confondibilità non poteva essere esclusa. Nomi e segni grafici militavano per una sorta di comunanza che nella percezione dell’elettore medio locale non potevano escludere un’immagine falsa delle candidature.
L’appellante concludeva per l’accoglimento del ricorso con vittoria di spese.
Si sono costituiti in giudizio Ma. Ga., An. Ga. Vi. ed Em. Pa., sostenendo l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.
La sentenza impugnata merita conferma con le ulteriori integrazioni che seguono.
In primo luogo l’ipotesi sub punto a) dell’art. 4 comma 4 della legge regionale Toscana n. 74 del 2004 appare assolutamente da escludere, così come affermato dal TAR.
Il simbolo assunto nel contrassegno della Lega Toscana – Più Toscana è dominato in pieno campo dalla bandiera granducale ed i margini superiore ed inferiore riportano a caratteri cubitali l’espressione Lega Toscana in alto e Più Toscana in basso; nulla a che vedere con il simbolo della Lega Nord Toscana, dove campeggia in maniera preponderante la figura scultorea di Alberto da Giussano e la bandiera granducale appare da un lato in dimensione minima rispetto al simbolo dei contraddittori; se si aggiunge il cognome Salvini, assolutamente notorio per tutti gli elettori come quello del rappresentante nazionale della Lega Nord, partito ormai espressione di tutto il corpo elettorale e non delle sole regioni settentrionali, né certamente della sola Toscana, cognome stampato in caratteri cubitali nella parte inferiore del simbolo, si deve ritenere eliminato ogni rischio di confusione, dovendosi anche rammentare che le schede elettorali sono stampate a colori.
Ma non sussistono neanche le ragioni rappresentate nel punto b) dell’art. 4 comma 4 della legge regionale Toscana n. 74 del 2004, ossia quelle della confondibilità “politica” tra contrassegni: oltre alla radicale diversità dei contrassegni – già di per sé un elemento che appare decisivo – si deve escludere che l’utilizzo del termine “Lega”, oppure “Lega Toscana” e la numerosa presenza in questo raggruppamento di fuoriusciti provenienti dalla Lega Nord possano configurare un rischio di confusione.
Il termine “Lega”, sia pure assurto nell’ultimo ventennio come automatica definizione della Lega Nord, non può essere ritenuto gravato dal diritto di esclusiva da parte di questo importante partito nazionale, poiché esso è stato oggetto di frequente utilizzo nella storia unitaria italiana; quanto alla definizione di “Lega Toscana”, al tempo impiegato nella stessa Regione dalla Lega Nord, ed alla richiamata presenza di fuoriusciti, tali dati non possono essere considerati fondamentali ai fini del riconoscimento delle liste elettorali da parte dell’elettore medio: la denominazione di “Lega Toscana” è da considerarsi superata dalla presenza del simbolo a forte contenuto identificatorio della Lega Nord e la presenza di fuoriusciti, elencati con i loro dati anagrafici nelle liste elettorali, è negli anni correnti un fenomeno purtroppo usuale di tutta la politica italiana e ove il loro “spostamento” da un partito ad un altro venisse ad assurgere ad esclusione di liste, porterebbe ad una semiparalisi di tutte le competizioni amministrative e politiche che si tengono in Italia.
Per le suesposte considerazioni l’appello deve essere respinto.
Le spese di giudizio restano a carico della parte appellante e sono liquidate nei confronti dei tre soggetti costituiti.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di giudizio a favore delle parti appellate costituite liquidandole in complessivi €. 3.000,00 (tremila/00) oltre agli accessori di legge, ripartendoli in €. 1.000,00 (mille/00) per soggetto costituito.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Manfredo Atzeni, Consigliere
An. Amicuzzi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere
Raffaele Prosperi, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 15/05/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consiglio di Stato sez. V sentenza 11/05/2015 n.2338

Fatto
FATTO e DIRITTO
RILEVATO che con ricorso al T.A.R. per la Puglia il sig. M. C., nella qualità di delegato della lista elettorale “NOI”, Nuovi Orizzonti e Idee, presentata per le elezioni del sindaco e del consiglio comunale di Altamura che si svolgerà il 31 maggio 2015, ha impugnato la ricusazione della lista stessa, disposta dalla terza Sottocommissione elettorale circondariale di Altamura il 2 maggio 2015 in considerazione ” dell’assenza del contrassegno sui moduli recanti le firme dei sottoscrittori della lista “;
PRESO ATTO che il Tribunale adìto con la sentenza in epigrafe ha accolto tale ricorso, richiamandosi all’operatività in questa materia del principio di strumentalità delle forme e soggiungendo:
“… che, sebbene sugli specifici moduli di presentazione non sia stato riportato “graficamente” il contrassegno della lista in questione, quest’ultimo risulta dettagliatamente descritto e per di più in neretto, così come sono stati dettagliatamente indicati i dati anagrafici del candidato Sindaco e di tutti i candidati al Consiglio comunale, sicché può ragionevolmente ritenersi raggiunto lo scopo della consapevolezza da parte dei sottoscrittori della lista che si accingevano a presentare e della sua effettiva composizione;
… che rispetto al predetto scopo, unanimemente riconosciuto quale specifico obiettivo dell’imposizione di particolari forme per la presentazione delle liste elettorali (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 2453 del 26.4.2011 nonché la relazione della stessa terza Sottocommissione elettorale, prodotta in giudizio il 6 maggio 2015, pag. 2, 2º cpv. e pag. 3, ult. cpv.), la rappresentazione grafica del contrassegno debba ritenersi recessiva rispetto alla puntuale indicazione dei candidati;
Ritenuto che, in ogni caso, dalla predetta dettagliata descrizione del simbolo erano agevolmente desumibili anche gli elementi per valutarne l’ammissibilità ai sensi dell’art. 33, comma 1, lett. B) del D.P.R. n. 570/1960;”
OSSERVATO che con il presente appello la sentenza di primo grado viene contestata deducendo, in sintesi:
– che il contrassegno costituirebbe un requisito sostanziale, e non meramente formale, della presentazione della lista;
– che non sarebbe sufficiente la presenza nel modulo di una mera descrizione del contrassegno, in quanto solo la sua presenza effettiva potrebbe garantire la piena consapevolezza, da parte dei sottoscrittori, in ordine alla lista che andavano a sostenere;
– che nella specie non potrebbe trovare applicazione il principio di strumentalità delle forme, bensì in assenza del contrassegno si imporrebbe senz’altro la ricusazione della lista;
CONSIDERATO che questi argomenti non sono suscettibili di trovare adesione;
PRECISATO che è pacifico che nel caso concreto in sede di presentazione della lista sia stato depositato anche il modello del relativo contrassegno, in triplice esemplare (come da verbale del 2 maggio 2015 in atti), vertendo la controversia solo sulla mancata apposizione del contrassegno medesimo sui moduli recanti le firme dei sottoscrittori della stessa lista;
RICORDATO che questa Sezione ha più volte affermato che gli artt. 28, 32 e 33 del d.P.R. n. 570/1960, che disciplinano la raccolta delle firme per la presentazione delle liste elettorali, non contengono prescrizioni dettagliate sulle modalità da seguire e, soprattutto, sulle conseguenze sul piano sanzionatorio di eventuali irregolarità, non potendosi pertanto inquadrare i relativi adempimenti formali nella categoria dogmatica delle c.d. “forme sostanziali” (cfr. le decisioni 11 gennaio 2011, n. 81;
24 agosto 2010, n. 5925;
28 novembre 2008 n. 5911; 17 settembre 2008 n. 4373;
7 novembre 2006, n. 6545);
OSSERVATO, pertanto, che in questa materia deve farsi piuttosto applicazione, come ha correttamente ritenuto il primo Giudice, del principio di strumentalità delle forme del procedimento elettorale (cfr. ad es. le decisioni della Sezione 26 aprile 2011, n. 2453;
9 aprile 2015, n. 1818), canone alla stregua del quale l’invalidità delle operazioni può essere ravvisata solo, come è noto, quando manchino elementi o requisiti che impediscano il raggiungimento dello scopo cui il singolo atto è prefigurato, mentre non possono comportare l’annullamento delle stesse operazioni le mere irregolarità, ossia quei vizi da cui non derivi alcun pregiudizio per le garanzie o compressione della libera espressione del voto (cfr. Sez. V, 23 giugno 2014; 19 giugno 2012, n. 3557);
CONSIDERATO che l’interesse pubblico che la normativa in rilievo nel caso concreto intende salvaguardare è quello di assicurare che i sottoscrittori siano ben consci della lista che contribuiscono a presentare, nel senso che occorre evitare che gli elettori possano firmare su un foglio che non sia idoneo a permettere il proprio collegamento logico a una specifica formazione politica, e, quindi, senza consapevolezza di quale lista si tratti e della sua concreta composizione;
CONSIDERATO, per quanto già esposto, che tale scopo deve ritenersi raggiunto anche quando, pur in assenza della materiale incorporazione del contrassegno di lista nel modulo di presentazione, risulti nondimeno acclarata la consapevolezza dei firmatari in merito alla riferibilità della loro sottoscrizione ad una determinata lista con una specifica composizione;
OSSERVATO che questa Sezione ha avuto altresì già modo di osservare, sullo specifico thema decidendum:
– che la tesi della necessaria incorporazione del contrassegno ” ha un carattere preminente formalistico, non è supportata da alcun elemento testuale ed in ogni caso mal si concilia con il ricordato principio di “strumentalità delle forme” in cui vanno inquadrati gli adempimenti formali di cui si discute, la cui ratio è quella di assicurare che i sottoscrittori abbiano piena consapevolezza della lista che si accingono a presentare e della sua effettiva composizione ” (sentenza n. 11 gennaio 2011, n. 81);
– che ” la circostanziata descrizione del contrassegno, verbalizzata dal segretario comunale, con l’indicazione in seno al contrassegno medesimo del nome e del cognome del candidato Sindaco e la puntuale elencazione dei componenti della lista, con specificazione di data e luogo di nascita di ognuno, costituisce elemento sufficiente ed idoneo al raggiungimento dello scopo di dimostrare la piena ed inequivocabile consapevolezza dei sottoscrittori in ordine alla lista interessata dalla loro volontà adesiva ” (sentenza 26 aprile 2011, n. 2453);
RILEVATO che questa conclusione tanto più si impone nella fattispecie concreta, riguardante una lista civica che non risulta avere partecipato a precedenti elezioni, dal momento che la presenza sul modulo della veste grafica del contrassegno non avrebbe aggiunto concretamente alcunché agli elementi descrittivi ivi già riportati, in quanto il contrassegno non esprimeva ex se alcun significato politico immediato, né si componeva di simboli aventi in se stessi alcuna particolare valenza politica;
RILEVATO, in conclusione, che le ragioni esposte impongono il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata, con un’equitativa compensazione delle spese processuali anche per il presente grado di giudizio;
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese processuali del presente grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 11 maggio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Mario Luigi Torsello, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo’Lotti, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 11/05/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Corte di Giustizia amministrativa per la Sicilia Sentenza n. 195/2015

È legittimo il provvedimento del Questore che ha ordinato la cessazione immediata dell’attività di cartomanzia, semplicemente richiamando le norme del Testo unico di pubblica sicurezza del 1931 e del relativo regolamento, che vietano il “mestiere di ciarlatano”. Sebbene l’affermazione di diritto possa apparire anacronistica e lontana dal contesto storico attuale, a pronunciarla è stata la Corte di Giustizia amministrativa per la Sicilia con la sentenza n. 195 del 2015.

Il provvedimento impugnato – L’ordine del del Questore si limitava a richiamare l’articolo 121 del Tulps in relazione all’articolo 231 del Regolamento di esecuzione che include “tra i mestieri del ciarlatano, ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità, o a sfruttare od alimentare l’altrui pregiudizio, come gli indovini, gli interpreti di sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi, o millantano o affettano in pubblico grande valenza nella propria arte o professione, o magnificano ricette o specifici, cui attribuiscono virtù straordinarie o miracolose”.

Secondo la Corte di Giustizia il semplice richiamo alle citate norme sarebbe sufficiente ad escludere la necessità di una puntuale istruttoria per l’adozione dell’ordinanza. Diversamente, il Giudice di primo grado aveva accolto il ricorso ritenendo fondato il motivo di insufficienza della motivazione, in quanto il Questore non doveva limitarsi alla contestazione dell’attività svolta, ma aveva il dovere di valutare in concreto, attraverso apposita istruttoria e conseguente sufficiente motivazione, l’oggettiva idoneità dell’attività svolta dalla ricorrente a integrare l’ipotesi di ciarlataneria.

La posizione della Corte di Giustizia e il prevalente orientamento – La Corte di Giustizia siciliana ha riformato la sentenza del Tar, peraltro dissentendo dal prevalente orientamento giurisprudenziale condiviso dal Consiglio di Stato.

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, l’elencazione di cui al regolamento Tulps non esaurisce tutte le ipotesi di ciarlataneria, ma è meramente esemplificativa. Ne deriva la necessità di un’approfondita analisi della fattispecie concreta per verificare se tale attività concreti un abuso della credulità popolare e dell’ignoranza. E ciò va fatto anche tenendo conto del mutato contesto storico e sociale rispetto al momento in cui è stata introdotta quella normativa di cui è espressione la stessa giurisprudenza che, da una posizione di assoluta ostilità nei confronti del mestiere di ciarlatano è giunta a ritenere ammissibili le attività di cui si discute in quanto fonte di reddito e quindi soggette al prelievo fiscale al pari di qualsiasi attività professionale (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 510 del 2006, id., Sez. IV, n. 5502 del 2002, e n. 1393 del 2001).

Di diverso avviso il Giudice siciliano, secondo il quale l’attività di cartomante, essendo espressamente ricompresa dall’art. 231 del Regolamento di esecuzione del Tulps tra quelle di ciarlatano, non potrà mai essere esercitata in maniera “professionale”, ma con una “strumentazione” che, per sua natura, farà affidamento sulla credulità e sull’ignoranza di quanti intendono servirsene, con evidente pregiudizio dei valori personali e patrimoniali dell’individuo.
Spiega meglio la Corte che nella lingua italiana il termine “ciarlatano” sta ad indicare il soggetto che sfrutta a proprio vantaggio la credulità altrui, e il termine “cartomante” indica il soggetto che pretende di leggere nel futuro tramite le carte o tramite scienze occulte, cioè segrete e non conoscibili.

Una tale interpretazione deriva dallo stesso art. 12 delle preleggi del codice civile, che impone all’interprete di attribuire alle norme il senso che ad esse deriva dal “significato proprio delle parole”, di cui si compongono. Risulta evidente dunque che l’attività di chi afferma di potere di dare consigli ai “clienti” in quanto capace di leggere nel futuro e di padroneggiare scienze segrete e non conoscibili è proprio quella del ciarlatano, di colui cioè che intende speculare sulla credulità e sull’ignoranza, vantando il possesso di qualità, conoscenze e capacità che, per loro natura, non possono essere comprovate.

La Corte dunque conclude affermando che l’attività svolta dalla ricorrente è oggettivamente idonea ad integrare l’ipotesi di ciarlataneria, in quanto l’attività di cartomante svolta integra l’attività del ciarlatano, con la conseguenza che il semplice richiamo dell’art. 231 del Rd 635/1940 e delle attività che si intendono proibire costituisce sufficiente motivazione del provvedimento impugnato, il quale, quindi, appare esente dai vizi.

Cassazione civile sez. I sentenza 02/04/2015 n. 6673

Il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo.

Tar Palermo, sentenza n. 1995 del 23.07.2014

Il Tar Palermo con la sentenza in esame ha precisato che la demolizione di un’opera abusiva deve colpire il responsabile dell’abuso, che può essere non solo chi ha costruito l’immobile ma anche chi ne ha la concreta disponibilità.

Consiglio di Stato sentenza n. 1364 del 20.03.2014

Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ha precisato che nelle gare d’appalto in caso di a.t.i. costituenda la garanzia dev’essere intestata a tutte le associande, atteso che il soggetto da garantire non è l’a.t.i. nel suo complesso, non ancora costituita, né la sola capogruppo, ma tutte le imprese associande che durante la gara operano individualmente e responsabilmente negli impegni connessi alla partecipazione alla gara stessa, ivi compreso, in caso di aggiudicazione, quello di conferire mandato collettivo alla capogruppo che stipulerà il contratto con l’Amministrazione.