Il ricorso di una donna, parrucchiera costituitasi parte civile, è stato riconosciuto e proposto contro l’assoluzione della titolare, che in primo grado è stata condannata a un anno e quattro mesi più il risarcimento del danno. È la gravidanza della lavoratrice che fa precipitare i rapporti: la datrice ha più volte minacciato di licenziare la ragazza se fosse rimasta incinta. La dipendente chiede di poter continuare a lavorare durante l’astensione per maternità perché ha bisogno di soldi: la titolare rifiuta, la fa seguire da un detective e la licenzia quando la sorprende in prova in un altro salone. Il licenziamento è legittimo ma il giudice del lavoro condanna la datrice a pagare lo straordinario non retribuito: uno dei fatti indicati dalla parte civile, che ne conferma l’attendibilità. Soprattutto sono due clienti del salone a confermare gli insulti e le denigrazioni della titolare, che costringe la parrucchiera incinta a lavare i pavimenti in ginocchio. Con sgradevoli apprezzamenti sull’aspetto fisico.
La corte di Cassazione ha riconosciuto, quindi, la differenza tra il licenziamento per giusta causa, che scatta quando viene meno il rapporto di fiducia e il reato di maltrattamenti, sotto forma di mobbing verticale: le prevaricazioni e le umiliazioni ascrivibili al datore, che approfitta del rapporto di subordinazione, rendono le condotte e le reazioni del lavoratore dipendente irrilevanti a fini dell’accertamento del reato.